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La triste saga delle concessioni balneari

15 dicembre 2023

Intermedio

La triste saga delle concessioni balneari

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Alla luce della sentenza del 30 aprile 2024 del Consiglio di Stato sulle concessioni balneari, riproponiamo una nostra recente nota su questo tema.

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La caparbietà con cui i governi italiani di varia estrazione hanno difeso nel corso degli ultimi 15 anni la possibilità per gli attuali titolari di concessioni balneari di mantenerle senza sottoporle a gara, pur in contrasto con gli stessi orientamenti giurisdizionali italiani e rischiando anche sanzioni salate da parte dell’Unione europea, fa oggettivamente impressione. Nell’ultimo episodio della saga, dovuto al governo Meloni, per dimostrare che le spiagge italiane non sono una risorsa “scarsa” e che dunque non devono essere sottoposte alle direttive concorrenziali europee, il tavolo tecnico istituito presso la Presidenza del Consiglio ha addirittura aumentato di circa 2.200 km la lunghezza delle coste italiane rispetto a quanto calcolato dall’Istat. Altri Paesi europei (Spagna e Portogallo) sono soggetti a procedure di infrazione da parte della Commissione europea per la gestione delle spiagge, ma da nessuna parte il conflitto, per durata e gravità, ha assunto le dimensioni italiane. Semplici esercizi sulla base dei canoni attuali applicati sui tratti di spiaggia suggeriscono che in effetti questi siano molto bassi rispetto al fatturato ricavato dai gestori (attorno all’1-2 per cento). E per dare in concessione il totale delle spiagge italiane, lo Stato italiano incassa tra i 50 e i 100 milioni di euro di canoni, a seconda di cosa si considera nelle stime. Per confronto, il Comune di Milano ricava annualmente circa 60 milioni di euro dagli affitti della sola galleria Vittorio Emanuele II.

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In Italia le spiagge fanno parte del demanio pubblico, cioè l’insieme di beni di proprietà dello Stato che non possono essere venduti o ceduti a privati. Tuttavia, lo Stato può concedere ai soggetti privati l’utilizzo di questi beni tramite una speciale concessione. Tale concessione viene assegnata con un bando di gara pubblico che permette al privato assegnatario di disporre del bene per un certo periodo di tempo a fronte del pagamento di un canone (come in un contratto di affitto). Una volta scaduto il termine della concessione, lo Stato dovrebbe indire un nuovo bando di gara per assegnare la stessa concessione. In pratica, però, in Italia negli anni le concessioni balneari sono state spesso prorogate, senza essere rimesse a gara una volta scaduto il termine. Oltre a un potenziale danno per i consumatori e per il bilancio dello Stato, ciò ha posto il Paese in diretta contrapposizione con l’Europa, in un contrasto ormai multi-annuale che non accenna a placarsi.[1]

Un conflitto infinito

Il tema delle concessioni demaniali marittime affonda le sue radici nel passato. Già nel 1942 il Codice della Navigazione stabiliva che la concessione di un bene demaniale dovesse essere assegnato a chi garantiva il perseguimento dell’interesse pubblico e di una proficua utilizzazione del bene. Il regolamento d’attuazione del 1952 ha precisato poi l’obbligo di pubblicazione delle domande di assegnazione sull’albo comunale di riferimento, per garantire il diritto di presentare opposizioni. Tuttavia, su pressione dei beneficiari delle concessioni, nel 1992 venne introdotto nella normativa il cd. “diritto di insistenza” secondo cui i soggetti già titolari di concessioni balneari sarebbero stati preferiti, nell’ottenimento di nuove concessioni, ad altri soggetti senza concessioni a carico. Lo stesso diritto disponeva poi il rinnovo automatico delle concessioni ogni sei anni (fatta eccezione per revoche per motivi collegati all’uso del mare o altri motivi di interesse pubblico). Si trattava di fatto dell’introduzione di una barriera all’entrata per nuovi potenziali detentori di concessioni e della concretizzazione di un vero e proprio monopolio per i detentori già presenti sul mercato.

Con l’evoluzione della legislazione comunitaria in tema di concorrenza, questo ha inevitabilmente condotto a un conflitto crescente con le istituzioni europee.[2] Nel 2006 infatti entra in vigore la direttiva Europea n. 123, meglio nota come “direttiva Bolkestein”, dal nome del suo principale proponente. La direttiva, per stimolare la concorrenza e proteggere i consumatori, richiede che il rilascio di nuove concessioni e/o il rinnovo di quelle già esistenti seguano procedure pubbliche, trasparenti e imparziali, imponendo anche che tutti i potenziali candidati siano posti sullo stesso piano dalla normativa. La direttiva europea si pone dunque direttamente in contrasto con il diritto di insistenza italiano, un conflitto che già nel 2009 conduce all’apertura di una prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Nel 2010 il governo italiano risponde abrogando il diritto di insistenza e il tacito rinnovo, ma prorogando a fine 2015 le concessioni in essere. Questa decisione non soddisfa la Commissione, che nel maggio 2010 mette nuovamente in mora l’Italia. La procedura si chiude nel 2012 grazie a un ulteriore riordino della normativa italiana. Tuttavia, nello stesso anno, le concessioni già prorogate al 2015, vengono ulteriormente prorogate fino al 2020. Questo riapre il contenzioso con l’Europa e nel 2016 si arriva a una nuova procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Nonostante ciò, la legge di bilancio 2018 proroga le concessioni addirittura al 31 dicembre 2033.[3] Il 3 dicembre 2020 la Commissione europea invia quindi una nuova lettera di messa in mora, che viene però ignorata dal governo italiano.

A questo punto intervengono anche gli organi giurisdizionali italiani. Nel 2021, il Consiglio di Stato si pronuncia, imponendo che le concessioni in essere abbiano fine improrogabilmente entro il 31 dicembre 2023. La decisione, tuttavia, viene respinta dal TAR di Lecce.[4] Nel frattempo, nonostante la pronuncia del Consiglio di Stato, il governo Meloni decide comunque di prorogare le concessioni di un altro anno, fino al 31 dicembre 2024,[5] provocando un ulteriore intervento da parte del Consiglio che ad agosto 2023 precisa il dovere da parte di tutti gli organi dello Stato di disapplicare la proroga poiché in contrasto con la legge europea.[6]

Mentre dunque la situazione si ingarbuglia sempre di più sul piano giuridico, con anche conflitti interni tra i poteri dello Stato, la Commissione va avanti con la procedura di infrazione inviando a novembre 2023 un parere motivato[7] che impone un aut aut al Paese: il governo italiano ha due mesi di tempo per “dare spiegazioni” in merito alle ripetute violazioni sulla Bolkestein, dopodiché “decideremo il passo successivo”.[8] La lettera fa seguito alla sentenza della Corte di Giustizia UE dell’aprile scorso che stabiliva che “le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente”.

Nel frattempo, nello sforzo di contestare la validità delle richieste europee, il governo Meloni si impegna anche in uno sforzo di ricognizione della situazione delle concessioni balneari nominando un apposito tavolo tecnico-consultivo. Questi, a settembre 2023, presenta una relazione[9] da cui risulta che le coste italiane sarebbero lunghe 11.172,79 chilometri, cioè ben 2.200 km in più di quanto calcolato dall’Istat (8.970 chilometri).[10] Il tema è rilevante perché la direttiva Bolkestein presuppone la “scarsità delle risorse naturali” e non si applica se le risorse naturali (in questo caso, le spiagge) non sono, appunto, scarse.[11] E infatti (nota del 5 ottobre 2023 diramata dalla Presidenza del consiglio), il tavolo conclude che l’attuale occupazione degli stabilimenti balneari è limitata a solo il 33 per cento delle aree disponibili;[12] ne consegue che essendo il 67 per cento delle spiagge ancora libere, la direttiva Bolkestein non debba applicarsi. Questa conclusione viene però respinta dalla Commissione che, come ricordato sopra, prosegue nel suo percorso di infrazione nei confronti dell’Italia. Secondo le anticipazioni della stampa, in una lettera riservata al governo,[13] la Commissione avrebbe osservato come il 33 per cento sia stato calcolato rispetto al totale delle coste (escludendo solo le aree militari e secretate), classificando come superfici “disponibili” anche aree non accessibili, aviosuperfici, porti con funzioni commerciali, aree industriali relative a impianti petroliferi, industriali e di produzione di energia, aree marine protette, parchi nazionali ecc.

E in effetti, per citare un dato terzo, l’ultimo rapporto di Legambiente stima che il totale delle coste basse italiane occupate da concessioni sarebbe pari al 42,8 per cento.[14] In particolare, in alcune Regioni, come in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, si raggiungono dei veri e propri record a livello europeo con oltre il 70 per cento delle spiagge occupato da stabilimenti balneari. Per esempio, nel Comune di Gatteo (FC) tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (LU), Camaiore (LU), Montignoso (MS), Laigueglia (SV) e Diano Marina (IM) l’occupazione è intorno al 90 per cento, lasciando liberi solo pochi metri spesso alle foci di torrenti o di canali in aree degradate.

Cosa succede all’estero?

La caparbietà con cui i governi italiani di varia estrazione hanno difeso nel corso degli ultimi 15 anni la possibilità degli attuali titolari di concessioni balneari di mantenerle senza sottoporle a gara, pur in contrasto con gli stessi orientamenti giurisdizionali italiani e rischiando anche sanzioni salate da parte dell’Unione europea, fa oggettivamente impressione. Una naturale curiosità è allora sapere che cosa succede all’estero, se le direttive europee verso una maggiore concorrenza nell’allocazione delle concessioni balneari crea le stesse resistenze oppure no. La risposta è: dipende dal Paese, ma da nessuna parte il conflitto ha assunto le dimensioni italiane.[15]

In Spagna le spiagge sono da sempre “libere”, per cui non possono essere mai soggette a concessioni. È invece previsto il rilascio delle concessioni per quanto riguarda la zona interna del demanio situata al termine della spiaggia vera e propria. Per poter esercitare attività a scopo di lucro (come il noleggio di ombrelloni e lettini), le autorizzazioni dovrebbero essere rilasciate, in linea teorica, in seguito a un bando pubblico. Tuttavia, la legge spagnola rimette alla discrezionalità dell’amministrazione concedente la decisione sulla convocazione della gara. Per quanto riguarda la durata delle concessioni, nel 2013 il periodo massimo è stato spostato da trenta a settantacinque anni.[16] Una possibilità di proroga così ampia è entrata ovviamente in contrasto con le direttive europee portando all’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti del Paese iberico.

In Portogallo il demanio marittimo distingue la licenza (per l’occupazione temporanea delle spiagge con strutture di facile rimozione e per un tempo massimo di 10 anni) dalla concessione (per la costruzione stabile di strutture per attività turistiche e simili, per massimo 75 anni come in Spagna). L’assegnazione degli stabilimenti portoghesi per gran parte delle licenze e per tutte le concessioni richiede, come in Italia, un bando di gara pubblico. Ma come in Italia, anche in Portogallo vige un diritto di preferenza per i titolari delle concessioni, sebbene nel caso portoghese tale diritto sia valido solo se richiesto entro un anno dalla scadenza della concessione. Come per l’Italia, il diritto preferenziale a favore dei titolari storici è stato valutato in contrasto con la direttiva Bolkestein. Per tale motivo il Paese ha ricevuto una lettera di messa in mora dalla Commissione europea nel 2022,[17] poi confermata nel gennaio 2023 perché il governo non ha risposto entro i termini previsti.

Esistono invece dei Paesi il cui regime concessorio rispetta i principi concorrenziali europei. In Francia il procedimento di assegnazione della concessione balneare (che non può superare i 12 anni) è condotto dal prefetto competente. Nell’ordinamento francese è prevista l’esistenza di un diritto di prelazione riconosciuto alle amministrazioni locali; se questo diritto non viene esercitato e l’attuale concessionario non è un’amministrazione locale la concessione viene attribuita tramite asta pubblica sotto il controllo del prefetto. In Croazia la concessione deve essere rilasciata sulla base di una gara pubblica con durata massima di 20 anni. In Grecia le concessioni hanno una durata variabile che viene stabilita dai singoli comuni. L’affidamento della gestione di tratti di spiaggia avviene tramite bandi di gara pubblici, con procedure di selezione che garantiscono imparzialità e trasparenza. Inoltre, qualora si verifichi l’alterazione delle caratteristiche morfologiche e naturalistiche del tratto di spiaggia oggetto di bando a causa dell’attività del titolare della concessione, l’amministrazione ha il diritto di recedere unilateralmente dal contratto di gestione.

I numeri in Italia

Ma di che cosa esattamente stiamo parlando? Gli ultimi dati ufficiali per l’Italia fanno riferimento al 2021.[18] In quell’anno, sulla base dei dati disponibili, le concessioni demaniali per uso turistico e ricreativo (stabilimenti balneari) erano 6.592, con un fatturato medio dichiarato di 260.000 euro l’anno per impresa, occupando 60.000 addetti (di cui 43 mila dipendenti per lo più stagionali; si veda la Fig. 1).[19] La metà delle entrate risultava derivare dai “servizi tradizionali” (spiaggia, parcheggio e noleggio di attrezzature da spiaggia), il resto invece prevalentemente da bar e ristoranti. Secondo le stime, il valore aggiunto creato dai soli stabilimenti balneari supererebbe i due miliardi di euro.[20]

Per quanto riguarda la superficie, il 72,3 per cento degli stabilimenti occupava nel 2021 meno di 3.000 mq e il 94,9 per cento meno di 10.000 metri quadri. Si tratta dunque di stabilimenti molto piccoli, anche se spesso gli esercenti collezionano più di una concessione. In termini di distribuzione geografica, come si nota dalla Fig. 2, l’Emilia-Romagna deteneva il maggior numero di stabilimenti (14,7 per cento), segue poi la Toscana (12,9 per cento) e la Liguria (11,4 per cento). Agli ultimi posti la Campania (9,8 per cento), la Calabria (8,8 per cento) e il Lazio (7,8 per cento). È anche interessante osservare che nelle regioni del Sud Italia il fenomeno è esploso soprattutto negli ultimi anni: in Calabria, Puglia, Sicilia e Campania uno stabilimento su due è nato infatti dopo il 2010.

I canoni attuali sono adeguati?

Naturalmente, tutta la questione in merito alla necessità o meno di applicare delle procedure di gara è rilevante nella misura in cui ci aspetta che i gestori attuali paghino cifre troppo basse per le concessioni rispetto al beneficio che ne ricavano. Se il canone per le concessioni fosse in linea con il prezzo di mercato (cioè, quanto sarebbe disposto a pagare un potenziale nuovo gestore, al netto del riconoscimento di eventuali indennizzi per migliorie introdotte dal gestore attuale) il problema non si porrebbe. Mentre è difficile rispondere in astratto, ci sono molte indicazioni che in effetti i gestori attuali godano di un forte e ingiustificato privilegio.

Intanto, i canoni demaniali marittimi legati alle concessioni sono molto bassi, rimasti sostanzialmente invariati dal 1989 al 2020 e solo di recente aumentati (nel 2021).[21] La Tav. 1 illustra, mostrando i canoni delle concessioni demaniali relativi al 2022 (che sono quelli del 2021 con una maggiorazione del 7,95 per cento per via dell’inflazione). I canoni tengono conto sia della tipologia dell’area demaniale data in concessione, sia della categorizzazione della stessa in un’area classificata ad “alta valenza turistica” (categoria A) oppure a “normale valenza turistica” (categoria B). Si osserva comunque dalla Tav. 1 che c’è un minimo che gli stabilimenti devono pagare indipendentemente dalla loro dimensione, un vincolo la cui logica sottostante non appare chiara e che ha suscitato non poche proteste sulla stampa.[22]

Ad ogni modo, i numeri riportati nella tabella suggeriscono qualche semplice esercizio. Per esempio, si consideri uno stabilimento con 100 postazioni, dove ogni postazione (ombrellone più sdraio) secondo la normativa corrente deve occupare minimo 10 metri quadri di superficie, per cui la superficie totale della spiaggia è pari a 1.000 metri quadri (100 ombrelloni per 10 metri quadri). Si immagini anche il cui prezzo medio per postazione (ombrellone più sdraio) sia pari a 30 euro al giorno, una cifra certo contenuta. Si immagini infine che lo stabilimento sia aperto solo per tre mesi (giugno, luglio e agosto) e che riesca a occupare in media solo la metà degli ombrelloni nel periodo. Le 50 postazioni frutterebbero dunque al gestore 138.000 euro (50 ombrelloni per 30 euro per 92 giorni). A fronte di questi ricavi, sulla base della Tav. 1, il gestore pagherebbe per la concessione della spiaggia 2,77961 euro al metro quadro se l’area in cui si trova lo stabilimento è ad alta valenza turistica (categoria A) e 1,3898 euro al metro quadro se invece lo stabilimento è in un’area a bassa valenza turistica (categoria B). Di conseguenza, il canone sarà pari a 2.779,61 euro se lo stabilimento si trova in un’area di categoria A (cioè, il 2,01 per cento dei ricavi), mentre è di 2.698,75 euro (per l’effetto del minimo) se si trova in un’area di categoria B (cioè il 1,96 per cento dei ricavi). In entrambi i casi, la quota del canone sui ricavi è ovviamente risibile e lo sarebbe stato anche se l’incremento previsto nel 2023 e poi non attuato (si veda la nota precedente) fosse stato introdotto.

In termini aggregati, il Def 2016 stimava in 103 milioni il gettito complessivo per lo Stato derivante dall’insieme delle concessioni, una voce che però è scomparsa dai Def successivi.[23] Più di recente, la Corte dei Conti[24] ha stimato in circa 93 milioni il gettito complessivo ricavato dalle concessioni balneari. Altre stime riportano anche dati inferiori, enucleando dal totale dei pagamenti per le concessioni come risultano dai dati dell’Agenzia sul Demanio nel 2022 (circa 107 milioni di euro), i pagamenti relativi alla cantieristica e il diporto nautico. In questo caso, la cifra pagata dai concessionari balneari scenderebbe a poco più di 55 milioni di euro (di fatto 43 milioni, perché c’è un tasso di morosità attorno al 20 per cento).[25] In tutti i casi, si tratta chiaramente di cifre molto basse, tenendo conto che si fa riferimento alle concessioni per l’insieme delle spiagge italiane, oltre 4.000 chilometri di spiagge se si crede al rapporto citato in precedenza di Legambiente. Per confronto, nel 2021 il Comune di Milano, per l’affitto dei negozi della sola Galleria Vittorio Emanuele, ha incassato 53 milioni di euro, una cifra che dovrebbe aver raggiunto i 60 milioni nel 2022.[26]

Difficile, dunque, non convenire con il giudizio della Corte dei conti: “i canoni attualmente imposti non risultano, in genere, proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari attraverso l’utilizzo dei beni demaniali dati in concessione, con la conseguenza che gli stessi beni non appaiono, allo stato attuale, adeguatamente valorizzati”.


[1] Per un ulteriore approfondimento si veda la nostra precedente nota: “Le procedure di infrazione comunitarie: l’UE non è solo disciplina di bilancio”, 17 ottobre 2023.

[2] Si veda la sezione dedicata alle Concessioni demaniali marittime del sito web del Parlamento italiano.

[4] Per un ulteriore approfondimento si vedano le sentenze del Consiglio di Stato n. 17/2021 e n. 18/2021. Queste sentenze sono state contestate dal TAR Lecce (sentenza n. 1223/2023), affermando che la direttiva Bolkestein dovesse essere applicata solo nei casi in cui la spiaggia forse in condizione di scarsità accertata dallo Stato membro e non, invece, applicata in ogni circostanza. Con questa decisione è stata confermata dal TAR la proroga al 31 dicembre 2024.

[5] Art. 10-quater, comma 3, D.L. n. 198/2022, “Milleproroghe Meloni” 2023.

[6] Per un ulteriore approfondimento si veda la sentenza del Consiglio di Stato n. 7992/2023.

[7] Per un ulteriore approfondimento si veda il parere motivato della Commissione europea indirizzato alla Repubblica italiana, 16 novembre 2023.

[8] Citazione di Johanne Bernsel, portavoce della Commissione europea.

[10] Per un ulteriore approfondimento si veda: Annuario statistico italiano 2022, Istat, Tavola 1.5.

[11] “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza” articolo 12, Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

[12] Per un ulteriore approfondimento si veda il resoconto della Riunione del Tavolo tecnico del 5 ottobre 2023 sulle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali.

[13] La lettera inviata dalla Commissione europea non è stata resa pubblica, una mancanza di trasparenza segnalata anche dal Parlamento europeo.

[14] Per un ulteriore approfondimento si veda: Report Spiagge 2023, Legambiente, luglio 2023.

[15] Per ulteriori approfondimenti si veda lo studio “Italian state beach concessions and Directive 2006/123/EC, in the European context” del Parlamento europeo e il “Rapporto Spiagge 2019” di Legambiente.

[16] La proroga delle concessioni esistenti è soggetta a un rapporto ambientale che indichi gli effetti dell’occupazione attuale sull’ambiente ed espliciti le condizioni per garantire la protezione del demanio pubblico e terrestre.

[18] Per un ulteriore approfondimento si veda: “Concessioni demaniali e imprese balneari in Italia”, Nomisma, anno 2022.

[19] Il totale delle concessioni balneari a uso turistico-ricreativo è 15.414, ma occupano in media 2,3 concessioni; quindi, il numero vero e proprio si riduce a 6.592.

[20] Le stime variano. Spesso si riporta un giro di affari relativo agli stabilimenti balneari pari a 15 miliardi, ma questo include anche quello delle attività collegate al turismo nelle località costiere (compresi per esempio alberghi e ristoranti). Per un ulteriore approfondimento si veda: “Gestione e valorizzazione del demanio costiero: i modelli gestionali”, Nomisma, 2023.

[21] Legge n. 126 del 13 ottobre 2020 (in conversione del decreto “agosto”, D.L. n. 104, art. 100 comma 2). I canoni avrebbero dovuto essere ulteriormente aumentati nel 2023 (decreto n. 321 del 30 dicembre 2022) a seguito dell’incremento dei prezzi certificato dall’Istat, ma il Consiglio di Stato (ordinanza n. 2510/2023) ha per il momento sospeso l’efficacia del decreto a causa “dell’applicazione a fini di adeguamento del canone di un indice statistico non previsto a livello normativo”.

[22] Per un ulteriore approfondimento, si vedano gli articoli: “Prezzi alle stelle del canone demaniale per le realtà sociali, sportive, ricreative e piccole attività commerciali”, Vivere Pesaro, 16 novembre 2021; “Concessioni demaniali, Nadia Rossi: ‘Canone minimo fino a 2.500 euro’”, RiminiToday, 23 febbraio 2021; “Concessioni demaniali, Scajola: ‘Inaccettabile il canone minimo a 2500 euro’”, Gazzetta della Spezia, 29 novembre 2020.

[23] Per un ulteriore approfondimento si veda la nostra precedente nota: “Spiagge in regalo: perché l’attuale sistema di concessioni balneari va riformato?”, 24 gennaio 2020.

[24] Per un ulteriore approfondimento si veda: Corte dei conti, “La gestione delle entrate derivanti dai beni demaniali marittimi”, 21 dicembre 2021.

[25] Per un ulteriore approfondimento si veda: “Tutte le concessioni delle spiagge rendono allo Stato meno degli affitti della galleria del Duomo di Milano”, L’Espresso, 18 aprile 2023.

[26] Secondo quanto affermato dall’assessore al bilancio Emmanuel Conte si veda: “Milano: affitti in Galleria valgono 55mln, obiettivo 60 nel 2022”, ANSA, 23 giugno 2022.

Un articolo di

Rossana Arcano, Massimo Bordignon, Alessio Capacci

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