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  • Le procedure di infrazione comunitarie: l’UE non è solo disciplina di bilancio

    La principale sanzione è stata la conseguenza di una prima condanna nel 2010 per la gestione dei rifiuti in Campania, relativa sia alle “tonnellate di rifiuti nelle strade della città di Napoli” sia alle ecoballe nella terra dei fuochi. Le procedure di infrazione sono dei provvedimenti avviati dalla Commissione europea nei confronti degli Stati membri nel caso di inosservanza del diritto europeo, protratta in un periodo di tempo. Di norma, dall’emanazione delle direttive UE i Paesi hanno l’obbligo di recepirle nella normativa nazionale entro due anni e chi viola questi principi rischia di essere sanzionato con il pagamento di rilevanti somme di denaro a favore dell’Unione. L’Italia è uno dei Paesi che ha a carico più procedure di infrazione e, per limitare il problema, periodicamente si emanano dei provvedimenti legislativi, l’ultimo dei quali è un decreto-legge dello scorso giugno (n. 69/2023). Se il Paese non si adegua nei tempi e nei modi richiesti, la Commissione può decidere di rimandare il caso alla Corte di Giustizia UE per una prima sentenza (anche se nella maggior parte dei casi questo non si verifica). Infrazione n. 2007/2195, che ha condannato l’Italia a versare alla Commissione UE 20 milioni di euro e una penalità giornaliera di 120.000 euro dal giorno di pronuncia della sentenza al completamento della prima sentenza. Infrazione n. 2004/2034, che ha condannato l’Italia a versare una somma forfettaria di 25 milioni di euro e una penalità di 30.112.500 euro per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure necessarie fino alla prima sentenza.

  • Il treno (non) ha fischiato: viaggio in una Sicilia a 26 km/h

    In questa nota troviamo che la velocità effettiva per le tratte ferroviarie tra i capoluoghi di provincia siciliani è di 26-28 km/h a seconda dell’orario di partenza, quasi il 40 per cento in meno della velocità effettiva in Piemonte e Toscana (usate come regioni di confronto). Per lo sviluppo di un’area, anche la rete di trasporti locali è però importante, e lo stato della rete ferroviaria locale in Sicilia è molto debole. Per misurare questa debolezza rispetto alle altre regioni d’Italia questa nota calcola quella che definiamo “velocità di percorrenza effettiva” (VPE), ottenuta come rapporto tra il tempo necessario per raggiungere la destinazione e la distanza spaziale tra i capoluoghi di provincia della Sicilia, della Toscana e del Piemonte. Riguardo alla durata, per le fasce orarie di cui sopra, abbiamo considerato la media della durata di viaggio di ogni treno che connette due capoluoghi di provincia partendo nella fascia indicata, così come riportate sul sito di Trenitalia. Come si è detto, la rete siciliana è di 1.370 km, ossia 53 metri di ferrovia per chilometro quadrato di territorio, contro 64 e 75 metri per chilometro quadrato di territorio rispettivamente per Toscana e Piemonte. La Tav. 2 mostra che il numero medio di treni per viaggiare verso i capoluoghi di interesse nella fascia oraria dalle 8:00 alle 9:00 è inferiore a 1 per la Sicilia, contro valori di 1,3 in Piemonte e 2,7 in Toscana. Infatti, il proposito che nel piano commerciale di Ferrovie dello Stato si avvicina di più a una tratta veloce, da realizzare in data da destinarsi e comunque non prima del 2027, è una riduzione di 60 minuti dei tempi di percorrenza tra Palermo e Catania.

  • La sfida della sostenibilità per la spesa sanitaria pubblica

    La soluzione proposta era quella di un processo continuo di revisione della spesa, che partisse dal riconoscimento del problema, dall’identificazione e dalla pubblicizzazione di indicatori di “spreco” e dall’implementazione di sistemi di remunerazione che consentissero di pagare la cura più appropriata nel setting assistenziale più appropriato. Considerando la media dei Paesi OCSE, la spesa sanitaria complessiva era cresciuta in termini reali del 3,2 per cento annuo nel quinquennio precedente l’inizio della pandemia, tra il 2015 e il 2019; è cresciuta del 5 per cento tra il 2019 e il 2020 e addirittura dell’8,5 per cento tra il 2020 e il 2021. Dinamiche analoghe si osservano per la spesa sanitaria pubblica, che negli anni della pandemia è cresciuta del 7,9 per cento e dell’8,5 per cento, per poi contrarsi dell’1,8 per cento nel 2022; la dinamica del quinquennio pre-pandemia era al 3,5 per cento annuo. In tutti questi scenari di previsione, la dinamica della spesa sanitaria (i) è più rapida della crescita del Pil pro-capite, stimato in crescita dell’1,2 per cento in termini reali tra il 2019 e il 2040, e (ii) mostra comunque segni di rallentamento rispetto al tasso del 3 per cento registrato nel periodo 2000-2018. Siccome i tassi di crescita attesi della spesa sanitaria sono maggiori dei tassi di crescita attesi del Pil, la spesa sanitaria pubblica dovrebbe raggiungere l’8,6 per cento del Pil nel 2040 nello scenario “base”, un aumento di 1,8 punti percentuali rispetto al 2018. Per esempio, l’ Ageing Report della Commissione europea stima un incremento di 1,3 punti percentuali di Pil nella spesa sanitaria dei Paesi UE, dall’8,3 al 9,5 per cento del Pil; selezionando i Paesi UE tra i Paesi OCSE, il dato che emerge dalla stima OCSE è una crescita di 1,2 punti percentuali. Negli ultimi due decenni, il rapporto tra spesa sanitaria privata e spesa sanitaria pubblica nei Paesi OCSE si è ridotto passando dal 36 per cento nel 2012 al 30,9 per cento nel 2019, fino al 29 per cento nel 2022.

  • Il carrello tricolore, un’iniziativa vaga ma al momento giusto

    Ciononostante, l’iniziativa è stata introdotta nel periodo giusto per essere vista, ex post, come un successo: l’inflazione nel settore degli alimentari (oltre che in generale) è già in calo significativo. L’iniziativa Il governo italiano ha di recente introdotto un’iniziativa per contenere l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, il “trimestre anti inflazione”, in vigore dal 1° ottobre al 31 dicembre. L’iniziativa consiste in un patto, tra Ministero delle Imprese e Made in Italy (Mimit) e le imprese della distribuzione e della produzione, per calmierare i prezzi, così da frenare l’inflazione e proteggere il potere d’acquisto delle famiglie. Per le imprese della filiera produttiva gli impegni tramite i quali contenere i prezzi sono ancora più vaghi: si tratta di un generico impegno a contenere la dinamica dei prezzi, entro un generale principio della sostenibilità economica. Un ulteriore problema è il fatto che, sulla base di informazioni parziali raccolte dalle associazioni dei consumatori, il numero di prodotti effettivamente inclusi appare basso, e sembra in ogni caso coincidere con i prodotti a marchio del distributore, che rappresentano comunque una piccola quota di mercato. Ciò detto, è possibile comunque la dinamica dei prezzi degli alimentari sia bassa in questo trimestre, ma non perché l’iniziativa è efficace, ma semplicemente perché negli ultimi mesi l’inflazione in questo settore è già significativamente in calo. La conclusione è che, in presenza di una chiara riduzione dell’inflazione negli ultimi mesi, per effetto della politica monetaria più restrittiva della BCE, è probabile che nel trimestre in corso i prezzi degli alimentari non aumentino molto.

  • Ceto medio tartassato, non c’è solo l’Irpef

    Alcune categorie di entrata e di spesa sono slegate da una qualche nozione di reddito, inteso, da un lato, come misura della capacità contributiva, dall’altro come indicatore di bisogno. Una situazione simile si osserva anche per una serie di benefici che si riducono all’aumentare dell’ISEE familiare, quindi di fatto anche all’aumentare del reddito dei componenti della famiglia. A contribuire ai bonus erogati in base al reddito (e alla complessità del sistema) c’è poi il “trattamento integrativo” che nei fatti è un trasferimento monetario che, tuttavia, si inquadra con la disciplina Irpef perché è condizionato al reddito dell’imposta e alla detrazione per lavoro dipendente. In ogni caso, è importante sottolineare che nel caso di questo indicatore, a differenza delle detrazioni Irpef, è sensato tenere conto del reddito complessivo del nucleo familiare al posto di quello individuale come unità di imposizione, essendo l’ISEE determinante dell’accesso a prestazioni e servizi. Con un ISEE di 15.000 euro una famiglia pagherebbe una tassa di iscrizione massima di 140 euro, con 20.000 un massimo di 290, 25.000 un massimo di 840 e con 30.000 un massimo di 1.190 euro. Le detrazioni includono invece, accanto a un lunghissimo elenco di spese, detrazioni per fonte di reddito (che consentono la discriminazione qualitativa dei redditi da lavoro rispetto ad altre forme di reddito) e detrazioni per carichi di famiglia. È stato per esempio calcolato che, nel caso dello sgravio fiscale in base al regime attuale, a un lavoratore con un reddito di 35 mila euro convenga rifiutare qualsiasi incremento di reddito che non gli consenta di raggiungere almeno i 36.485 euro se vuole evitare di trovarsi più povero di prima.

  • Riformare il catasto? Soprattutto una questione di equità

    Le dinamiche del mercato immobiliare negli ultimi anni, differenziate sul territorio tra aree del Paese e tra centri urbani e periferie, porta a dei rilevanti fenomeni di iniquità fra contribuenti, di tipo sia orizzontale che verticale. A seconda che si prediliga l’una o l’altra delle due caratteristiche del patrimonio immobiliare, riserva di valore o produzione di reddito, si hanno anche forme diverse di determinazione della base imponibile dell’imposta patrimoniale e dunque dell’onere d’imposta. In un sistema del primo tipo, la base imponibile è determinata sulla base del valore del patrimonio (come stimato, per esempio, sulla base dei dati di mercato). Nel secondo, adottato in Belgio, Francia e Italia, la base imponibile è determinata sulla base di un reddito figurativo (la rendita catastale) che rappresenta una misura del canone che il proprietario dell’immobile otterrebbe, in un anno, cedendolo in locazione. In Svezia, che adotta invece un sistema patrimoniale, la base imponibile è pari al 75 per cento del valore di mercato dell’immobile, valore che viene ricalcolato ogni tre anni in base a dei fattori come il prezzo di vendita di proprietà similari vendute nell’area o l’età dell’edificio. In assenza di dati ufficiali sufficientemente dettagliati, riportiamo qui nella Fig. 3 i risultati di uno studio recente che ha posto a confronto sul tutto il territorio nazionale il valore medio di mercato (dati OMI) e il valore medio catastale a livello di singolo comune. È evidente che in assenza di un aggiornamento dei valori fiscali del patrimonio, questi disallineamenti introducono profonde iniquità tra i contribuenti, con alcuni che pagano in termini di imposte patrimoniali molto di meno di altri a parità di valore del proprio patrimonio immobiliare.

  • COP28 e cambiamento climatico: cosa è stato fatto finora?

    Purtroppo, il lento declino delle emissioni nei Paesi occidentali e la forte crescita di quelle dei Paesi emergenti mettono a serio rischio il raggiungimento di tali obiettivi. Il principale accordo per affrontare il problema del cambiamento climatico è quello raggiunto a Parigi nel dicembre 2015, ratificato da 194 Paesi, e include tutti i principali Paesi, fatta eccezione per l’Iran (responsabile solo del 2 per cento delle emissioni totali globali). Il limite principale dell’accordo è che ogni Paese è libero di fissare il proprio piano di riduzione di emissioni, sicché non c’è nessun meccanismo che garantisca che la somma delle emissioni comporti il raggiungimento dell’obiettivo di zero emissioni nel 2050. Al contrario, i Paesi avanzati hanno specificato obiettivi di emissioni zero entro il 2050, compresi gli Stati Uniti e l’Unione europea, che hanno anche un obiettivo intermedio di riduzione rispettivamente del 50 e 55 per cento delle proprie emissioni entro il 2030. Nel frattempo, le emissioni globali di CO2 hanno continuato a crescere raggiungendo i 37 miliardi di tonnellate nel 2022, anche se il tasso di crescita medio annuo nell’ultimo decennio si è ridotto rispetto al decennio precedente (2003-2012) dal 2,4 per cento allo 0,5 per cento (Fig. 1). Infine, il documento ribadisce che per limitare il riscaldamento globale entro 1,5°C, si richiederebbe un calo delle emissioni di CO2 del 43 per cento entro il 2030, del 60 per cento entro il 2035 e l’azzeramento delle emissioni entro il 2050. Global cooling pledge for COP28 (61 Paesi): impegna i Paesi a ridurre del 68 per cento le emissioni relative all’industria del raffreddamento, ad aumentare del 50 per cento il tasso di efficienza degli impianti di climatizzazione entro il 2030 e ad aumentare gli spazi verdi e blu nelle città.

  • Intelligenza Artificiale: cos’è e dov’è

    I dati mostrano che l’IA è sostanzialmente un fenomeno americano legato alle grandi università di eccellenza, alle grandi aziende tecnologiche e alla loro capacità di attrarre e dare uno sbocco a una miriade di nuove iniziative ogni anno. Dal 2016 a oggi sono state create più di 41.500 nuove imprese che sviluppano vari aspetti dell’IA; di queste, oltre 21 mila sono state create negli Stati Uniti. In termini di apporto di capitale di rischio alle imprese che sviluppano IA (Fig. 2), la leadership rimane di gran lunga quella degli Stati Uniti (273 miliardi di dollari), seguita a distanza dalla Cina (76 miliardi), Israele (18 miliardi), India (17 miliardi), Regno Unito (16 miliardi). La figura chiave è la 3, in cui sono riportati i dati sul totale delle risorse esterne che affluiscono alle imprese che sviluppano IA (capitali di minoranza, capitali di controllo, accensione di debiti, Merger &; Acquisitions). In Europa, il valore è molto più basso (0,38) che negli Stati Uniti e tuttavia è più alto che in Cina (0,08); quest’ultimo dato si spiega probabilmente con la considerazione che in Cina le imprese nascono su impulso o comunque con il sostegno delle pubbliche autorità. Un’avvertenza importante è che i dati che abbiamo citato fin qui riguardano le imprese che sviluppano e offrono servizi di IA. Nulla abbiamo detto sul lato della domanda da parte delle imprese, delle pubbliche amministrazioni e dei privati cittadini. Da quest’ultimo risulterebbe che nel 2023 solo il 5 per cento delle imprese italiane con più di 10 dipendenti adotta soluzioni di IA; la percentuale sale al 24 per cento per le imprese con più di 250 addetti.

  • Cosa spiega il mismatch nel mercato del lavoro socio-sanitario?

    I medici e gli infermieri dell’emergenza e urgenza, che lavorano nel Pronto Soccorso, sono tra quelli che hanno meno possibilità di integrare il proprio stipendio e hanno un più alto rischio di aggressioni e di contenzioso; non stupisce che sono tra quelli che si faticano a trovare. Figure professionali come i medici di medicina generale o gli infermieri, necessarie per l’erogazione di servizi socio-sanitari territoriali, sono caratterizzate nel nostro paese da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Il livello di remunerazione è inferiore a quello della Germania (188,1 mila dollari), dei Paesi Bassi (192,3 mila), della Danimarca (151,2 mila), del Belgio (141,5 mila), e della media europea (116 mila dollari lordi). Il dato medio italiano risulta però in linea con la retribuzione dei medici francesi (105,6 mila dollari) e di poco inferiore a quella dei medici spagnoli (107,5 mila dollari), ed è di gran lunga superiore alla remunerazione di un medico in Grecia o in Portogallo (rispettivamente 64 mila e 64,8 mila dollari). Per quanto riguarda la retribuzione media lorda degli infermieri a parità di potere d’acquisto (Fig. 2), lo stipendio degli infermieri italiani (meno di 40 mila dollari lordi nel 2021) si attesta al di sotto della media europea che è di circa 50 mila dollari. In Italia, la retribuzione media annua lorda di un impiegato full-time è di 46 mila dollari, la metà di quella di un medico specialista (105 mila dollari) ma non molto distante dalla retribuzione di un infermiere (circa 40 mila dollari). La richiesta di retribuzioni più alte dato il carico di lavoro è al primo posto, insieme a un desiderio di maggiore sicurezza e di avanzamento di carriera per i medici pubblici.

  • Post mortem per il Superbonus: extra deficit, extra debito e rallentamento in atto nel settore delle costruzioni

    L’ipotesi più plausibile per spiegare l’extra deficit è che vi sia stata una corsa per usufruire delle ultime deroghe rispetto al decreto di febbraio 2023, con certificazioni dubbie sull’entità dei lavori e sul loro stato di avanzamento. In sostanza, si sarebbe trattato dell’ultima coda di frodi, o comunque di abusi di un meccanismo che elimina il normale contrasto di interesse fra chi compra e chi vende, ed è quindi un vero e proprio invito alla frode. L’extra deficit 2023 Il consuntivo Istat, pubblicato lo scorso 1° marzo, ha certificato che la previsione del governo sul deficit 2023 formulata a fine settembre era errata di ben 39 miliardi di euro, pari all’1,8 per cento del Pil (per tutti i dati si veda l’Appendice). Si tratta di un errore di proporzioni gigantesche in una previsione fatta tre mesi prima della chiusura dell’esercizio, in assenza di fattori esterni eccezionali (Covid, crisi internazionale ecc.), che probabilmente non ha precedenti e che getta un’ombra sinistra su tutte le proiezioni formulate dal governo per i prossimi anni. Dalla nostra analisi, emerge la conferma di ciò che ha più volte affermato il Ministro dell’Economia: il Superbonus 110% è all’origine del problema, il che conferma l’estrema problematicità di questo sussidio. Tuttavia, non sono pubblici i dati di base dell’Agenzia delle Entrate che consentirebbero di capire in cifre l’esatta entità del problema e la tempistica con la quale si è manifestato, nonché gli effetti che questi crediti avranno sul debito pubblico dei prossimi anni. Gli effetti del blocco sul settore delle costruzioni e sul Pil Da gennaio di quest’anno il Superbonus è sostanzialmente abolito e la sua abolizione non è stata certo un capriccio del governo, ma è dovuta al fatto che, lungi dall’autofinanziarsi, il Superbonus sta recando notevoli squilibri ai conti pubblici.

  • Intelligenza artificiale, produttività e il futuro del lavoro

    La seconda, strettamente legata alla prima, è che gli aumenti di produttività prenderanno la forma di sostituzione di macchine al posto delle persone e dunque distruggeranno posti di lavoro. Nel leggere una grande quantità di lavori di ricerca e report di società di consulenza, abbiamo constatato come quasi tutti diano per scontato che l’IA sarà un formidabile acceleratore della produttività dei sistemi economici. Va da sé che un aumento di 1,5 punti percentuali è una variazione davvero enorme rispetto ai tassi di crescita che sono stati sperimentati dal Regno Unito e dagli altri Paesi avanzati negli ultimi decenni; nel caso britannico essa significherebbe un raddoppio della crescita della produttività rispetto all’ultimo decennio. Inoltre, il 19 per cento dei lavoratori nella finanza e il 14 per cento nella manifattura ha affermato di essere estremamente preoccupato di perdere il lavoro nei prossimi dieci anni, contro un 46 e un 50 per cento che ha dichiarato di non avere alcun timore. Ma il fatto è che negli Stati Uniti la produttività cresceva al 4,7 per cento negli anni Sessanta, al 4,0 negli anni Settanta, al 3,4 negli anni Ottanta; è poi diminuita al 3,0 per cento negli anni Novanta, al 2,4 negli anni Duemila e al 2,1 negli anni Dieci. Alcuni dei primi lavori sull’IA sottolineavano come questa possa (anche in questo caso si sottolineava un potenziale, più che una realtà) facilitare l’automazione di molte mansioni svolte da lavoratori umani, il che può comportare una riduzione della domanda di lavoro e dei salari per alcuni tipi di lavoratori. La produttività nell’era dell’invecchiamento della popolazione Il principale motivo per il quale non vi è ragione di temere per il futuro del lavoro è che nei prossimi anni, per via della bassa natalità, in quasi tutti i Paesi avanzati ci sarà carenza di lavoratori, non certo di lavori.

  • Tensioni geopolitiche e spesa militare

    Collettivamente i Paesi europei spendono più del doppio della Russia sugli armamenti, ma spendono in modo frammentato e su molteplici progetti in concorrenza tra di loro, con l’effetto di disperdere le risorse e di non sfruttare a sufficienza i rendimenti di scala e di scopo. Dall’invasione russa la spesa per gli armamenti è aumentata quasi ovunque in Europa, ma molti Paesi (Italia inclusa) sono ancora lontani dall’obiettivo NATO del 2 per cento del Pil. Nello specifico, l’Italia dovrebbe incrementare la spesa bellica di 10 miliardi di euro per rispettare i criteri NATO. Non si tratta certo di una novità nel contesto del dibattito sul federalismo europeo (il piano Pleven per la creazione di una Comunità europea di difesa risale all’immediato dopoguerra) ma sul tema, in realtà, i progressi concreti sono sempre stati pochi. In più, da un punto di vista operativo, il coordinamento della difesa dei Paesi europei si esplica all’interno di un’alleanza, la NATO, in cui però hanno un ruolo prevalente Paesi extra-europei, a partire dagli Stati Uniti, o Paesi europei ma non appartenenti all’Unione europea, come il Regno Unito. Tuttavia, si osserva anche che rispetto agli accordi NATO stipulati a settembre 2014 (dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia), che impongono una spesa per la difesa almeno pari al 2 per cento del Pil, nel 2023 solo 11 Paesi sono in linea con l’obiettivo (comunque in crescita rispetto ai 6 del 2021). Le inefficienze della spesa europea Si è già più volte accennato all’inefficienza dell’attuale spesa europea per la difesa per la moltiplicazione dei progetti, che impediscono lo sfruttamento di rendimenti di scala, e per la mancata interoperabilità dei sistemi di difesa. La combinazione della proliferazione di forniture e di progetti è costosa poiché genera competizione tra i Paesi membri, che concorrendo tra di loro fanno crescere i costi e impediscono alle imprese di sviluppare economie di scala, principalmente a causa delle quantità ordinate relativamente basse.

  • La relazione fra debito pubblico e spread

    Negli ultimi mesi l’Italia è stata il Paese con il più alto spread sui titoli di Stato decennali (ovvero la differenza tra il tasso di interesse sui BTP decennali e il tasso sui corrispondenti Bund tedeschi) nell’area dell’euro (Fig. 1). Inoltre, il maggiore spread sul debito pubblico si trasmette anche ai debiti privati, in quanto una crisi del debito pubblico difficilmente lascerebbe indenni le prospettive di crescita del Paese, e quindi la stessa solvibilità del settore privato. Tra questi fattori, però, il livello del debito pubblico sembra essere dominante e per motivi ben chiari: al crescere del debito pubblico, a parità di altre condizioni, aumenta il rischio che un Paese, soprattutto in presenza di shock economici, non riesca a ripagare il debito che giunge a scadenza. Il livello di spread dei titoli di Stato decennali è infatti correlato positivamente con il livello di debito in percentuale al Pil del 2022 dei singoli Paesi (il coefficiente di correlazione è di 0,6). In particolare, l’Italia ha avuto negli ultimi mesi uno spread che sembrerebbe più alto di quello che è giustificato dal pur elevatissimo rapporto tra debito pubblico e Pil, collocandosi circa 60 punti base al di sopra della retta di regressione. Il fatto che il suo spread sia ora più basso di quello italiano viene talvolta attribuito alla più favorevole composizione del suo debito, costituito per circa tre quarti da debito nei confronti delle istituzioni europee (in primis il Mes) a seguito dell’operazione di salvataggio iniziata nel 2010. Fra l’altro la caduta dello spread per la Grecia rispetto a quello dell’Italia è abbastanza recente, il che conferma che altri fattori, piuttosto che la composizione del debito, abbiano contribuito al miglioramento nel posizionamento di questo Paese nella classifica degli spread.

  • C’è un mismatch anche nel comparto socio-sanitario?

    I dati riferiti al SSN mostrano una riduzione delle unità di personale (per il tetto alle spese del personale fissato da precedenti leggi di bilancio, oggi in parte rimodulato) fino al 2019, con un incremento del personale a seguito della pandemia di circa 13 mila unità. Il dato segnala l’importanza crescente del comparto in Paesi che invecchiano anche in termini di occupazione, soprattutto se si considera che la quota di occupati europei nel settore è aumentata dell’8 per cento dal 2011 al 2021. Analizzando il numero di medici in rapporto alla popolazione (Fig. 2), la posizione dell’Italia cambia rispetto al dato aggregato: il nostro Paese vanta nel 2021 un rapporto di 4,1 medici ogni 1.000 abitanti, in linea con la media UE e in crescita del 3 per cento rispetto al 2018. La stessa cosa non si può dire per gli infermieri, dato che al 2021 l’Italia conta solo 6,2 infermieri ogni 1.000 abitanti di fronte alla media UE di 9,1 infermieri per 1.000 abitanti (Fig. 3). Se questo è il modello, anche alla luce dell’esperienza di altri Paesi, abbiamo una forte necessità di infermieri e di medici specializzati nella medicina territoriale (quelli che sono oggi i medici di medicina generale). Include medici che lavorano in amministrazione o in posizioni direttive per le quali è richiesta una formazione medica; medici ricercatori su patologie dell’uomo e metodi preventivi e curativi; medici che partecipano nella formulazione di leggi e regolamenti sulla sanità pubblica; medici che redigono paper scientifici e report. La categoria di infermieri considerata nei dati statistici è “infermieri praticanti” (cioè infermieri che forniscono cure dirette ai pazienti, inclusi gli infermieri professionisti nazionali e stranieri con licenza a praticare nel Paese di riferimento.

  • Le tendenze di medio termine dei conti pubblici

    Secondo le stime del governo, il deficit (nella definizione di indebitamento netto della PA) è al 5,4 per cento del Pil nel 2023 – ma su quest’anno pesano i crediti edilizi riclassificati dall’Eurostat e i residui sostegni contro il caro energia decisi nella scorsa legge di bilancio. Il formato della tavola è quello che la Commissione europea chiede agli Stati membri di inserire nel Documento Programmatico di Bilancio; ovviamente i dati sono quelli dell’ultimo documento che è stato licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 16 ottobre. I principali dati del confronto: le spese Tornando alla Tav. 1, si vede che fra il 2019 e il 2024 la spesa pubblica aumenta di 2,2 punti percentuali, il che significa che è dalla spesa che viene il contributo principale all’aumento del deficit (che, ricordiamo, aumenta di 2,8 punti). Ciò nonostante, il fatto che negli ultimi 20-25 anni il Pil dell’Italia sia cresciuto pochissimo, meno che in tutti i precedenti decenni del dopoguerra e meno che negli altri principali Paesi, serve a ricordarci che la variabile decisiva è la qualità degli investimenti, più ancora che la loro quantità. È anche utile menzionare che fino a oggi la crescita economica della Germania è stata superiore a quella dell’Italia malgrado un tasso di investimenti che si è attestato prevalentemente attorno al 2 per cento del Pil. [3] La spesa per interessi . Dunque, nel 2024 si aggiunge uno 0,2 per cento, che è attribuibile principalmente al fatto che la legge di bilancio proroga, per l’intero 2024, tutte le misure di sgravio in essere, incluse quelle decise nel maggio scorso ed entrate in vigore solo a luglio. Verosimilmente ciò è dovuto alla circostanza che il governo considera come acquisito (e dunque parte del tendenziale) il contenuto del decreto fiscale, che è stato trasmesso alla Camera il 27 ottobre, e dunque prima della legge di bilancio, anche se non è ancora stato promulgato.

  • Quanti sono gli scioperi in Italia?

    La serie storica più lunga sui conflitti di lavoro, fornita dall’Istat, si ferma al 2009 e permette di evidenziare l’aumento della conflittualità tra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, con una concentrazione degli scioperi nel settore dell’industria. La normativa, frutto della collaborazione fra il Parlamento e le organizzazioni sindacali, è basata sulla necessità di un equilibrio fra l’esercizio del diritto di sciopero e il godimento di diritti costituzionali della persona (per esempio il diritto alla salute, alla sicurezza, alla libertà di circolazione e alla comunicazione). Per poter assicurare la coesistenza tra i diritti degli utenti e il diritto di sciopero, la CGS gode di poteri di vigilanza rispetto alle regole procedimentali stabilite dalla normativa, nonché di poteri normativi e di regolazione del conflitto collettivo. Nel 1948, tramite una intesa tra l’Istat e il Ministero degli Interni, è iniziata la Rilevazione dei conflitti di lavoro , per la quale la metodologia di raccolta dei dati ha subito diverse modifiche negli anni. È interessante anche notare come, almeno a partire dal 1986, anno dal quale i dati distinguono i Servizi dalla Pubblica Amministrazione, questo ultimo settore giochi un ruolo marginale nel numero di conflitti; è soprattutto il settore dei servizi privati a contribuire al numero complessivo di scioperi registrati dall’Istat. Per quanto riguarda il trasporto ferroviario, in termini assoluti gli scioperi effettuati sono aumentati da 65 nel 2015 a 82 nel 2022 (uno ogni quattro giorni circa), che in termini relativi si traduce in un incremento del 3 per cento sul totale degli scioperi annui (dal 4 per cento del totale al 7 per cento). Riassumendo, questo significa che sul totale degli scioperi annui i trasporti nel loro complesso sono coinvolti nel 36 per cento degli scioperi effettuati (contro il 28 per cento nel 2015): uno ogni tre scioperi si riferisce a questo settore.

  • La triste saga delle concessioni balneari

    Per confronto, il Comune di Milano ricava annualmente circa 60 milioni di euro dagli affitti della sola galleria Vittorio Emanuele II. * * * In Italia le spiagge fanno parte del demanio pubblico, cioè l’insieme di beni di proprietà dello Stato che non possono essere venduti o ceduti a privati. Tale concessione viene assegnata con un bando di gara pubblico che permette al privato assegnatario di disporre del bene per un certo periodo di tempo a fronte del pagamento di un canone (come in un contratto di affitto). Tuttavia, su pressione dei beneficiari delle concessioni, nel 1992 venne introdotto nella normativa il cd. “diritto di insistenza” secondo cui i soggetti già titolari di concessioni balneari sarebbero stati preferiti, nell’ottenimento di nuove concessioni, ad altri soggetti senza concessioni a carico. Si trattava di fatto dell’introduzione di una barriera all’entrata per nuovi potenziali detentori di concessioni e della concretizzazione di un vero e proprio monopolio per i detentori già presenti sul mercato. La direttiva, per stimolare la concorrenza e proteggere i consumatori, richiede che il rilascio di nuove concessioni e/o il rinnovo di quelle già esistenti seguano procedure pubbliche, trasparenti e imparziali, imponendo anche che tutti i potenziali candidati siano posti sullo stesso piano dalla normativa. La lettera fa seguito alla sentenza della Corte di Giustizia UE dell’aprile scorso che stabiliva che “le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente”. Di conseguenza, il canone sarà pari a 2.779,61 euro se lo stabilimento si trova in un’area di categoria A (cioè, il 2,01 per cento dei ricavi), mentre è di 2.698,75 euro (per l’effetto del minimo) se si trova in un’area di categoria B (cioè il 1,96 per cento dei ricavi).

  • La parità di genere in Italia: che progressi sono stati fatti?

    Tra il 2010 e il 2021 l’Italia è il Paese europeo che ha conseguito i maggiori progressi con un aumento dell’indice di 14,9 punti, seppur restando al di sotto della media europea (68,2 punti contro i 70,2; Fig. 1), e con un miglioramento in graduatoria di 7 posizioni (Fig. 2). Nessun miglioramento neppure per la dimensione “ denaro ”, che per metà riflette il divario retributivo di genere e, per il resto, il rischio di povertà femminile e la disuguaglianza nella distribuzione del reddito per genere, anche se restiamo posizionati (nel 2010 e nel 2021), più o meno a metà classifica. Questo miglioramento, purtroppo, è stato compensato dalla minore riduzione nel tasso di povertà femminile rispetto agli altri Paesi dell’Unione (-2 per cento in Italia contro una media UE del -3 per cento). Il tasso di laureate donne sul totale dei laureati in materie STEM in Italia è lentamente sceso nel corso negli anni (-0,4 per cento), ma meno rispetto alla media UE del -0,8 per cento), restando peraltro nel 2021, ben sopra la media UE (39 per cento versus 33 per cento rispettivamente; Fig. 7). Da allora il numero delle donne nei Consigli di amministrazione è cresciuto a un ritmo superiore della media UE (nel 2021 il 43 per cento dei membri dei CdA delle più grandi società nazionali quotate erano donne rispetto al 32 per cento della media UE; Fig. 7). Miglioramenti ci sono stati anche per la rappresentanza politica: la presenza femminile tra i seggi assegnati all’Italia nel Parlamento europeo è aumentata dal 21 per cento del 2010 al 42 per cento del 2021 (Fig. 8), contro un miglioramento per la media UE dal 34 al 39 per cento. In generale l’Italia presentava nel 2019 il sesto dato più basso tra i 19 Paesi UE che pubblicano il dato relativo ai femminicidi: 0,26 vittime ogni 100 mila abitanti (Fig. 10), un livello più elevato solo di quello di Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Grecia e Cipro e sotto la media di questi 19 Paesi UE (0,31).

  • Atac e Antitrust: una svolta in vista grazie al PNRR

    Nei giorni scorsi, due sentenze della Giustizia amministrativa hanno dato l’impressione che l’impegno dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per la messa a gara del trasporto pubblico locale (TPL) di Roma sia destinato all’insuccesso. Il commento che si può fare è che i tempi del TAR non sembrano compatibili con l’urgenza di agire che era implicita nel ricorso dell’AGCM e che in realtà vi era stata un’istanza cautelare contro la decisione della Giunta di prorogare per l’ennesima volta l’affidamento in house. L’argomento centrale è che in quegli anni (fra il 2017 e il 2022) la situazione di Atac era sostanzialmente fallimentare ed era in atto un regime concordatario in cui il comune di Roma si stava impegnando, anche con risorse finanziarie proprie, a risanare l’azienda. Per esempio, AGCM riporta che per il periodo 2018-2022 dai bilanci di Atac risultavano a consuntivo 28 milioni di euro di investimenti in nuovi autobus finanziati da Roma Capitale, a fronte di 7 milioni di euro in autofinanziamenti acquistati dal gestore. Proposte e confronti con l’estero Alla luce di tutte queste contestazioni, AGCM auspica che Roma Capitale valuti la possibilità di una graduale apertura alla concorrenza del mercato del trasporto pubblico locale non periferico. Le continue proroghe del contratto da parte di Roma Capitale non sembrano quindi trovare alcuna giustificazione concreta, e AGCM sembra aver ragione quando ritiene che, alla luce delle passate gestioni, le motivazioni presentate dall’ente per giustificare l’estensione del termine appaiono più una dichiarazione d’intenti che altro. Inoltre, in caso di affidamento in house di importo superiore alle soglie di rilevanza europea, l’articolo 17, comma 2, prevede che la delibera di affidamento sia basata su una qualificata motivazione che dia espressamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato ai fini di un’efficiente gestione del servizio.

  • PNRR e giustizia tributaria: obiettivi raggiunti, ma (quasi) solo sulla carta

    Si aggiunga ancora che in circa il 40 per cento dei casi i giudizi di primo grado favorevoli al contribuente vengono rovesciati in secondo grado. In sostanza, l’esito di un contenzioso al termine dei tre gradi di giudizio è caratterizzato da un elevatissimo grado di incertezza. Purtroppo, le stesse sentenze della Cassazione sono spesso contradditorie fra di loro, anche perché la dotazione della sezione che si occupa dei ricorsi tributari ha un organico di una quarantina di magistrati, [3] e non è facile ricorrere alle sezioni unite quando si ha un arretrato di ben 50.000 ricorsi. Dal punto di vista formale, il “milestone” del PNRR (identificato dal codice M1C1-35) consiste nel raggiungimento di una riduzione (non quantificata) dei ricorsi in Cassazione e una velocizzazione generale del processo (anch’essa priva di quantificazione). Il CR totale del 2022 è peggiorato del 15 per cento rispetto al 2013, ma anche qui bisogna distinguere tra i due gradi di giudizio: il CR del primo grado è diminuito infatti del 25 per cento circa rispetto al 2013, mentre il CR di secondo grado è aumentato del 25 per cento. Si noti tra l’altro che non vi sono sostanziali differenze fra primo e secondo grado, malgrado la presunzione che vi sia un maggior grado di professionalità nelle corti di secondo grado (che corrispondono alle vecchie commissioni regionali, mentre quelle di primo grado corrispondono alle commissioni provinciali). L’enorme quantità di dati esistente e l’enorme quantità di informazione che viene raccolta ogni anno non permette un’analisi o una gestione meramente manuale, ma necessità di strumenti in grado di automatizzare alcuni processi con lo scopo di migliorare e velocizzare i compiti degli esperti.

  • Inflazione zero negli ultimi tre mesi: più probabile un calo dei tassi

    Questo suggerisce che la BCE, dopo la recente decisione di mantenere invariati i tassi di interesse in dicembre, potrebbe iniziare a ridurre i tassi di interesse in un futuro non troppo distante. La Fig. 1 mostra il tasso di crescita, rispetto ai 12 mesi precedenti, dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo su tutti i beni e per la cosiddetta inflazione core . I tassi di inflazione a dodici mesi non descrivono però la più recente dinamica dei prezzi perché dipendono in larga parte da quello che è successo molti mesi addietro (in quanto dovuti all’effetto dell’inflazione, mese per mese, nell’anno precedente ad ogni periodo). Per comprendere l’evoluzione più recente della dinamica dei prezzi è necessario guardare ai tassi di inflazione mensili negli ultimi mesi. In effetti, l’inflazione cumulata in questi tre mesi è stata negativa (-0,3 per cento su base annualizzata), per effetto della discesa dei prezzi in ottobre e novembre. Anche in questo caso, nei tre mesi che terminano a novembre 2023, la dinamica è stata abbastanza contenuta: un’inflazione positiva, ma piccola (a una velocità, annualizzata, dello 0,1 per cento), per effetto di tassi di inflazione bassi a settembre e ottobre e di una discesa dei prezzi a novembre. Tutto questo suggerisce che l’inflazione stia viaggiando a tassi già più bassi dell’obiettivo della BCE, il che dovrebbe far sperare in una prossima diminuzione dei tassi di interesse da parte della nostra banca centrale.

  • La riforma (temporanea) dell’Irpef

    Di fatto, si riduce di due punti percentuali l’aliquota del 25 per cento che vige attualmente sullo scaglione dei redditi compresi tra i 15 e i 28 mila euro. Inoltre, per far sì che a usufruire dei maggiori benefici della riduzione delle aliquote siano principalmente le fasce di reddito medio-basse, viene stabilita una riduzione pari a 260 euro alle detrazioni d’imposta, qualora il reddito complessivo superi i 50 mila euro l’anno. A riguardo, la prima riduzione della contribuzione a carico dei lavoratori dipendenti risale all’estate 2022 e prevedeva un taglio del cuneo fiscale pari al 2 per cento fino ai 35 mila euro annui di retribuzione annua lorda (RAL, che include oltre al reddito anche i contributi a carico del lavoratore). Dall’analisi del MEF sulle dichiarazioni per il 2021 (le ultime disponibili), [11] si ricava che su 41,5 milioni di contribuenti Irpef, 16,7 milioni (il 26 per cento del totale) hanno dichiarato meno di 15.000 euro di reddito lordo, mentre solo poco più di un milione (il 4 per cento) dichiara redditi superiori ai 70.000 euro. La ragione è che i redditi fino a 15.000, che erano già sottoposti all’aliquota del 23 per cento nel 2023, beneficiano ora di una no tax area più elevata, 8.500 euro invece di 8.174. I guadagni sono limitati attorno ai 15.000 euro (per esempio, come si vede dalla tavola sono di soli 60 euro l’anno a 18.000 euro e di 200 euro a 25.000 euro) per poi salire gradualmente fino a raggiungere i 260 euro in corrispondenza di 28.000 euro. Considerando invece congiuntamente anche la fiscalizzazione dei contributi sociali a carico dei lavoratori, l’effetto è maggiormente concentrato sui redditi più bassi e l’accorpamento dei primi due scaglioni riduce lievemente la tassazione dei contributi che ora entrano nella busta paga dei dipendenti.

  • La Nadef e la riforma delle regole fiscali europee

    Attualmente, è in corso una discussione serrata in sede europea su una proposta di riforma presentata dalla Commissione ad aprile e che deve essere approvata entro la fine di quest’anno. Il problema è che per l’opposizione dei Paesi tradizionalmente più attenti al controllo dei conti è probabile che il compromesso finale veda l’imposizione di regole quantitative ulteriori e più penalizzanti sulla riduzione del debito. La presentazione da parte del governo della Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef) è avvenuta in contemporanea alla fase finale di contrattazione tra i Paesi sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita europeo (PSC), che rientrerà in vigore a partire dal primo gennaio 2024. Sulla base di questa proposta, i Paesi presentano un proprio Piano di aggiustamento che, a fronte di solide argomentazioni tecniche ed economiche e sulla base di un confronto bilaterale con la Commissione, può discostarsi dalla traiettoria tecnica originaria. Primo, ha eliminato la suddivisione nel percorso di aggiustamento che i diversi Paesi erano tenuti a fare sulla base di un giudizio iniziale sulla rischiosità del loro debito (sostanziale, moderata o nulla), sostituendola invece con gli usuali parametri di Maastricht. Un gruppo di Paesi più favorevoli al rigore nei conti (Germania in testa) che non considerano la proposta della Commissione sufficiente e chiedono invece l’imposizione di ulteriori vincoli quantitativi (regole semplici uguali per tutti) che garantiscano la riduzione del debito nei Paesi più problematici (tra cui sicuramente l’Italia). Per far sì che il rapporto decresca è necessario che il processo di aggiustamento continui fino al 2031, con una riduzione del disavanzo (strutturale) che oscilla tra lo 0,45 e lo 0,55 punti percentuali di Pil all’anno a seconda che si considerino o meno gli effetti sulla crescita del PNRR.

  • Una questione di credibilità: il successo del Portogallo nella riduzione del debito

    Il rapporto tra debito pubblico e Pil è aumentato in Italia negli ultimi dieci anni di circa 5 punti percentuali, a causa della crisi Covid, e i piani del governo italiano non prevedono una sua sostanziale riduzione rispetto al livello attuale del (140 per cento). Quindi la riduzione del debito è possibile, e lo è anche per Paesi con un rapporto debito/Pil molto alto. È avvenuto anche in passato: come descritto in un nostro precedente lavoro sulle riduzioni del debito nei decenni precedenti il Covid, quello che è necessario è combinare una sostenuta crescita economica con l’accumulo di consistenti surplus primari. Rinviando a un successivo lavoro un’analisi più ampia di quanto avvenuto negli ultimi dieci anni nell’area dell’euro, questa nota considera il caso del Portogallo, il cui rapporto di debito dieci anni fa era non troppo distante da quello dell’Italia all’epoca. Il terzo elemento è il cosiddetto aggiustamento stock-flussi, un fattore residuale dovuto a vari elementi, per esempio differenze contabili tra deficit di cassa (che influisce sul debito) e deficit di competenza economica (che è quello riportato nelle statistiche del deficit). Dal 2015, escludendo il periodo del Covid, quando il debito è salito, il saldo primario del Portogallo è stato positivo (e dunque con un effetto negativo sulla dinamica del debito), in media circa il 2 per cento del Pil, contro lo 0,3 per cento del Pil in Italia. I risultati ottenuti finora sono comunque importanti, e confermano che ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil per importi rilevanti è possibile, e richiede non solo riforme strutturali e crescita, ma anche la volontà di migliorare l’avanzo primario portandolo su livelli del 2-3 per cento.

  • Si è davvero ridotta l’evasione dell’IVA?

    Questa nota analizza in dettaglio le stime e le critiche che sono state sollevate a tali stime, concludendo che il calo dell’evasione è effettivo (anche se, probabilmente, sovrastimato per circa 2 miliardi per effetto dell’estensione del regime forfettario). Quanto sono affidabili queste stime? Come la Relazione stima l’evasione L’evasione è stimata in base a una metodologia top-down , perché il punto di partenza sono i dati di contabilità nazionale (di fonte Istat) sui consumi, che sono la base imponibile dell’IVA. Moltiplicando i consumi di beni e servizi cui si applica una certa aliquota IVA per tali aliquote si ottiene il gettito IVA teorico per quel tipo di consumi e, per aggregazione, il gettito potenziale complessivo, quello che si avrebbe in assenza di evasione in un certo anno. All’interno del quadriennio, tuttavia, la dinamica è differente: per la Relazione il calo è più graduale, iniziando in modo netto già nel 2018, mentre per la Commissione il calo più significativo si osserva nel 2020-2021. L’andamento del gettito IVA rispetto ai consumi L’andamento del rapporto tra gettito IVA e consumi di contabilità nazionale ci fornisce un ulteriore controllo della validità delle stime sul calo dell’evasione. Per esempio, se nel 2021 tale rapporto fosse rimasto quello del 2017, le entrate IVA (nella definizione delle Relazioni), dati i consumi effettivi del 2021, sarebbero state pari a 99 miliardi, contro i 112,4 effettivamente registrati: 13,4 miliardi in più, non troppo lontani dal calo di 17,6 miliardi dell’evasione stimato dalla Relazione. Nel 2018 il meccanismo è stato esteso alle cessioni di telefoni cellulari, di dispositivi a circuito integrato, di console da gioco, tablet, PC e laptop e ai trasferimenti di quote di emissioni di gas a effetto serra.

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