Lavoro

Intelligenza artificiale, produttività e il futuro del lavoro

02 aprile 2024

Intermedio

Intelligenza artificiale, produttività e il futuro del lavoro

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Nel nostro viaggio nel mondo dell’intelligenza artificiale ci imbattiamo continuamente in due convinzioni diffuse che sembrano essere condivise anche da una parte della letteratura economica. La prima è l’idea che l’IA avrà certamente un effetto di prim’ordine sul tasso di crescita della produttività delle imprese e delle nazioni. La seconda, strettamente legata alla prima, è che gli aumenti di produttività prenderanno la forma di sostituzione di macchine al posto delle persone e dunque distruggeranno posti di lavoro. Nel seguito, argomentiamo che la prima proposizione non è affatto certa. È possibile che l’IA abbia effetti non molto diversi da quelli che hanno avuto le altre grandi innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni quali l’introduzione dei computer mainframe, di internet, dei PC e infine degli smartphone. L’introduzione massiccia di queste e altre innovazioni non hanno impedito il continuo e persistente declino della crescita della produttività che si è manifestato, decennio dopo decennio, dagli anni Ottanta a oggi in quasi tutti i Paesi avanzati. Se però si avverassero le previsioni di un robusto aumento della produttività, con connessa sostituzione di macchine al posto dei lavoratori, questa non dovrebbe essere vista come una minaccia. Porrebbe problemi di transizione che richiedono politiche per la formazione dei lavoratori e per un’equa redistribuzione del reddito. Ma aiuterebbe a rendere sostenibili i debiti pubblici e i sistemi di welfare, in un contesto caratterizzato da trend demografici assolutamente dirompenti che già stanno impattando sul mercato del lavoro. Già oggi, infatti, in molti Paesi avanzati le imprese faticano a trovare lavoratori e nel futuro prossimo non mancherà il lavoro, ma mancheranno i lavoratori, soprattutto i giovani.

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In alcune precedenti note abbiamo cercato di capire cosa sia l’intelligenza artificiale (IA), chi la stia sviluppando e soprattutto chi la stia già oggi utilizzando nei processi produttivi.[1] Nel leggere una grande quantità di lavori di ricerca e report di società di consulenza, abbiamo constatato come quasi tutti diano per scontato che l’IA sarà un formidabile acceleratore della produttività dei sistemi economici.[2] Un recente lavoro di un ampio team di ricercatori del Fondo Monetario Internazionale muove dall’ipotesi che nel Regno Unito l’introduzione dell’IA aumenterà la crescita della produttività del lavoro di 1,5 punti percentuali all’anno in media nei primi dieci anni dall’adozione; e commenta anche che questa è una stima bassa rispetto a ciò che emerge dagli studi ad oggi disponibili.[3] Va da sé che un aumento di 1,5 punti percentuali è una variazione davvero enorme rispetto ai tassi di crescita che sono stati sperimentati dal Regno Unito e dagli altri Paesi avanzati negli ultimi decenni; nel caso britannico essa significherebbe un raddoppio della crescita della produttività rispetto all’ultimo decennio.

Questa convinzione alimenta il timore della cosiddetta disoccupazione tecnologica, ossia della distruzione di posti di lavoro generata dall’introduzione nei processi produttivi di macchine che sostituiscono le persone. Non è un caso che, in risposta a questo sentimento diffuso, il lavoro del Fondo Monetario si concentri non tanto sui benefici di una maggiore produttività, ma soprattutto sugli effetti distributivi dell’IA sul mercato del lavoro e dunque sui rischi di spiazzamento di alcuni tipi di lavoro (lavori impiegatizi di livello medio-alto), a favore di altri (lavori intellettuali, come quelli di medici, magistrati e manager) che verrebbero potenziati dall’IA, nonché sui guadagni per i detentori del capitale che produce l’IA.

In un recente sondaggio, l’OCSE ha intervistato 5.334 lavoratori e manager di 2.053 imprese appartenenti al settore manifatturiero e finanziario di alcuni Paesi avanzati (Austria, Canada, Francia, Germania, Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti).[4] Il 20 per cento dei lavoratori intervistati nel settore finanziario e il 15 per cento in quello manifatturiero ha affermato di aver conosciuto qualcuno all’interno dell’impresa che ha perso il lavoro a causa dell’IA. Inoltre, il 19 per cento dei lavoratori nella finanza e il 14 per cento nella manifattura ha affermato di essere estremamente preoccupato di perdere il lavoro nei prossimi dieci anni, contro un 46 e un 50 per cento che ha dichiarato di non avere alcun timore. In ogni caso, molti si aspettano che l’utilizzo maggiore di IA porterà a salari più bassi in futuro.

Dunque, la paura esiste e non può essere sottovalutata, nel senso che potrebbe avere l’effetto di accentuare le resistenze dell’opinione pubblica e della politica rispetto alla creazione di un ecosistema favorevole all’innovazione.

L’IA aumenterà la produttività?

Non è affatto ovvio che l’IA, pur essendo uno sviluppo assolutamente straordinario dal punto di vista tecnologico, abbia effetti importanti sulle variabili che più interessano gli economisti: la produttività del lavoro (per occupato o per ora lavorata), la produttività totale dei fattori, l’occupazione, il Pil. Sappiamo che l’IA avrà effetti sul mercato del lavoro, nel senso che modificherà il modo di lavorare e il reddito di molte persone: alcuni ne trarranno beneficio, altri ne saranno svantaggiati; nuove diseguaglianze si genereranno e questo richiederà politiche capaci di accompagnare i lavoratori nel cambiamento e mantenere un’equa distribuzione del reddito. Ma non è detto che questi cambiamenti portino a un’accelerazione della produttività e quindi del tasso di crescita dell’economia.

Su questo punto la letteratura economica sembra divisa in due filoni nettamente distinti. Chi si occupa specificamente di IA, spesso in collaborazione con ingegneri o consulenti informatici (come peraltro facciamo noi in questa nota), tende a vedere un futuro radioso in cui la crescita economica tornerà ai fasti dei primi decenni del dopoguerra. Chi invece studia il tema della produttività si chiede come mai il suo tasso di crescita sia costantemente diminuito in quasi tutti i Paesi avanzati malgrado le straordinarie innovazioni tecnologiche dagli anni Settanta-Ottanta a oggi.

La Fig. 1 mostra la crescita della produttività (Pil reale per ora lavorata; medie per decenni) negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Italia dagli anni Cinquanta. Ci sono notevoli differenze fra questi Paesi, e tassi di crescita della produttività del 2 per cento, come negli Stati Uniti nello scorso decennio, fanno una certa invidia. Ma il fatto è che negli Stati Uniti la produttività cresceva al 4,7 per cento negli anni Sessanta, al 4,0 negli anni Settanta, al 3,4 negli anni Ottanta; è poi diminuita al 3,0 per cento negli anni Novanta, al 2,4 negli anni Duemila e al 2,1 negli anni Dieci. Analoghe riduzioni, anzi più accentuate, sono avvenute nel Regno Unito e in Italia. In Italia la caduta è stata precipitosa, dal 6,4 per cento medio degli anni Sessanta a uno striminzito 0,5 per cento negli anni Dieci di questo secolo. Ogni altra misura della produttività (Pil per lavoratore, produttività totale dei fattori ecc.) restituisce la stessa fotografia di un declino secolare.

Il fatto è che da almeno quarant’anni ci si attende di vedere l’effetto dell’introduzione dei computer sulla produttività del sistema economico.[5] Già nel 1987 Robert Solow, Premio Nobel per l’economia per i suoi studi sulla crescita economica, osservò che “i computer si vedono ovunque, salvo che nelle statistiche di contabilità nazionale”. Anche nel 1987, in risposta a Solow, molti dissero “vedrete”, nella convinzione che l’onda della nuova rivoluzione tecnologica sarebbe stata visibile anche nelle statistiche sulla crescita economica. Invece così non è stato. Dopo i grandi mainframe arrivarono i personal computer, internet, e poi gli smartphone, con capacità di calcolo impressionanti. Molti processi produttivi sono stati robotizzati e ormai da almeno un decennio una fabbrica metalmeccanica usa sistemi laser automatizzati per tagliare le lamiere di metallo e somiglia più a una sala operatoria che a un’officina meccanica. Progressi di questa natura, così come i robot e gli esoscheletri, hanno sicuramente alleviato la fatica del lavoro e hanno reso più competitive le imprese che li hanno adottati, ma hanno fatto molto poco per aumentare la produttività del sistema. Ciò significa che non è aumentato il prodotto per lavoratore (o per ora lavorata) e quindi non sono neanche state poste le premesse per quel tipo di progresso che, secondo alcuni, potrebbe generare disoccupazione tecnologica.

Fra le molte teorie che sono state sviluppate per spiegare il declino della produttività nell’era della digitalizzazione, una merita di essere qui menzionata. Le istituzioni che compilano le statistiche di contabilità nazionale (come in Italia l’Istat) misurano il prodotto interno lordo (o nazionale netto o valore aggiunto), ma non misurano né la soddisfazione dei consumatori né la fatica dei lavoratori. È dunque possibile che gli smartphone abbiano migliorato la nostra vita perché ci consentono di fare cose che una volta erano molto costose (si pensi alle fotografie, o ai rapporti con parenti che abitano in diverse città o nazioni, o l’accesso alle informazioni delle enciclopedie online ecc.). Ed è possibile, anzi certo, che i robot abbiano alleviato la fatica di milioni di persone. Ma né la soddisfazione dei consumatori né la minor fatica dei lavoratori entrano nel concetto di prodotto che è rilevante per la contabilità nazionale.

In una famosa intervista al Wall Street Journal del 16 aprile 2015, Hal Varian, uno stimato studioso di microeconomia e capo economista di Google, fece l’esempio delle fotografie: nell’anno 2000 nel mondo furono fatte circa 80 miliardi di foto, cosa che si può calcolare per il fatto che c’erano solo tre grandi imprese che producevano i rullini. Tenuto conto del costo dello sviluppo, ogni foto costava circa 50 centesimi di dollaro. Nel 2015, il numero di foto è salito a 1.600 miliardi (20 volte tanto; stima di Google) e il loro costo è sceso essenzialmente a zero. Per ogni essere umano – afferma Varian – questo è un incredibile aumento della produttività, ma per gli statistici l’effetto sul Pil è nullo. Un altro esempio è quello del GPS, che in origine era una tecnologia costosa che solo le imprese di logistica si potevano permettere. Man mano che il costo del GPS è sceso, questa tecnologia si è diffusa fra i consumatori e il Pil è aumentato. Sino a che il GPS è stato incorporato negli smartphone, e, a quel punto, è uscito dalle statistiche del Pil.

Lo smartphone, il manufatto che più di ogni altro caratterizza la nostra epoca, sostituisce un’enormità di beni e servizi che prima avevano un costo e contribuivano alle statistiche del Pil, dunque della produttività: l’orologio, la sveglia, la posta, la torcia, le mappe, i giornali, i libri, le biblioteche scientifiche ecc. Oggi, ogni essere umano dotato di un collegamento internet ha a propria disposizione più informazioni di qualità di tutte le biblioteche del mondo messe insieme. Non c’è biblioteca di Alessandria che tenga (e questo è facile), ma non c’è neanche Library of Congress che tenga. Quanto vale questa incredibile massa di informazioni messa a disposizione di tutti in modo pressoché gratuito? Se uno Stato avesse voluto dare un’enciclopedia a ogni cittadino come contributo alla cultura, quanto sarebbe costato?

È utile chiarire che c’è una logica nel fatto che servizi gratuiti non entrino nella misura del Pil. La logica è che fino al momento in cui non si forma un reddito monetario, lo Stato non ha alcun vantaggio in termini di gettito fiscale. Quindi, le nuove tecnologie, anche ammettendo che migliorino la vita e il livello culturale delle persone (il che ovviamente è oggetto di molte opinioni diverse), non aiutano a rendere più sostenibile il debito pubblico o il sistema del welfare. Il paradosso è che quando le fotografie e i libri erano costosi vi era un reddito monetario che lo Stato poteva tassare e con il quale poteva finanziare i beni pubblici. Ora non più.

In sintesi, le nuove tecnologie forse migliorano la qualità della vita, ma non hanno effetti macroeconomici paragonabili a quelli che ebbero nei primi decenni del dopoguerra l’introduzione di beni come l’automobile, il frigorifero, la televisione e tutti gli altri elettrodomestici che oggi sono nelle case di tutti.

Vi sono altre teorie che cercano di spiegare il declino della produttività nell’era dei computer e della digitalizzazione. Alcuni pensano che gli effetti si vedranno in futuro. Dopotutto, ci volle molto tempo prima che una grande scoperta come quella dell’elettricità producesse i suoi effetti sul sistema produttivo. Alessandro Volta inventò la pila nel 1799, ma solo verso la fine del secolo successivo si cominciarono a vedere le prime applicazioni industriali; uno dei primi fu quello di Thomas Edison nel 1882. Altri ritengono che il Pil dovrebbe cercare di misurare meglio la qualità della vita.

In ogni caso, è un fatto che negli ultimi decenni la produttività è decelerata e molte nazioni, tra cui l’Italia, si sono trovate in difficoltà crescenti perché la bassa crescita ha compresso il tenore di vita di buona parte della popolazione e ha contribuito a mantenere basso il gettito fiscale e a rendere più difficile la gestione del debito pubblico.

Per concludere, c’è qualche ragione per pensare che l’IA possa avere effetti molto importanti sulla produttività? La nostra risposta è che non lo sappiamo. Notiamo solo che per ora nessuno è riuscito a dare prove concrete degli effetti dell’IA sui processi produttivi. Persino il rapporto di McKinsey, già citato e giustamente famoso, usa un linguaggio possibilista: nell’elencare i benefici dell’IA per le imprese, si dice sempre che l’IA “può” fare delle cose utili. Raramente, almeno finora, abbiamo visto casi che siano già realtà e che abbiano effetti davvero importanti sulla produttività. Inoltre, molti dei benefici che vengono elencati tipicamente migliorano la competitività di un’azienda, ma hanno effetti modesti o nulli sulla produttività del sistema economico. È questo il caso dell’uso dei dati aziendali per fare un marketing personalizzato e comunque più efficace. O anche dei chatbot delle società di servizi (per esempio le banche, Booking o Airbnb) per tenere rapporti apparentemente personalizzati con i clienti. Non è detto che queste innovazioni abbiano effetti sulla produttività di sistema. Peraltro, sembra che siano ancora poche le imprese che dichiarano che stanno sviluppando tecnologie il cui scopo è essenzialmente quello di rimpiazzare il lavoro umano. Nei sondaggi, le imprese suggeriscono che le decisioni di adottare un’IA sono motivate più dall’obiettivo di affiancare le capacità umane che dall’obiettivo di sostituire i lavoratori.

Anche la letteratura accademica più seria è piuttosto cauta e possibilista. Saggiamente, Acemoglu, Autor, Hazell e Restrepo, considerando quanto recente sia il fenomeno, ritengono che l’effetto dell’IA su produttività e occupazione potrebbe essere ancora troppo piccolo per essere rilevato dai dati.[6]

Alcuni dei primi lavori sull’IA sottolineavano come questa possa (anche in questo caso si sottolineava un potenziale, più che una realtà) facilitare l’automazione di molte mansioni svolte da lavoratori umani, il che può comportare una riduzione della domanda di lavoro e dei salari per alcuni tipi di lavoratori.[7] Sulla stessa lunghezza d’onda si trovavano Agrawa, Gans e Goldfarb, secondo cui l’IA può aumentare la produttività e rimpiazzare lavoro con capitale meno costoso.[8] Dall’altro lato, l’IA ha il potenziale di creare maggiore innovazione e di generare, da sola, nuove tipologie di industria con tanto di nuovi posti di lavoro. Studi più recenti come quello di Milanez, basato – questo sì – su casi reali censiti dall’OCSE, trovano che l’utilizzo di IA porterà con molta probabilità a una riorganizzazione invece che a una vera e propria sostituzione del lavoro: l’automazione incentivata dall’IA porterà le persone a svolgere quelle tipologie di mansioni in cui è l’essere umano, e non la macchina, a presentare un vantaggio comparato.[9]

Molti autori, infatti, distinguono fra mansioni “di routine” e “non di routine”. Le prime sono ovviamente quelle a maggior rischio di sostituzione; le mansioni “non di routine” richiedono invece certe abilità che non sono così facilmente rimpiazzabili da un computer (come creatività, intuizione e inventiva). Per esempio, per formulare una previsione su una variabile economica un economista deve formulare un’analisi econometrica sulla base dei dati presenti in un certo dataset; probabilmente, questo tipo di mansione è sostituibile da un sistema IA. Tuttavia, il lavoro non è finito qui. Sulla base degli esiti forniti da questa analisi, l’economista dovrà scrivere un report ed eventualmente fornire un servizio di consulenza sulla base di questi risultati; questo tipo di mansioni non è facilmente sostituibile, a causa della complessità e del tipo di ragionamento che deve essere sviluppato in seguito.

In ogni caso noi auspichiamo che ci sia meno bisogno di economisti che svolgano lavori di routine e in generale di esseri umani nei processi produttivi, e nel prossimo paragrafo spieghiamo perché.

La produttività nell’era dell’invecchiamento della popolazione

Il principale motivo per il quale non vi è ragione di temere per il futuro del lavoro è che nei prossimi anni, per via della bassa natalità, in quasi tutti i Paesi avanzati ci sarà carenza di lavoratori, non certo di lavori. Inoltre, l’allungamento della speranza di vita determinerà costi crescenti per i sistemi pensionistici e per la sanità. Se dunque il fantasma dei computer evocati da Robert Solow si risvegliasse e, per via delle straordinarie scoperte tecnologiche degli ultimi decenni, le macchine cominciassero ad apparire nelle statistiche di contabilità nazionale nella forma di aumenti di produttività, sarebbero quanto mai benvenute. Le nostre società avanzate hanno un disperato bisogno di aumenti di produttività, proprio di quegli aumenti che prendono la forma di macchine che sostituiscono il lavoro degli uomini. O di macchine che aiutano una persona a svolgere il lavoro che prima veniva svolto da due o più persone. L’aumento della produttività avrebbe effetti benefici sul benessere delle persone e consentirebbe di guardare con maggiore tranquillità al tema della sostenibilità dei debiti pubblici e dei sistemi di welfare, a fronte del rapido invecchiamento della popolazione. Naturalmente, l’aumento della produttività non è l’unico modo per affrontare il tema della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione, ma è sicuramente quello meno costoso dal punto di vista economico e politico. Si può cercare di aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, un dovere in Italia, ma un obiettivo difficile nei tanti Paesi in cui ha già superato livelli del 70-80 per cento. Si può aumentare l’immigrazione che però, oltre certi limiti, incontra problemi evidenti di accettabilità sociale. Si possono dare incentivi alla natalità, sapendo però che anche in Paesi come la Francia e la Svezia che danno incentivi molto generosi (e costosi per le finanze pubbliche) i tassi di fertilità sono decrescenti e comunque notevolmente al di sotto di quel numero (2 o 2,1 figli per donna) che garantisce che la popolazione rimanga stabile.

I grafici che seguono (Figg. da 2 a 5) mostrano quanto sia serio il problema della diminuzione del numero di lavoratori in Italia e negli altri Paesi avanzati. La Fig. 2, relativa all’Italia, mostra i dati sulla popolazione in età di lavoro (per convenzione, 15-64 anni) dal 2000 ad oggi e fino alla fine del secolo nelle ultime proiezioni dell’Eurostat. Negli ultimi dieci anni (dal 2014 a oggi), la popolazione in età di lavoro è diminuita di due milioni di unità. Nel 2014 vi erano 39,3 milioni di persone; nel 2024 sono 37,2. Gli anziani che hanno superato la soglia dei 65 anni non sono stati rimpiazzati dai giovani perché, ormai da molti anni, i nati ogni anno sono meno di 400 mila, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta, pur con una popolazione inferiore, erano vicini al milione. Non stupisce che le imprese, specialmente al Nord, non riescano a trovare lavoratori.

In questa proiezione ci sono circa 230 mila immigrati (al netto degli emigrati) ogni anno. Come noto, gli immigrati hanno un tasso di natalità più alto degli autoctoni e anche questo contribuisce ad attenuare la caduta della popolazione. Ma se si volesse o si riuscisse a bloccare l’immigrazione, l’effetto sarebbe quello di ridurre la popolazione in età di lavoro di un’altra decina di milioni di unità (linea gialla).

Variazioni nei tassi di fertilità (linea arancione) hanno invece effetti modesti e molti dilazionati nel tempo. L’esercizio è quello rappresentato nella Fig. 4, in cui, seguendo un trend fortemente discendente degli ultimi anni, si assume che la fertilità scenda da ora in poi di 0,25 figli per donna. Quindi nel 2024 i figli per donna si attestano a 1,0 anziché 1,25. La distanza rispetto alla proiezione base viene mantenuta costante in tutto il periodo. Questa variazione comincia ad avere qualche effetto visibile sulla popolazione in età di lavoro attorno al 2040; nel 2050, ridurrebbe di circa un milione il numero di persone in età di lavoro. L’esercizio è sostanzialmente simmetrico, per cui un aumento, anziché una riduzione, del tasso di fertilità di analoga entità (cosa tutt’altro che facile da conseguire) consentirebbe di limitare la caduta della popolazione di circa un milione di unità da qui al 2050. Il grafico riporta anche i dati della Francia e mostra come anche in questo Paese, nonostante tutte le politiche attuate per consentire scelte più libere da parte delle donne e delle famiglie, sia in atto un forte caduta delle fertilità verso quota 1,8-1,7.

La Fig. 3 mostra che il problema non è solo italiano, ma riguarda l’intera Unione europea. L’UE ha già perso 20 milioni di persone in età di lavoro dal picco del 2010 a oggi. Da qui a fine secolo perde quasi altri 70 milioni di persone nello scenario base. Da quasi 300 milioni di persone nel 2010, l’Unione si stringe e scende verso i 230 milioni. Scenderebbe a 150 milioni, cioè si dimezzerebbe, nello scenario di blocco delle immigrazioni.

Il problema non sarebbe serio se la riduzione della popolazione avvenisse in un contesto di decrescita bilanciata, cioè nel caso in cui rimanesse costante il rapporto fra la popolazione in età di lavoro e il resto della popolazione. Ma, come è ben noto, così non è. La Fig. 5 mostra che, in Italia, il rapporto fra la popolazione non in età di lavoro (sotto i 15 anni e sopra i 64) e la popolazione 15-64 è in aumento continuo e sostenuto. Nel 2000, il rapporto era al 48 per cento. Oggi è al 57,5 per cento. Nei prossimi decenni il rapporto si impenna fino a oltre l’80 per cento a metà secolo. Si avvicinerebbe all’unità nello scenario di blocco dell’immigrazione. Ciò significa che all’inizio di questo secolo 100 persone (potenziali lavoratori) ne mantenevano 48; oggi ne mantengono oltre 57; a metà secolo ne manterranno oltre 80. Tenuto conto che solo una parte della popolazione nella fascia di età 15-64 effettivamente lavora (oggi siamo attorno al 62 per cento), anche ipotizzando un aumento graduale dei tassi di occupazione, non vi è dubbio che si va verso un mondo in cui ogni lavoratore deve mantenere almeno una persona che non lavora (bambini e soprattutto anziani). Se si vuole dare alle persone che non lavorano lo stesso tenore di vita degli altri, occorre che, attraverso trasferimenti intergenerazionali all’interno delle famiglie o attraverso le imposte, metà del reddito di un lavoratore sia devoluto al mantenimento delle persone che non lavorano. Oltre a questo trasferimento, la popolazione in età di lavoro dovrà continuare a farsi carico del mantenimento della macchina pubblica (sicurezza, difesa, salute, giustizia, scuola, regolazione ecc.). È evidente che in questi scenari demografici una macchina che distrugga posti di lavoro può creare seri grattacapi nell’immediato, ma è la via maestra per gestire un lungo periodo di transizione verso una società con meno persone.

Anche in questo caso il problema non è solo italiano. La Fig. 6 mostra che i tassi di dipendenza per età aumentano drasticamente in tutti i Paesi europei e nell’intera Unione: aumentano anche in Francia, malgrado i più alti tassi di natalità, anche perché una parte del problema nasce dagli straordinari progressi della medicina e dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie che hanno portato all’allungamento della speranza di vita. Aumentano anche in Paesi come la Polonia, che pure hanno attraversato una vicenda storica completamente diversa da quella di Paesi come l’Italia o la Francia.

Per avere un’idea di come diversi sviluppi della produttività possano impattare sulla sostenibilità del debito pubblico (e quindi del welfare) riproduciamo qui una simulazione che dice quale sarebbe stato il rapporto debito/Pil italiano se dal 1995 l’Italia avesse avuto una crescita del Pil uguale a quella della Francia, che non è certo una tigre asiatica, ma è solo un Paese un po’ più dinamico dell’Italia.[10]

Dal 1995 al 2019 il divario di crescita con la Francia in termini di Pil reale è stato di 32,1 punti percentuali. Ciò implica che il Pil italiano sarebbe stato superiore di circa 500 miliardi di euro all’anno se il Paese fosse cresciuto come la Francia. Con il Pil aggiuntivo, il problema del debito sarebbe scomparso da tempo. Per essere precisi, il debito avrebbe raggiunto la soglia di Maastricht del 60 per cento entro il 2010 se le entrate aggiuntive derivanti dalla maggiore crescita fossero state utilizzate per ridurre il debito anziché per aumentare la spesa (Fig. 7).

Inoltre, una volta risolto il problema del debito, i 500 miliardi annui aggiuntivi avrebbero potuto essere utilizzati per consumi privati e beni pubblici tanto necessari: alleviare la povertà, finanziare la transizione climatica, modernizzare le infrastrutture, soprattutto al Sud, migliorare l’istruzione e la ricerca, accelerare la transizione digitale ecc.

La conclusione è che non possiamo che sperare che l’IA aiuti ad aumentare la produttività. L’altra faccia della medaglia di questa affermazione è che non dobbiamo avere paura che le macchine sottraggano lavoro alle persone. Perché, come abbiamo detto all’inizio, nel futuro ci sarà carenza di lavoratori, non di lavoro. Aggiungiamo che, qualora si materializzi lo scenario qui auspicato, si porranno tanti problemi che andranno affrontati. Fra gli altri, vi sarà il problema del training e re-training delle persone e, con buona probabilità, si riproporrà il tema della distribuzione del reddito, specie qualora le innovazioni più importanti rimangano patrimonio di poche grandi imprese multinazionali, capaci di eludere (ancorché legittimamente) la tassazione allocando gli utili nei paradisi fiscali.


[1] Si vedano le nostre precedenti note: “Intelligenza Artificiale: cos’è e dov’è”, 27 dicembre 2023, “Verso il G7 sull’Intelligenza Artificiale”, 6 febbraio 2024, e “Il nuovo regolamento europeo sull’IA: cosa cerca di fare e cosa fa”, 22 febbraio 2024.

[2] Si vedano l’importante lavoro di McKinsey, “The economic potential of generative AI”, 14 giugno 2023, e quello di International Data Corporation (IDC), “Drive $1 Trillion in Productivity Gains by 2026”, 12 dicembre 2023. Secondo quest’ultimo rapporto la produttività mondiale aumenterebbe addirittura del 35 per cento di qui al 2025.

[4] M. Lane, M. Williams, S. Broecke, “The impact of AI on the workplace: Main findings from the OECD AI surveys of employers and workers”, OECD Working Paper No. 288, 22 marzo 2023.

[5] Questa è la tesi di Robert Gordon in un importante lavoro intitolato The Rise and Fall of American Growth: The U.S. Standard of Living Since the Civil War, Princeton, Princeton University Press, 2016. Per un’ottima sintesi degli argomenti cfr. C. Cottarelli, Chimere. Sogni e fallimenti dell’economia, Milano, Feltrinelli, 2023.

[6] D. Acemoglu, D. Autor, J. Hazell, P. Restrepo, “AI and jobs: evidence from on line vacancies”, NBER Working Paper 28257, gennaio 2021.

[7] D. Acemoglu, P. Restrepo, “Low-Skill and High-Skill Automation”, Journal of Human Capital, 12(2), 2018, pp. 204-232; P. Aghion, B. F. Jones, C.I. Jones, “Artificial Intelligence and Economic Growth”, NBER Working Paper 23928, ottobre 2017.

[8] A. Agrawal, J. Gans, A. Goldfarb, “Artificial Intelligence: The Ambiguous Labor Market Impact of Automating Prediction”, Journal of Economic Perspective, 33(2), 2019, pp. 31-50.

[9] A. Milanez, “The impact of AI on the workplace: Evidence from OECD case studies of AI implementation”, OECD Social, Employment and Migration Working Paper, No. 289, dicembre 2023.

[10] La simulazione è tratta da L. Codogno, G. Galli, Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce, Bologna, Il Mulino, 2022.

Un articolo di

Rossana Arcano, Alessio Capacci, Giampaolo Galli, Andrea Loreggia

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