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La sfida della sostenibilità per la spesa sanitaria pubblica

07 marzo 2024

Intermedio

La sfida della sostenibilità per la spesa sanitaria pubblica

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La pandemia da Covid-19 ha determinato un aumento significativo della spesa sanitaria pubblica e privata in un momento nel quale i Paesi OCSE stavano affrontando sfide rilevanti per garantirne la sostenibilità nel medio-lungo periodo. La spesa era cresciuta in termini reali del 3,2 per cento annuo tra il 2015 e il 2019; è cresciuta del 5 per cento tra il 2019 e il 2020 e addirittura dell’8,5 per cento tra il 2020 e il 2021, per poi contrarsi nell’anno successivo. Con l’endemizzazione del virus e il rallentamento dell’inflazione che ha caratterizzato l’uscita dalla pandemia è tempo però di tornare a ragionare sulla sostenibilità di medio-lungo periodo dei sistemi sanitari pubblici. Due sono le sfide: da un lato, è necessario ridisegnare i sistemi sanitari per renderli più resilienti rispetto a possibili pandemie future; dall’altro, è necessario ripensare alle strategie per la sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari in un mondo che è diventato ancora più complesso rispetto alle sfide pre-Covid, a causa della transizione verde e di quella digitale e del mutato contesto geopolitico. In questo quadro, solo alcune delle strategie identificate dall’OCSE per garantire la sostenibilità sembrano davvero attuabili in Italia data la situazione di bilancio. In particolare, sembrerebbe urgente tornare a processi sistematici di revisione della spesa.

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Negli anni precedenti alla pandemia, l’OCSE ha più volte lanciato l’allarme sugli sprechi e le inefficienze diffusi nel settore sanitario in un momento storico nel quale i bilanci pubblici sono sotto pressione e le proiezioni di spesa suggeriscono la necessità di controllarne la crescita.[1] Una definizione di “spreco” identifica quei trattamenti sanitari che non producono alcun beneficio in termini di salute o sono addirittura dannosi, oppure quei trattamenti costosi che possono essere evitati sostituendoli con altri terapeuticamente equivalenti ma più economici. Gli esempi abbondano: la duplicazione di esami diagnostici, l’erogazione di trattamenti inappropriati dal punto di vista clinico (un parto cesareo in sostituzione di un più appropriato parto naturale) o dal punto di vista del setting assistenziale (il ricovero in ospedale invece di un servizio territoriale), l’uso di farmaci branded invece dei generici, fino ad arrivare alle vere e proprie frodi, agli abusi e alla corruzione. Le stime dell’OCSE suggerivano, per esempio, come fino al 50 per cento delle prescrizioni di antibiotici non fossero necessarie e come tra il 12 e il 56 per cento delle visite al pronto soccorso fossero inappropriate. La soluzione proposta era quella di un processo continuo di revisione della spesa, che partisse dal riconoscimento del problema, dall’identificazione e dalla pubblicizzazione di indicatori di “spreco” e dall’implementazione di sistemi di remunerazione che consentissero di pagare la cura più appropriata nel setting assistenziale più appropriato. È su queste riflessioni che si inserisce la pandemia.

La dinamica della spesa: dagli anni del Covid-19 alle stime di medio-lungo periodo

La pandemia da Covid-19 ha rivelato la scarsa resilienza dei sistemi sanitari dei Paesi OCSE e li ha costretti a destinare notevoli risorse finanziarie al settore sanitario in piena emergenza. Considerando la media dei Paesi OCSE, la spesa sanitaria complessiva era cresciuta in termini reali del 3,2 per cento annuo nel quinquennio precedente l’inizio della pandemia, tra il 2015 e il 2019; è cresciuta del 5 per cento tra il 2019 e il 2020 e addirittura dell’8,5 per cento tra il 2020 e il 2021. Con l’endemizzazione della pandemia, invece, nel 2022 si è verificata una contrazione della spesa dell’1,5 per cento in termini reali, in controtendenza rispetto agli aumenti dei due anni precedenti (Fig. 1). Dinamiche analoghe si osservano per la spesa sanitaria pubblica, che negli anni della pandemia è cresciuta del 7,9 per cento e dell’8,5 per cento, per poi contrarsi dell’1,8 per cento nel 2022; la dinamica del quinquennio pre-pandemia era al 3,5 per cento annuo.

Gli interventi emergenziali per il Covid-19 hanno stimolato, da un lato, una riflessione su come migliorare la resilienza dei sistemi sanitari, dall’altro lato su come affrontare in chiave prospettica la crescita della spesa. Sul primo punto, per rafforzare la resilienza del settore sanitario di fronte a possibili future situazioni emergenziali, l’OCSE ha individuato investimenti chiave classificabili in tre principali pilastri di intervento: (i) proteggere la salute della popolazione; (ii) fortificare la struttura dei sistemi sanitari; (iii) sostenere il personale sanitario.[2] Effettuare questi investimenti significherebbe destinare ulteriori fondi pari all’1,4 per cento del Pil pre-pandemia (2019) al settore sanitario, con una variabilità compresa tra lo 0,6 e il 2,5 per cento a seconda della situazione iniziale dei diversi Paesi OCSE.

Gli investimenti consigliati dall’OCSE per ciascun pilastro comprendono i seguenti.

  1. Investire nella prevenzione contro malattie non trasmissibili (per esempio l’obesità e le malattie causate dal fumo e dall’abuso di sostanze stupefacenti), insieme alla possibilità di prevedere massicce campagne di vaccinazione, andrebbe a migliorare la resilienza del settore sanitario, migliorando lo stato di salute della popolazione.
  2. Potenziare le risorse negli ospedali, tra cui posti letto e attrezzature mediche e soprattutto nelle terapie intensive, o renderli più flessibili e adattabili alle emergenze rafforzerebbe la resilienza dei sistemi sanitari. Ad oggi non esistono benchmark internazionali che fissano livelli ottimali di posti letto e attrezzature e vi è ampia variabilità tra i Paesi. Anche le attrezzature non mediche necessiterebbero di un’implementazione, soprattutto computer e altre attrezzature IT che garantirebbero così un più efficace monitoraggio delle informazioni sui pazienti (anche in termini di protezione della privacy e di trattamento dei dati personali).
  3. Garantire un numero sufficiente di professionisti nel campo sanitario negli ospedali e nelle strutture di assistenza a lungo termine è essenziale. Bisognerebbe anche identificare una “riserva medica”, costituita da personale disponibile a essere facilmente mobilitato, coinvolgendo maggiormente studenti specializzandi, professionisti inattivi e in pensione.

Per quanto riguarda la crescita prospettica della spesa, nel definirne le possibili evoluzioni, l’OCSE prende in considerazione alcune variabili standard utilizzate nei modelli di previsione: l’elasticità della spesa sanitaria rispetto al reddito, la produttività e l’invecchiamento della popolazione.[3] Diverse ipotesi su queste variabili consentono di definire quattro scenari di previsione validi per tutti i Paesi: lo scenario “base”; lo scenario “controllo dei costi”; lo scenario “pressione sui costi”; e lo scenario “invecchiamento in buona salute”. In tutti questi scenari di previsione, la dinamica della spesa sanitaria (i) è più rapida della crescita del Pil pro-capite, stimato in crescita dell’1,2 per cento in termini reali tra il 2019 e il 2040, e (ii) mostra comunque segni di rallentamento rispetto al tasso del 3 per cento registrato nel periodo 2000-2018.[4]

Lo scenario “base” considera politiche sanitarie invariate con un aumento lineare fino al 10 per cento nel 2040 della produttività nel settore sanitario rispetto alla crescita della produttività nell’economia. L’invecchiamento in buona salute contribuirebbe a comprimere la spesa. In questo scenario, le stime prevedono che la spesa sanitaria pubblica cresca del 2,6 per cento all’anno nel periodo 2019-2040 in termini reali (2,3 per cento in termini pro capite).

Lo scenario “controllo dei costi” si basa, per esempio, su una migliore selezione delle tecnologie tramite lo strumento dell’Health Technology Assessment, un miglior utilizzo del personale (task-shifting) e un maggior uso di farmaci generici. Si ipotizza un aumento lineare fino al 20 per cento al 2040 della produttività del settore sanitario (doppio rispetto allo scenario “base”) e una diminuzione lineare fino al 10 per cento al 2040 dell’elasticità della spesa sanitaria rispetto al reddito. La riduzione dell’elasticità rispetto al reddito della spesa suggerisce che quando i Paesi diventano più ricchi, il loro sistema sanitario diventa più efficiente. Anche in questo caso, l’invecchiamento in buona salute contribuisce a contenere la spesa. Secondo questo scenario, l’OCSE stima che la spesa sanitaria pubblica potrebbe mostrare tassi di crescita del 2,5 per cento annuo in termini reali nel periodo 2019-2040 (2,2 per cento in termini pro capite).

Lo scenario “pressione sui costi” è lo scenario opposto al precedente. Pur confermando l’effetto positivo di healthy ageing, si considerano politiche inefficaci nel controllo dei costi, combinate con aspettative crescenti in merito ai servizi sanitari, che spingono per l’introduzione di nuove tecnologie senza un’adeguata considerazione del loro costo-efficacia. Contrariamente allo scenario precedente, si ipotizzano un aumento lineare fino al 10 per cento nel 2040 dell’elasticità del reddito e una produttività costante. L’introduzione di nuove tecnologie costose comporta una pressione sui costi. In questo scenario si prevede una crescita della spesa sanitaria pubblica del 2,7 per cento annuo in termini reali nel periodo 2019-2040 (2,4 per cento in termini pro capite).

Infine, lo scenario “invecchiamento in buona salute” presuppone un effetto ancora più forte in termini di contenimento della crescita della spesa derivante dall’healthy ageing. Non si registrano modifiche dell’elasticità della spesa rispetto al reddito, mentre la produttività migliora come nello scenario “base”. Queste ipotesi sono compatibili con politiche efficaci di prevenzione e di promozione di stili di vita salutari. In questo scenario si prevede che la spesa sanitaria pubblica cresca nel periodo 2019-2040 del 2,3 per cento all’anno in termini reali (2,1 per cento in termini pro capite).

In tutti gli scenari, i driver principali degli incrementi di spesa rimangono il reddito, che spiega circa il 40 per cento dei tassi di crescita, e l’invecchiamento, di poco inferiore. Siccome i tassi di crescita attesi della spesa sanitaria sono maggiori dei tassi di crescita attesi del Pil, la spesa sanitaria pubblica dovrebbe raggiungere l’8,6 per cento del Pil nel 2040 nello scenario “base”, un aumento di 1,8 punti percentuali rispetto al 2018. Il range di variazione delle previsioni tra gli scenari varia tra l’8,5 per cento e l’8,8 per cento. Queste stime sono comparabili con quelle di altre istituzioni. Per esempio, l’Ageing Report della Commissione europea stima un incremento di 1,3 punti percentuali di Pil nella spesa sanitaria dei Paesi UE, dall’8,3 al 9,5 per cento del Pil; selezionando i Paesi UE tra i Paesi OCSE, il dato che emerge dalla stima OCSE è una crescita di 1,2 punti percentuali.

La Fig. 2 mostra l’eterogeneità fra i Paesi nella spesa sanitaria pubblica pro capite, sia in termini di tassi di crescita annui (reali) registrati nel periodo 2000-2018 che in termini di proiezioni. L’Italia si colloca largamente al di sotto della media OCSE in entrambi i periodi: la spesa reale è aumentata dello 0,8 per cento all’anno tra il 2000 e il 2018 (peggio di noi solo la Grecia e il Portogallo), mentre la previsione fino al 2040 si colloca all’1,6 per cento (come per Austria, Germania e Belgio). All’estremo opposto, restando tra i Paesi dell’UE, la Polonia ha fatto registrare tassi annui di crescita del 5 per cento fino al 2018 e la previsione fino al 2040 si colloca poco sopra il dato medio OCSE, al 3,1 per cento. Tassi ancora maggiori si osservano per le tre Repubbliche baltiche.

Quali politiche per la sostenibilità finanziaria

A fronte delle previsioni di aumento della spesa, l’OCSE discute quattro possibili opzioni per garantire la sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari e renderli più resilienti. Sembrano ricette per certi versi scontate. Una prima, ovvia possibilità è quella di aumentare la spesa pubblica e destinare parte di questi fondi aggiuntivi alla sanità. Questa politica richiede o un aumento delle entrate pubbliche (la cui dinamica è fortemente condizionata dalla crescita del prodotto, in rallentamento anche per via dell’invecchiamento della popolazione) o un ulteriore aumento del debito. Il problema è che lo spazio fiscale per entrambe le opzioni sembra essere molto ristretto: le entrate pubbliche rappresentano già il 39 per cento del Pil in media nei Paesi OCSE e un ulteriore aumento della pressione fiscale non sarebbe ben visto dai contribuenti, soprattutto dopo l’alta inflazione che ne ha intaccato i redditi reali. Inoltre, le stime dell’evoluzione delle entrate pubbliche fornite dall’OCSE suggeriscono che la spesa sanitaria cresca più rapidamente delle entrate (Fig. 3). Considerando lo scenario “base” per la spesa sanitaria, la media OCSE del 2,6 per cento annuo si confronta con una crescita delle entrate dell’1,3 per cento annuo. Il problema della crescita delle entrate è particolarmente accentuato nel nostro Paese: lo 0,2 per cento previsto per le entrate si confronta con l’1,5 per cento previsto per la spesa. Allo stesso tempo, un aumento del debito sarebbe difficile da sopportare per Paesi con un livello di debito già elevato.

Una possibile soluzione potrebbe essere l’impiego di una tassazione di scopo per la sanità. Il sondaggio dell’OCSE “Rischi Che Contano[5] fornisce un’idea su quanto le persone siano disposte a sostenere una maggiore spesa pubblica per la sanità e altri programmi sociali nel caso in cui vi sia un aumento del carico fiscale o delle contribuzioni sociali. I risultati più recenti per il 2022 mostrano che la salute continua a essere l’area in cui i partecipanti sono più disposti ad aumentare la spesa pubblica. In media, il 74 per cento dei partecipanti ha dichiarato di sostenere una spesa per i servizi sanitari pubblici. Con un costo specifico aggiuntivo del 2 per cento del reddito tramite tasse e contributi sociali, il sostegno a una maggiore spesa scende al 43 per cento in media, anche se rimane il livello più alto di sostegno tra tutti i programmi sociali. I risultati sono vicini a quelli del 2020 (70 per cento e 45 per cento).

Una seconda opzione è quella di incrementare l’allocazione di risorse alla sanità all’interno dei bilanci pubblici esistenti. Questa opzione richiede di identificare la sanità come una delle priorità di spesa. Tuttavia, negli ultimi anni, le spese destinate all’energia, alla trasformazione verde e digitale e alla difesa sono risultate prioritarie rispetto a quelle per la salute in molti Paesi OCSE. Tra il 2011 e il 2019, il peso della spesa sanitaria nei bilanci pubblici è aumentato di solo un punto percentuale, raggiungendo il 15 per cento della spesa pubblica totale. Difficile pensare che nei prossimi anni vengano meno le necessità di investire nella trasformazione verde e digitale e nella difesa alla luce delle trasformazioni in atto negli assetti produttivi e del mutato contesto geopolitico.

Una terza opzione richiede di rivalutare i confini tra la spesa sanitaria pubblica e quella privata. Negli ultimi due decenni, il rapporto tra spesa sanitaria privata e spesa sanitaria pubblica nei Paesi OCSE si è ridotto passando dal 36 per cento nel 2012 al 30,9 per cento nel 2019, fino al 29 per cento nel 2022. Qualora si attuasse uno spostamento verso il finanziamento privato dei sistemi sanitari, questo potrebbe consentire un maggior spazio fiscale nel pubblico ma comporterebbe una possibile limitazione dell’accesso alle prestazioni sanitarie pubbliche e un possibile aumento delle disuguaglianze nell’erogazione delle cure per i pazienti meno abbienti.

Nel caso dell’Italia, rivalutare i confini tra pubblico e privato vorrebbe dire ragionare sui Livelli Essenziali di Assistenza, che oggi rappresentano la copertura offerta dall’assicurazione pubblica, il nostro Servizio Sanitario Nazionale universale. Non solo: vorrebbe anche dire ragionare sulla parte di spesa privata oggi intermediata dai fondi sanitari “integrativi” e dalle assicurazioni sanitarie, cercando di definirne ruoli davvero integrativi e non sostitutivi (come oggi spesso accade) del pubblico.

Una quarta opzione è quella di incrementare l’efficienza della spesa nel settore sanitario, cioè tornare a parlare di spending review come si faceva prima dell’arrivo della pandemia. Per esempio, la spending review in sanità guidata dall’ultimo commissario straordinario aveva focalizzato i suoi sforzi sulla razionalizzazione del network ospedaliero (con la riconversione dei piccoli ospedali, inefficienti e per certi versi pericolosi per i pazienti), l’introduzione di meccanismi di controllo più stringenti sulla prescrizione e sull’acquisto di farmaci; l’incoraggiamento all’uso di farmaci generici come alternativa a quelli branded e, infine, la promozione di gare d’appalto centralizzate per l’acquisto di beni e servizi sanitari.

Il ruolo dei processi di bilancio nella gestione della spesa

Un’ultima opzione per garantire la sostenibilità della spesa si trova per l’OCSE nella gestione dei processi di bilancio. In questo caso, l’efficientamento della spesa passa dal coordinamento tra le politiche di bilancio e le politiche sanitarie lungo l’intero processo che va dal finanziamento all’erogazione della spesa nel settore sanitario. Per quanto riguarda il finanziamento, le questioni sono almeno due: l’orizzonte di programmazione e la definizione dell’ammontare di risorse da destinare alla sanità. Considerare, per esempio, un orizzonte temporale da tre a cinque anni piuttosto che un anno consentirebbe una migliore programmazione degli obiettivi sanitari che si intendono perseguire e delle politiche per raggiungerli, con effetti positivi sulle possibilità di programmazione della spesa. Non sono molti i Paesi a adottare questa strategia.[6] Nel caso dell’Italia, i Patti per la Salute e i documenti di bilancio prevedono programmi almeno di medio periodo, che poi però vengono largamente disattesi sulla base delle esigenze di bilancio di brevissimo periodo negli anni successivi.

Un secondo problema è la definizione dell’ammontare di risorse da destinare alla sanità, che richiederebbe una stima delle necessità finanziarie da parte del Ministero della Salute e una ricerca delle disponibilità da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze. In alcuni Paesi – come il Belgio, la Francia e Israele[7] – ci si affida a formule predefinite per definire i fondi da destinare alla sanità; in altri ci si basa su un accordo politico. Nel nostro Paese, almeno formalmente, il Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard è l’ammontare di risorse necessario per garantire l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza in tutto il Paese. Nei fatti è determinato sulla base di un approccio top-down, in base alle disponibilità del bilancio pubblico: rappresenta, di fatto, i soldi che ci possiamo permettere in un determinato anno per erogare i servizi sanitari.

Per quanto riguarda invece la spesa, potrebbe aiutare l’impiego di budget di performance che spostano l’attenzione dagli input (salari, medicinali ecc.) ai risultati (la promozione della salute, la prevenzione delle malattie, la salute digitale, l’istruzione e la formazione medica). Un esempio in questo senso è offerto dall’Australia, dove il bilancio pubblico è strutturato sulla base dei risultati attesi.[8] In generale, si può dire che i Paesi OCSE organizzano i bilanci sulla base dei servizi erogati (assistenza primaria, ospedaliera o domiciliare); classificarli per malattia o per categoria di popolazione è invece meno frequente. Questi bilanci sono affiancati dal monitoraggio tramite indicatori di performance che possano misurare le prestazioni e quindi la responsabilità della governance sui risultati, oltre ad aumentare la trasparenza sull’utilizzo dei fondi pubblici. Nella fase di “esecuzione e monitoraggio” è infatti necessario garantire verifiche e controlli tempestivi dell’utilizzo delle risorse al fine di provvedere a eventuali misure correttive. Il controllo viene generalmente attuato tramite la richiesta di una rendicontazione annuale della spesa sanitaria (alcuni dei Paesi producono dei rapporti mensili o a scadenze comunque inferiori all’anno), sottoposta poi al controllo di enti governativi indipendenti o supervisori all’interno dei Ministeri. Proprio in riferimento a questi ultimi, l’OCSE suggerisce la necessità di avere una maggiore comunicazione soprattutto con il Ministero delle Finanze di ogni Paese già in sede di formulazione dei bilanci sanitari, in modo da identificare un’allocazione più efficiente delle risorse per il settore, garantendo anche la coerenza degli stanziamenti con i vincoli fiscali imposti dai governi.

Nel caso italiano, la definizione del Fabbisogno Nazionale Standard è già oggi basata su macroaree di intervento (Prevenzione, Distretto e Ospedale), che tuttavia vengono scarsamente monitorate in fase di spesa. C’è anche uno stretto monitoraggio da parte del MEF, che ogni anno produce un rapporto di monitoraggio della spesa sanitaria. Infine, i risultati in termini di obiettivi sanitari vengono mappati attraverso la griglia degli indicatori LEA, senza tuttavia che questo meccanismo sia stato in grado finora di eliminare le inefficienze e uniformare le performance regionali.[9]


[1] In questo senso si veda, per esempio, Tackling Wasteful Spending on Health, OECD Publishing, Paris, 2017.

[2] Per un ulteriore approfondimento, si veda “Ready for the Next Crisis? Investing in Health System Resilience“, OECD Publishing, Paris, 2023.

[3] L’elasticità misura la variazione percentuale della spesa sanitaria rispetto alla variazione percentuale del reddito. La misura stimata dell’elasticità sulla base dei dati storici è inferiore a 0,8: un aumento del Pil del 10% si traduce in un aumento della spesa sanitaria inferiore all’8%. La produttività (o “effetto Baumol”) è stimata considerando la differenza tra i salari medi nell’intera economia in eccesso rispetto alla produttività per addetto del settore. Il parametro di riferimento, considerato sempre come elasticità, è inferiore a 0,5.

[5] Per un ulteriore approfondimento si veda “The OECD Risks That Matter Survey“, OECD.

[6] Almeno dal punto di vista formale, gli esempi includono l’Islanda (che fissa tetti di spesa sanitaria massima per 5 anni), la Finlandia (che fissa limiti vincolanti di spesa in termini reali per 4 anni) e la Lettonia (che fissa gli stanziamenti per 3 anni). Tetti massimi di spesa vincolanti per la sanità oltre l’anno fiscale in corso si registrano in Grecia (che fissa i massimali per quattro anni, vincolanti per i primi due anni) e nei Paesi Bassi (che fissano massimali di spesa per quattro anni in termini reali e aggiornati ogni anno in base all’inflazione); livelli minimi di spesa oltre l’anno fiscale in corso si registrano per esempio nel Regno Unito, dove dal 2018 vi è un piano di finanziamento quinquennale per l’arco temporale 2019-2024).

[7] Israele include nel calcolo un indice dei prezzi, la crescita della popolazione e un indice che spiega l’adozione di nuove tecnologie nel paniere sanitario. Il Belgio incorpora l’inflazione sulla base di un tasso di crescita in termini reali che non dipende però da fattori fissi (come per Israele) ma è definito da accordi governativi. La Francia inserisce un tasso di crescita della spesa per l’assicurazione sanitaria sociale, applicato alla spesa sanitaria dell’anno precedente per fissare l’obiettivo dell’anno corrente.

[8] Alcuni esempi di risultati australiani riportano “salute della popolazione: riduzione dell’incidenza della mortalità e della morbilità prevenibili in Australia, anche attraverso la regolamentazione e le iniziative nazionali che supportano stili di vita sani e la prevenzione delle malattie”; “accesso ai servizi farmaceutici: accesso a farmaci economicamente vantaggiosi, anche attraverso il Pharmaceutical Benefits Scheme e i relativi sussidi, e assistenza per la gestione dei farmaci attraverso partenariati industriali”; “accesso ai servizi medici: accesso a servizi medici, infermieristici e sanitari affini economicamente vantaggiosi, anche attraverso i sussidi Medicare per servizi clinicamente rilevanti”; “assistenza primaria: accesso a un’assistenza sanitaria completa e basata sulla comunità, anche attraverso servizi di primo punto di chiamata per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle malattie e per la gestione continua delle malattie croniche”; “salute rurale: accesso ai servizi sanitari per le persone che vivono nelle zone rurali, regionali e remote dell’Australia, anche attraverso infrastrutture sanitarie e servizi di sensibilizzazione”; “servizi per l’udito: riduzione dell’incidenza e delle conseguenze della perdita dell’udito, anche attraverso attività di ricerca e prevenzione e accesso a servizi e dispositivi per l’udito per le persone aventi diritto”.

[9] Per un ulteriore approfondimento, si veda la nostra precedente nota “Cosa insegna l’esperienza dei LEA per l’autonomia differenziata”, 31 marzo 2023. Le riflessioni sui problemi della convergenza fra regioni si trovano invece in G. Turati, “Si fa presto a dire Lea”, Lavoce.info, 26 febbraio 2024.

Un articolo di

Rossana Arcano, Gilberto Turati

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