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I pagamenti della PA: miglioramenti notevoli, ma ancora forti ritardi in alcune amministrazioni
Per analizzare i dati italiani, in particolare le variazioni nel tempo, vi sono tre fonti: I dati MEF che fanno riferimento alle sole fatture correnti, ossia emesse nel trimestre o anno a cui si riferisce l’analisi. L’indice di tempestività dei pagamenti (ITP), previsto dal D. lgs.vo n. 33 del 2013, pubblicato sul sito di ogni singola PA che misura il ritardo di tutti i pagamenti dell’amministrazione in un determinato anno o trimestre, indipendente dalla data di ricezione della fattura. In ogni caso, i dati MEF sono utili per vedere come si sono ridotti negli ultimi anni i tempi medi di pagamento (dalla data di emissione della fattura al pagamento) e i ritardi medi (dalla data di scadenza indicata in fattura al pagamento). Come si è detto, per vedere i tempi effettivi di pagamento inclusivi dei pagamenti delle fatture emesse negli anni precedenti, si deve ricorrere all’ indice di tempestività dei pagamenti, che è rintracciabile sul sito di ogni amministrazione alla voce “amministrazione trasparente”. Oltre ai Ministeri, particolarmente grave è la situazione del Comune di Napoli, che ha un tempo medio di ritardo secondo il MEF di 92 giorni e secondo l’ITP di ben 228 giorni: si tratta di una eccezione negativa sia sui dati MEF che su quelli dell’ITP. Tuttavia, i risultati di CDM mostrano che l’obiettivo dei 60 giorni è ancora ben lontano: infatti, questo limite è stato nel 2021 rispettato solo dalle regioni Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Veneto e Lombardia, mentre tutte le altre regioni presentano ritardi nei pagamenti delle fatture alle imprese venditrici di dispositivi medici. Ad esempio, i tempi di ritardo del 2021 presenti nel sito del MEF sono calcolati per le fatture ricevute e pagate nel solo anno 2021, mentre l’indicatore di tempestività dei pagamenti si riferisce a pagamenti di fatture ricevute sia nel 2021 sia in anni precedenti.
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Come affrontare il problema del mismatch?
Infatti, il tasso di qualification mismatch complessivo per il mercato italiano è del 38,5 per cento contro il 39,9 per cento in Germania, il 41 per cento in Spagna e il 34,4 per cento della media OCSE. Questa over-qualification si registra nonostante il numero di individui che entrano nel mercato del lavoro con un titolo di studio terziario sia tra i più bassi nell’UE e tra i Paesi OCSE. Nel 2022, il numero di professionisti specializzati nel loro settore è molto più alto nei Paesi Bassi (36,7 per cento) che non in Italia, che registra un dato inferiore anche alla media dell’Eurozona (26,6 per cento). Si tratta dunque di un problema strutturale che ha radici molto profonde: i settori più rilevanti per l’economia nazionale non richiedono figure altamente specializzate né un maggior livello di investimenti in R&;S. Ciò comporta una bassa domanda di laureati e anche un’allocazione inefficiente di questo capitale umano. Fra i pochi che si iscrivono all’università, la percentuale di studenti che concludono il percorso di studi entro il termine teoricamente previsto del programma è solo il 21 per cento: il 19 per cento per gli uomini e il 22 per cento per le donne. In questo contesto, un’altra opzione – che punta a dare risposta alla richiesta di figure tecnico-professionali con competenze intermedie da parte delle imprese – è quella di riformare il sistema di istruzione del Paese. Nel sistema tedesco, infatti, questi istituti sono di livello paragonabile alle università o ai politecnici, ma permettono di formare individui con capacità specifiche che rispondono alle esigenze delle imprese compensando almeno in parte i problemi di over-qualification o under-qualification di cui si è detto.
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I costi e le misure del Decreto Aiuti ter
Le risorse stanziate dal decreto Il 16 settembre il governo ha approvato il nuovo Decreto Aiuti ter al fine di aiutare famiglie e imprese ad affrontare i problemi generati dalla crisi energetica e dall’inflazione. Seguono una serie di interventi quali: l’inasprimento delle sanzioni per le imprese che delocalizzano e le modalità attraverso le quali gli extra profitti, ottenuti dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, vengono destinati a famiglie e imprese più colpite dal rincaro energetico. Misure per il contenimento della spesa per energia elettrica Per le imprese energivore (ossia quelle con un forte consumo di energia elettrica) viene innalzato a 2,4 miliardi il fondo per coprire l’aumento del credito d’imposta dal 25 al 40 per cento sui maggiori oneri sostenuti nei mesi di ottobre e novembre 2022. La distribuzione delle risorse Gli interventi del Decreto Aiuti ter possono essere suddivisi in quattro categorie: a) misure destinate agli individui legate al reddito (20 per cento); b) interventi a sostegno delle imprese e del terzo settore (67 per cento); c) aiuti universali (3 per cento); d) altri aiuti (10 per cento) (Fig.1). a) Misure destinate agli individui legate al reddito Gli interventi del Decreto Aiuti ter che richiedono, per poter essere fruiti, un reddito inferiore ad una certa soglia sono il bonus per l’acquisto di abbonamenti per i trasporti pubblici e l’indennità anti-inflazione. Il Ministero dei trasporti ha stanziato 240 milioni per il bonus trasporti, garantendo una copertura massima di 4 milioni di beneficiari (nel caso in cui ogni potenziale beneficiario fruisca di un importo pari al massimo previsto dal decreto, 60 euro). Di questi beneficiari, 8,1 milioni sono pensionati, 2,9 milioni lavoratori autonomi e i restanti 11,5 milioni ricadono tra i lavoratori dipendenti e le altre categorie previste dal Decreto (es. lavoratori domestici, percettori del Reddito di Cittadinanza e lavoratori stagionali).
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Quali fattori incidono sulla scelta di avere figli?
Partiamo dal reddito Tra i molti fattori che influiscono sulla scelta di avere figli o meno, il reddito è quello più intuitivo. I dati Istat consentono di raccogliere alcune prime evidenze su questa relazione e mostrano come le famiglie con figli dispongano di un reddito medio più elevato rispetto alle famiglie senza. A partire dal 2016, le famiglie con figli hanno un reddito medio tra i 28 e i 34 mila euro, mentre, nello stesso periodo, il reddito medio non è mai superiore ai 27 mila euro per quelle senza figli. Prima di procedere oltre, sempre con i dati Istat, possiamo esplorare la relazione tra il reddito familiare e la decisione di avere un figlio nelle regioni italiane. Ma oltre al reddito vi sono altri fattori Come già osservato, i dati Istat possono potenzialmente includere famiglie composte da soli pensionati o da giovani single che hanno ormai raggiunto l’indipendenza economica, il che distorce la relazione tra reddito familiare e presenza di figli nel nucleo. Questa interpretazione sembra essere confermata dai risultati sul sotto-campione di famiglie con donne sopra i 40 anni, per le quali si osserva invece una relazione positiva e statisticamente significativa tra la proprietà di una abitazione e la probabilità di avere un figlio (modello 5). Le 1.308 famiglie rimaste sono famiglie con o senza figli con una donna moglie/convivente di età inferiore a 50 anni e famiglie con una donna madre (senza coniuge) di età inferiore a 50 anni.
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Gli effetti del Covid-19 su NEET e ELET
La possibilità di ricadere tra i NEET è maggiore per coloro in possesso di un titolo di studio inferiore (Fig. 2), un risultato atteso visto che all’aumentare del livello di istruzione, aumenta la probabilità di trovare un lavoro e di ricevere uno stipendio dignitoso. L’impatto del Covid-19 sul tasso di abbandono scolastico Il mancato conseguimento di un diploma di scuola superiore segnala spesso una carenza di competenze per i giovani ELET e, di conseguenza, aumenta il rischio di disoccupazione, esclusione sociale e povertà. Durante la pandemia, la quota di ELET è aumentata sensibilmente in Germania, raggiungendo una percentuale dell'11,8 per cento nel 2021 (era invece rimasta costante al 10 per cento negli anni precedenti); viceversa, non vi sono stati effetti negativi significativi in Paesi come Italia, Spagna e Francia o nell’intera Unione Europea. Questo può essere dovuto ai nuovi target del Consiglio Europeo che, proprio per evitare una possibile inversione di tendenza a causa dell’impatto negativo della pandemia, ha sottolineato la necessità di proseguire gli sforzi per abbassare ulteriormente il tasso di abbandono scolastico al 9 per cento entro il 2030. Infatti, l’abbandono precoce dell’istruzione riguarda il 22,7 per cento dei giovani i cui genitori hanno conseguito al massimo la licenza media, il 5,9 per cento di quelli i cui genitori hanno un titolo secondario superiore e il 2,3 per cento dei giovani con genitori in possesso di laurea. (Fig. 4) Per quanto riguarda il tasso di occupazione degli ELET, esso è particolarmente basso ed è stato segnato negativamente dalla pandemia: a livello europeo, infatti è diminuito dal 45,1 per cento nel 2019 al 42,3 per cento nel 2021. La probabilità di ingresso nel mondo del lavoro per i giovani ELET del Mezzogiorno (27,3 per cento) è molto inferiore rispetto al Nord (40 per cento) e al Centro (37,4 per cento), seppur tale divario territoriale si sia ridotto nel corso del tempo.
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Il Patto di Stabilità e Crescita tra ieri e oggi
TFEU) che vieta all’Unione Europea o agli Stati membri di farsi carico degli impegni assunti (cioè del debito) dalle amministrazioni statali di un altro Stato membro; l’obiettivo di medio termine delle finanze pubbliche dei paesi che deve essere il pareggio o l’avanzo di bilancio. Al fine di rendere operativo il PSC e facilitare la sorveglianza fiscale da parte della Commissione sono stati anche introdotti: il braccio preventivo , secondo cui gli Stati membri devono presentare programmi annuali di stabilità per garantire la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche. L’evoluzione del PSC I primi segnali di debolezza del PSC risalgono agli inizi degli anni 2000, con il rallentamento della crescita, il deterioramento dei bilanci pubblici e l’avvio delle procedure sanzionatorie nei confronti di alcuni paesi che conducono ad un conflitto tra Commissione e Consiglio. In linea con tale proposta, nel 2005 il PSC viene rivisto introducendo gli obiettivi di medio termine (OMT) per paese, cioè il livello di bilancio strutturale desiderato in funzione di crescita potenziale e debito. La revisione del PSC viene completata con il Two-Pack che introduce un calendario di bilancio comune per i paesi euro (il “semestre europeo”) e che prevede la presentazione, in autunno, da parte di ogni paese alla Commissione del piano di bilancio ( draft budgetary plan ) per l’anno successivo. Per la regola del debito, invece, la proposta prevede che i paesi con debito superiore al 60 per cento propongano un proprio piano multi-annuale di riduzione del debito su Pil, la cui credibilità viene valutata dai fiscal council nazionali e dalla Commissione. La “general escape clause”, introdotta con la riforma del Six Pack (analizzata in seguito), è una clausola che consente agli Stati membri di deviare temporaneamente dal percorso di aggiustamento verso gli obiettivi di medio termine nel caso di recessione economica dell’area euro o dell’UE.
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Quali paesi hanno la Flat Tax? Quanti l’hanno abbandonata?
In alcuni paesi la flat tax è stata adottata con aliquote marginale uguali alle aliquote massime del previgente sistema progressivo e dunque con l’esplicito obiettivo di aumentare il gettito. Tuttavia diversi studi suggeriscono che l’aumento di gettito che si verificò in seguito all’adozione della flat tax sia stato in realtà dovuto a profonde riforme nell’amministrazione fiscale e nella riscossione. Inoltre in tutti questi paesi l’economia sommersa era attorno al 30-40 per cento sia in termini di occupati che di Pil. Era dunque molto forte l’esigenza di creare sistemi fiscali compatibili con un’economia di mercato e di farlo molto rapidamente. Successivamente, con l’accelerazione della transizione verso un'economia di mercato, questi paesi hanno introdotto varie forme di imposte sul reddito personale caratterizzate sempre da una forte semplicità: fatta eccezione per la Federazione Russa, tutti i nuovi paesi indipendenti adottarono la flat tax o un sistema a due scaglioni. La Lettonia è passata da un sistema fiscale regressivo a due scaglioni (25 per cento per i redditi più bassi e 10 per cento per i redditi più alti) ad una flat tax pari al 25 per cento [2] . Questo lo si può dedurre dal fatto che l’aliquota della flat tax è diventata per questi paesi, eccetto l’Albania, l’aliquota del primo scaglione, mentre per gli scaglioni successivi l’aliquota è stata aumentata. La conclusione che ne trae un fondamentale lavoro del Fondo Monetario è che l’introduzione di una flat tax non ha effetti significativi sull’offerta di lavoro e in generale sulla crescita aggregata e dunque non ci si può attendere che la riforma si autofinanzi [8] .
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I tassi d’interesse della BCE, confronti internazionali e con gli anni ’70
Quasi tutti i paesi avanzati (Norvegia, Australia, Corea del Sud, Regno Unito, Israele, Canada e Stati Uniti) hanno un’inflazione simile o più bassa di quella dell’Eurozona e tassi di policy più alti. Ciò testimonia la prudenza con cui fino ad ora si è mossa la BCE. Tuttavia, la lezione degli anni ’70 ci dice in modo inequivoco che le banche centrali non possono rimanere inerti di fronte ad un aumento dell’inflazione come quello che si sta registrando negli ultimi mesi. Il rischio dell’inerzia è che le aspettative inflazionistiche si radichino nei comportamenti degli operatori economici e che alla fine siano necessarie azioni antinflazionistiche più drastiche che causerebbero una recessione più profonda di quella che si sarebbe avuta con politiche più tempestive. Gli attuali tassi d’interesse nominali e reali nel mondo Malgrado gli aumenti degli ultimi mesi (più 2,5 per cento da luglio 2022) la BCE rimane una delle banche centrali con i tassi di interesse nominali più bassi al mondo. Il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali è salito da 0 a 2,5 per cento, mentre il tasso di policy più importante, quello sui depositi delle banche presso la BCE, è aumentato nello stesso periodo da un valore negativo di -0,5 per cento al 2 per cento. Diverso è il caso di paesi come Polonia e Ungheria che hanno tassi nominali molto più alti (rispettivamente del 6,75 e 13 per cento) a fronte, però, di un tasso di inflazione notevolmente più elevato (rispettivamente del 16,6 e 24,5 per cento). Da questo emerge che i tassi della BCE sono piuttosto bassi e inferiori di 200 punti base rispetto a quelli della FED, malgrado l'inflazione registrata a dicembre 2022 sia più bassa negli Stati Uniti rispetto all'Eurozona di quasi 3 punti percentuali (6,5 per cento negli Stati Uniti e 9,2 nell’Eurozona).
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Le sfide per i Comuni italiani: la spesa
È il caso dei Comuni, al momento oggetto di critiche nella stampa perché in ritardo nella realizzazione dei bandi e dei progetti relativi ai fondi del PNRR. Trattandosi dell’istituzione più prossima ai cittadini, quindi più idonea a soddisfarne le esigenze, i Comuni sono i principali titolari di funzioni amministrative che coprono una quota rilevante della loro spesa (pari al 70 per cento). In più, nel periodo di forte consolidamento delle finanze pubbliche, a partire dalla crisi finanziaria del 2008-2009, i Comuni sono stati assoggettati a vincoli di bilancio (il cd. Patto di Stabilità Interno, PSI) sempre più stringenti allo scopo di ridurne la capacità di spesa. Dal 2005 si osserva invece un’inversione di tendenza, che ha gradualmente riportato la spesa comunale (tralasciando l’anno della pandemia, dove il rapporto è falsato dalla caduta del Pil) sotto il 4 per cento del Pil. In modo preoccupante, però, questa riduzione ha interessato soprattutto la spesa in conto capitale. Così, i vincoli sui bilanci comunali sono stati estesi sia alla cassa che alla competenza, con la conseguenza di bloccare la spesa, in particolare quella in conto capitale anche nei Comuni che avevano ingenti risorse da impiegare. I dipendenti pubblici nei Comuni italiani Tra i fattori che hanno contribuito alla riduzione della capacità di spesa degli enti locali vi sono le politiche per il personale, introdotte dal governo centrale durante il periodo di consolidamento delle finanze pubbliche. Per essere più precisi: nel 2008, la legge di bilancio imponeva che le assunzioni di personale a tempo indeterminato dovessero rientrare nei limiti di una spesa complessiva pari al 60 per cento di quella relativa alle cessazioni avvenute nell’anno precedente.
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La geoeconomia del G20: com’è cambiata negli ultimi trent’anni
Peraltro, Paesi come la Cina e, da qualche anno, l’India, l’Indonesia e numerosi Paesi africani, sanno bene che il loro sviluppo è in gran parte dovuto alla liberalizzazione degli scambi che ha avuto luogo negli ultimi trent’anni. Questo accresciuto peso della Cina dipende esclusivamente dalla crescita del Pil pro capite, che in termini di parità di potere d’acquisto in rapporto agli Stati Uniti è passata dal 3,5 al 28 per cento. Il secondo dato che colpisce è la resilienza dell’economia americana, il cui peso sul Pil mondiale si è ridotto di poco, dal 26,4 per cento del 1990 al 25,4 per cento oggi. La crescita del peso della Cina sul Pil mondiale è avvenuta a danno di quasi tutti gli altri Paesi, ma soprattutto della UE a 28 [3] (che ha perso quasi 11 punti percentuali di Pil, dal 27,4 per cento al 16,6 per cento) e del Giappone (che ha perso quasi 10 punti). Il rapporto investimenti/Pil della Cina è al 43,9 per cento, il doppio che negli Stati Uniti e nella generalità degli altri Paesi avanzati, tra cui l’Italia che si colloca al 21,8 per cento, e di molti Paesi emergenti. Molti dei grandi Paesi emergenti (tra cui Sudafrica, Argentina e Messico) hanno tassi di investimento bassissimi e comunque inferiori a quelli dei Paesi avanzati; ciò è in parte dovuto alla componente pubblica che è stata fortemente compressa in risposta al rischio di crisi debitorie. I grandi aumenti del debito hanno avuto luogo in Giappone (che è arrivato al 261,3 per cento del Pil, al lordo degli avanzi previdenziali), negli Stati Uniti (che sono al 121,7 per cento), in Argentina (al 84,5), Cina (al 77,1) e Italia (al 144,7).
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Def: apprezzabile la prudenza, debole la revisione della spesa
Per gli anni successivi, la crescita programmatica del Pil dovrebbe attestarsi all’1,5 per cento nel 2024, all’1,3 per cento nel 2025 e all’1,1 per cento nel 2026. Il bilancio primario, ossia al netto degli interessi, passa da un deficit del 3,6 per cento del Pil nel 2022 (1 per cento al netto dei bonus edilizi riclassificati) a un avanzo dello 0,3 per cento già nel 2024 e al 2 per cento nel 2026. In particolare, la Legge di bilancio 2023 prevede una revisione del meccanismo di indicizzazione delle pensioni all’inflazione che comporterà nel triennio 2023-2025 un risparmio di poco più di 10 miliardi di euro, ripartiti come segue: 2,1 miliardi nel 2023, 4,1 miliardi nel 2024 e 4 miliardi nel 2025. La crescita del Pil nel 2023 Come già accennato, nel 2023 la crescita del Pil è stimata allo 0,9 per cento nel quadro tendenziale e all’1 per cento nel programmatico; il contributo maggiore alla crescita proviene dalla domanda interna. Il che vuol dire che le previsioni di questo Def scontano una diminuzione della spesa sanitaria in percentuale al Pil per l’orizzonte di programmazione economica del governo; per tornare sopra il 7 per cento (valore di riferimento per la media europea) ci vorrebbero quasi 20 anni (7,1 per cento nel 2045). Nel caso in cui le risorse del Piano vengano effettivamente utilizzate nella loro interezza, questo porterebbe dunque a una maggior crescita del Pil, pari al 2,3 per cento nel 2024, al 2,2 per cento nel 2025 e all’1,8 per cento nel 2026. In aggiunta, il PNRR porterebbe a un incremento rilevante degli investimenti totali dell’8 per cento nel 2023, dell’11 per cento nel 2024, del 13 per cento nel 2025 e del 12,4 per cento nel 2026, rispetto a uno scenario macroeconomico senza PNRR.
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Il Consiglio Europeo sull’energia: qualche passo avanti, ma tante questioni ancora aperte
Più che di un accordo sugli interventi, si può parlare della volontà comune da parte degli stati membri di impegnarsi a discuterne ancora. Quelle del Consiglio Europeo sono infatti indicazioni che rimandano il problema ai ministri dell’energia che dovranno intavolare un difficile negoziato tecnico per poi adottare le nuove proposte. In particolare, tra i risultati più rilevanti della riunione: Viene confermata la volontà di costruire una piattaforma comune per negoziare gli acquisti di gas a livello UE (invece che da parte dei singoli stati membri) tramite il conferimento di un mandato ad un fornitore di servizi scelto dalla Commissione. Nel frattempo, vi sarebbe l’intenzione di introdurre un meccanismo temporaneo di correzione nel mercato del gas nella forma di un corridoio dinamico del TTF per limitare episodi di prezzi eccessivi. Tra le questioni sollevate dalla riunione del Consiglio europeo, la più complessa e interessante per lo sviluppo futuro della crisi energetica a livello comunitario è sicuramente la volontà di “mobilitazione di strumenti rilevanti a livello europeo e nazionale”. Sviluppi importanti potrebbe avere anche la proposta di calmierare i prezzi del TTF. Dato che molti contratti, anche con Gazprom, sono indicizzati al TTF, questo sarebbe un modo per contenere il prezzo pagato alla Russia, senza con questo venir meno, almeno formalmente, al rispetto dei contratti in vigore. In particolare, mentre il corridoio dinamico del TTF è già oggetto di una prima proposta di regolamento del Consiglio, sul price cap iberico ci sono ancora tantissime incertezze.
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I programmi dei principali partiti sull’energia
Sulle altre questioni ci sono forti divergenze: a) la creazione di nuovi rigassificatori; b) nuove trivellazioni; c) l’opportunità di trovare fornitori di gas per la completa sostituzione del gas russo; d) l’utilizzo dell’energia nucleare; e) la creazione di nuovi termovalorizzatori; g) gli incentivi edilizi per l’efficientamento energetico. I programmi elettorali dei principali partiti politici italiani in materia di energia sono generalmente piuttosto vaghi, e solo in rari casi sono corredati da stime di costi degli interventi e di compatibilità con il bilancio pubblico. Spesso non è chiaro quali interventi siano considerati necessari nell’immediato per affrontare l’emergenza e quali abbiano un orizzonte di più lungo periodo, per garantire la transizione energetica e il rispetto degli obiettivi europei sulla riduzione dell’emissione di gas tossici. Va anche detto che lo spazio dedicato al tema nei programmi dei diversi partiti è anche molto diverso, il che a sua volta si riflette sul grado di elaborazione delle proposte. Nel breve tutti i partiti sono d’accordo nell’introdurre aiuti economici alle famiglie e imprese più colpite dall’aumento del prezzo dell’energia, anche se tipicamente mancano stime che consentano di capire fino a che punto i diversi partiti vogliono ancora spingere in questa direzione. In una posizione intermedia, si pongono altri partiti compresi Fratelli d’Italia e Più Europa: no ad una preclusione a priori all’uso del nucleare e sì a investimenti sulla ricerca sul nucleare di nuova generazione, ma senza vincolarsi ad una scelta precisa a favore di questa fonte energetica. L’unico partito che cita la quesitone è Fratelli d’Italia che afferma esplicitamente che uno degli obiettivi principali è “ liberare l’Italia e l’Europa dalla dipendenza dal gas russo, e mettere al riparo la popolazione e il tessuto produttivo da razionamenti e aumenti dei prezzi ”.
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Il Documento Programmatico di Bilancio 2023
I rischi rispetto a questo scenario sono tutti al ribasso e starà al nuovo governo definire obiettivi programmatici coerenti con la duplice esigenza di sostenere l’economia e, al tempo stesso, realizzare una graduale riduzione del rapporto debito/Pil nei prossimi anni. Le previsioni del DPB sono infatti di tipo tendenziale, cioè stimate a legislazione vigente, e sono identiche a quelle presentate nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF), che viene citata direttamente come fonte. Previsioni tendenziali macro e di finanza pubblica Si conferma la positiva dinamica del Pil per il 2022, che in termini reali cresce del 3,3 per cento invece del 3,1 previsto nell’aprile scorso dal DEF. La crescita peggiora nel 2023 e rimane inalterata per il 2024 e 2025. A legislazione vigente, l’anno prossimo la crescita reale sarà solo dello 0,6 per cento, con la crescita del Pil nominale quasi esclusivamente trainata dall’inflazione (il deflatore del Pil tendenziale è di 1,5 punti percentuali sopra il programmatico del DEF 2022). Il nuovo aumento dei prezzi farebbe diminuire il Pil reale rispetto allo scenario di base dello 0,2 per cento nel 2022 e dello 0,5 nel 2023: quindi la crescita annuale si fermerebbe al 3,1 per cento nel 2022 e allo 0,1 per cento nel 2023, ovvero crescita zero. Ciò ridurrebbe i costi delle importazioni e l’inflazione, ma causerebbe, via minori esportazioni, una riduzione del Pil rispetto allo scenario base di 0,3 punti percentuali nel 2023, di 0,7 punti percentuali nel 2024 e dello 0,8 per cento nel 2025. La questione cruciale sarà la credibilità di un piano di rientro del debito pubblico: nel DEF si prevedeva un sentiero molto graduale, con un ritorno ai livelli pre-pandemia (circa 135 per cento del Pil) nell’arco di un decennio.
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Il costo del programma del Movimento 5 Stelle
Il costo annuo da noi stimato delle principali misure è di circa 65 miliardi di euro. Il costo previsto di tale manovra dovrebbe essere di circa 8 miliardi. Il costo stimato è poco più di 12 miliardi di euro annui. Perché la misura abbia effetti di rilievo sia sui lavoratori che sulle imprese è difficile che costi meno di 20 miliardi. Il costo stimato di questa misura è di 630 milioni all’anno, ipotizzando 30 giorni di congedo paterno. Il costo per colmare il gap con il resto d’Europa nel settore idrico sarebbe di 8 miliardi di euro al netto dei fondi stanziati dal PNRR (4,3 miliardi). Per maggiori dettagli sul calcolo, si veda la nostra nota della scorsa settimana: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-la-lista-della-spesa-del-pd [4] Il risultato è ottenuto da uno studio Enea : al 31 agosto 2022 vi erano 47 miliardi di detrazioni previste a fine lavori e 33 miliardi di detrazioni maturate per lavori conclusi.
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Materie prime critiche in UE: a che punto siamo?
Le materie prime critiche (MPC) sono materiali impiegati per la realizzazione di prodotti tecnologicamente avanzati, fondamentali per la transizione ecologica e l’indipendenza energetica in un’economia decarbonizzata, forniti per lo più da Paesi potenzialmente forieri di instabilità per motivi di carattere geopolitico. A partire dal 2020, l’Unione europea ha lanciato una serie di iniziative che si pongono l’obiettivo di garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche (MPC) in tempi relativamente stretti. Nel gergo comunitario, le MPC sono quelle commodities – non alimentari e non energetiche – con due caratteristiche fondamentali: sono di importanza strategica per lo sviluppo di numerose attività industriali, ma soprattutto per la produzione di beni tecnologicamente sofisticati e per la gestione della transizione ecologica. L’ultimo aggiornamento (il quinto) risale a pochi mesi fa e comprende ben 34 elementi, a dimostrazione del fatto che la valutazione del grado di criticità risente di un quadro in continua evoluzione per via dell’andamento registrato sia dalla domanda che dall’offerta di tali materiali. Il maggior utilizzo di tecnologie ad alta intensità di MPC unito a una scala produttiva sempre maggiore spingerà verso una crescita sostanziale della domanda di MPC, la cui precisa quantificazione è però tuttora oggetto di molte controversie. Per il resto la quasi totalità dei Paesi membri dell’Unione non è in grado di produrre volumi considerevoli di MPC. Per questo motivo sono state individuate tre possibili linee di intervento al fine di accrescere la disponibilità di MPC all’interno dell’UE. Come uscire da questa sorta di impasse? Una prima possibilità è rappresentata dalla costituzione di una centrale d’acquisto delle MPC a livello UE (sulla falsariga di quanto già sperimentato nel caso dei vaccini e del GNL).
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Tassa minima globale: come sta procedendo?
Il nuovo rapporto è focalizzato solo sugli sviluppi relativi al primo pilastro che prevede che le multinazionali con ricavi superiori ai 20 miliardi di euro possano essere tassate anche nei paesi in cui avvengono effettivamente i consumi dei loro prodotti, anche in assenza di una sede legale. La relazione concernente l’attuazione del secondo pilastro che introduce un’aliquota minima globale effettiva del 15 per cento sui profitti delle multinazionali con ricavi superiori ai 750 milioni di euro sarà, invece, pubblicata entro fine 2022. Si prevede, inoltre, che il completamento dei lavori avvenga entro la prima metà del 2023 con l’obiettivo di consentire l’entrata in vigore della nuova tassa globale entro il 2024 (e quindi non più entro il 2023 come annunciato in precedenza) tramite la ratifica dei paesi firmatari. Tuttavia, ci sono ancora molti ostacoli politici che impediscono la ratifica: All’interno dell’Unione Europa l’adozione di norme fiscali necessitano il voto all’unanimità dei paesi membri. Ad aprile, la Polonia aveva annunciato la volontà di porre il veto alla direttiva riguardante la tassa minima a livello europeo, come reazione al blocco dei fondi del PNRR verso Varsavia dovuto alle violazioni dello stato di diritto. Il calcolo dei ricavi ottenuti dal gruppo nel paese estero varierà a seconda che si tratti di beni fisici, servizi offerti all’interno dei confini nazionali, contenuti digitali, beni intermedi, servizi pubblicitari, servizi di transporto e prodotti/servizi sovvenzionati dalla giurisdizione in questione. Se i ricavi superano i 20 miliardi di euro per un periodo di tempo inferiore/superiore ad un anno, l’ammontare dei ricavi si adegua proporzionalmente alla durata del periodo.
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L’espansione del forfettario e i regimi fiscali di autonomi e dipendenti
La proposta del governo Meloni di innalzare, per le partite Iva, la soglia massima di fatturato per accedere al regime forfettario da 65 mila a 85 mila euro, si inserisce in questa tendenza, in quanto sottrae una gran parte dei redditi dei lavoratori autonomi dalla progressività del tributo. Questo pone sia problemi di equità che di efficienza e comporta conseguenze sia sull’Irpef che sull’Iva, dato che i forfettari sono anche esclusi dal pagamento di questo tributo. Un elettricista forfettario risparmierebbe più di 8.000 euro l’anno di imposte rispetto al regime ordinario; un operatore informatico, che ha costi più alti secondo il Ministero, più di 5.000 euro. Si osserva che la convenienza ad accedere al regime forfettario è crescente nel fatturato, un risultato non sorprendente visto che l’aliquota media del forfettario rimane piatta al 15 per cento per tutti i livelli di reddito, mentre è crescente per il lavoratore autonomo in regime ordinario. Irpef: le distorsioni del sistema forfettario Al di là degli aspetti di equità, l’introduzione di un sistema forfettario che copre una fascia potenzialmente molto ampia di lavoratori autonomi e professionisti comporta altri potenziali effetti distorsivi. Questo nuoce al funzionamento del mercato in quanto la forma organizzativa dell’impresa è tipicamente più efficiente di quella di tanti piccoli produttori indipendenti, potendo sfruttare economie di scala e di scopo (sinergie) che sono precluse ai lavoratori che agiscono singolarmente. Con il mantenimento di un rapporto di collaborazione invece che di dipendenza, si potrebbe perdere la possibilità di sfruttare le economie di scala e scopo che sono alla base del vantaggio competitivo della forma societaria di organizzazione della produzione.
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L’Unione europea di fronte all’Inflation Reduction Act americano
La reazione della Commissione europea non si è fatta attendere, ma non è facile trovare un accordo su come reagire fra paesi i cui interessi divergono sia per la diversa esposizione agli scambi con gli Stati Uniti sia per il diverso spazio fiscale di cui dispongono. Molto forte è la tentazione, specie in Germania e Francia, di allentare le regole sugli aiuti di Stato, consentendo ai paesi membri di rispondere agli aiuti di paesi terzi con aiuti di analoghe dimensioni, un’ipotesi che però metterebbe in crisi il mercato unico europeo. La recente visita a Washington della Presidente della Commissione europea ha aperto uno spiraglio negoziale in quanto è stato espresso l’intento di coordinare i rispettivi programmi di incentivi mentre gli Stati Uniti si sono detti disponibili a utilizzare materie prime critiche estratte o processate in Europa. Lo scopo principale è di accelerare il processo e le capacità della produzione di una serie di prodotti net-zero, come le batterie, rendendo le procedure di autorizzazione e di finanziamento per i progetti strategici europei più rapide. A tal fine, la Commissione consulterà gli stati membri su una modifica del quadro temporaneo di crisi e transizione per gli aiuti di Stato e rivedrà il regolamento generale di esenzione per categoria alla luce del Green Deal , aumentando le soglie di notifica per il sostegno agli investimenti green. La richiesta, avanzata dalla Commissione europea finora con scarso successo, è che gli Stati Uniti estendano il principio del Buy American verso una prospettiva di più ampio respiro che lasci la possibilità ai prodotti europei di competere alla pari con quelli americani. In questa direzione, gli Stati Uniti e la Commissione europea hanno annunciato l’avvio del “Dialogo sugli incentivi sull’energia pulita” con l’obiettivo di coordinare i rispettivi programmi di incentivi e fare in modo che essi si rafforzino a vicenda.
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La macroeconomia dell’Ucraina
Il crollo del Pil si è accompagnato ad un aumento del disavanzo e del debito pubblico, a forti turbolenze sul mercato dei cambi e ad una inflazione che ha superato il 25%. (Fig. 1) La distruzione dei raccolti agricoli, delle infrastrutture e degli impianti di produzione ha comportato anche una riduzione della produzione di beni e servizi e un conseguente aumento dei costi sostenuti dalle imprese. Nel tentativo di calmare i mercati, il 23 febbraio, alla vigilia del conflitto, la Banca Nazionale Ucraina ha dichiarato di avere “una quantità sufficiente di riserve internazionali” e che “non c’è carenza di contanti nel sistema bancario”. Nel luglio 2022 la Banca Nazionale Ucraina è stata costretta a svalutare il tasso di cambio ufficiale della grivna rispetto al dollaro del 25 per cento nella speranza di sostenere l’economia e tentare di recuperare competitività. (Fig. 7) Sempre sul fronte della ristrutturazione dei debiti in essere, anche il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto l’Accordo di Stand-By con il paese, preesistente rispetto alla guerra e legato alla necessità per l’Ucraina di superare i problemi della bilancia dei pagamenti. Il FMI ha approvato 1,4 miliardi di dollari di prestiti nell’ambito del Rapid Financing Instrument al fine di aiutare a soddisfare le imminenti necessità di finanziamento del paese. (Fig. 8) Secondo le stime di ottobre della Banca Mondiale, la ricostruzione dell’Ucraina costerà almeno 350 miliardi di dollari, una cifra cospicua per la quale l’Ucraina avrà bisogno di finanziamenti continui e duraturi da parte degli alleati, in particolare dall’UE.
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L’edilizia scolastica in Italia: un confronto regionale
Le scuole del Mezzogiorno (Sud e Isole) hanno una minore dotazione di mense e palestre rispetto a quelle del Centro e del Nord (mense: 19 per cento contro 38 per cento; palestre: 29 per cento contro 39 per cento). Un grande problema rimane l’età delle scuole, soprattutto al Nord dove poco più del 60 per cento è stato costruito prima del 1975; tuttavia, è nel Mezzogiorno dove solo circa il 30 per cento delle scuole possiede un certificato di agibilità. Il PNRR stanzia per l’edilizia scolastica circa 6,5 miliardi di cui 3,9 miliardi sono relativi a progetti di riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole esistenti mentre 2,6 miliardi sono per nuove scuole, palestre, mense e scuole dell’infanzia. Dotazione di infrastrutture scolastiche I dati sulle infrastrutture scolastiche ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco confortante visto che nell’anno scolastico 2020-2021 circa un edificio su tre disponeva di una mensa (31 per cento) e di una palestra (35 per cento, Fig. 1). La regione del Nord con scuole più difficilmente raggiungibili per trasporto pubblico urbano e inter-urbano è l’Emilia Romagna (rispettivamente 78 per cento e 51 per cento), seguita dalla Lombardia (rispettivamente 85 per cento e 54 per cento). Lombardia (45 per cento) e Veneto (30 per cento) solo le regioni con le scuole peggiori nell’area del Nord per questo servizio; sul versante opposto, le scuole della Liguria (66 per cento) e della Val d’Aosta (quasi l’80 per cento). La porzione maggiore di edifici costruiti prima del 1975 è nel Nord (Liguria: 74 per cento, Valle d’Aosta: 69 per cento e Piemonte: 65 per cento e Lombardia: 60 per cento, Fig. 5).
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Le spese fiscali in ambito Irpef: si possono modificare?
Cosa sono le spese fiscali La delega fiscale, approvata dal governo Meloni nel Consiglio dei Ministri del 16 marzo 2023, prevede una riforma graduale del sistema tributario tramite l’emanazione di decreti attuativi entro i prossimi 18 mesi. Il governo ha più volte fatto riferimento alle spese fiscali come a una possibile fonte di finanziamento della riduzione del carico fiscale da realizzarsi con la flat tax , in quanto una razionalizzazione delle agevolazioni consentirebbe un sostanzioso recupero di gettito. Le spese fiscali sono definite nella relazione della Commissione per la redazione del rapporto annuale sulle spese fiscali come tutte “le misure che riducono o pospongono il gettito per uno specifico gruppo di contribuenti o un’attività economica rispetto a una regola di riferimento che rappresenta il benchmark”. La rilevanza delle spese fiscali nel sistema tributario italiano risulta evidente dai dati riportati nel Rapporto programmatico sulle spese fiscali, allegato alla Nadef 2022, dove viene rappresentata una fotografia della situazione attuale nel campo delle spese fiscali e le previsioni relative al 2023. Le spese fiscali nell’ambito dell’Irpef Come già ricordato, nell’ambito del dibattito sulla delega fiscale, il governo ha rispolverato l’idea di finanziare parte della riforma del sistema tributario tramite la revisione delle spese fiscali. Ad esempio, il totale degli oneri detraibili al 19 per cento (comprendente mutui sulla prima casa, istruzione, spese sanitarie, spese funebri, spese per assistenza personale ecc.) cresce molto più rapidamente al crescere del reddito, trainato principalmente dalle spese in istruzione, rappresentate dalla curva più a destra nel grafico. In Fig. 2 si nota come le detrazioni per spese di ristrutturazione e per il risparmio energetico crescano più rapidamente rispetto al reddito delle detrazioni legate agli oneri detraibili al 19 per cento (il 64 per cento dei quali è rappresentato dalle spese sanitarie).
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Le scelte in vista della legge di bilancio
La nostra opinione è che la scelta giusta sia quella di confermare, a grandi linee, gli obiettivi di fondo del Def, se mai con una maggior prudenza giustificata dall’incertezza del quadro macroeconomico e dell’evoluzione in corso d’anno del fabbisogno del settore pubblico. Con la riclassificazione, infatti, sono stati tolti lo 0,2 per cento del Pil (circa 4 miliardi) dal deficit del 2023 e ben lo 0,8 per cento del Pil (circa 16 miliardi) dal deficit del 2024; questi crediti sono stati classificati nei deficit degli anni precedenti dal 2020 al 2022. Ciò significa che al netto della riclassificazione, l’obiettivo per il 2023 non è del 4,5 per cento, ma del 4,7 (a fronte di un 5,4 per cento del 2022, sempre al netto della riclassificazione). A riguardo si può notare che già nel 2022 il Pil reale dell’Italia è risultato più alto – di circa un punto percentuale – che nel 2019, ma il deficit è stato e rimane anche nel 2023 molto più alto. In particolare, il bilancio primario era in attivo (+1,8 per cento del Pil) nel 2019, è risultato in deficit (-3,6 per cento) nel 2022, ed è previsto nel Def ancora in deficit (-0,8 per cento) nel 2023. Sappiamo anche che la Commissione, pur tenendo conto del processo di rientro di molti Paesi verso questo obiettivo, ha detto che nel 2024 potrebbe aprire una procedura di infrazione (EDP) nei confronti dei Paesi che non soddisfano il vincolo. Alla luce di questi dati, l’UPB prevede una crescita del Pil nominale al 6,5 per cento nel 2023 (dunque più alta di quella del governo dello 0,7 per cento) e al 3,6 per cento nel 2024 (dunque più bassa di quella del governo dello 0,7 per cento).
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Spread, il sorpasso della Grecia
Dietro questi dati vi è una performance economica che da qualche anno è migliore di quella dell’Italia in termini di crescita del Pil, di velocità nella riduzione degli squilibri di finanza pubblica, di capacità di attrarre investimenti esteri e di credibilità dell’azione di governo. Il notevole miglioramento greco ha fatto sì che, da circa metà maggio, lo spread greco scendesse notevolmente al di sotto di quello italiano, con una differenza di circa 40-50 punti base che si è mantenuta complessivamente per circa tre mesi (Fig. 1b). Le possibili spiegazioni Leggendo i rapporti delle istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale, OCSE, Commissione europea [3] ) nonché quelli delle agenzie di rating [4] appare evidente che la Grecia sta attraversando un periodo molto positivo in termini di crescita economica, di riduzione del debito pubblico e di capacità di attrarre capitali internazionali. Per quante critiche si possano muovere alla gestione delle crisi greca da parte delle istituzioni europee e del Fondo Monetario, il fatto che gran parte del debito non stia sul mercato è il risultato di un programma di salvataggio di dimensioni assolutamente straordinarie. È comunque un fatto che il rimbalzo post-Covid è stato più forte in Grecia che in Italia: dopo una caduta del 9 per cento in entrambi in Paesi nel 2020, la crescita cumulata del triennio 2021-2023 è stimata al 17 per cento in Grecia e al 12 per cento in Italia. È possibile che questi deficit esterni siano la controparte e la conseguenza fisiologica della capacità della Grecia di attrarre capitali dall’estero, ma è difficile non vedere in questo un punto di vulnerabilità della Grecia di oggi, e tale è considerato nei rapporti delle organizzazioni internazionali. Questo è un fattore che rafforza la credibilità del progetto di governo di cui è portatore e che, in sostanza, si identifica con quanto è contenuto nel PNRR greco.
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Quali famiglie hanno beneficiato maggiormente dei sussidi contro i rincari?
I sussidi ricevuti dalle famiglie in rapporto alla spesa totale per consumi decrescono mano a mano che cresce la classe di spesa (e presumibilmente di reddito) in cui si trovano. In termini di stanziamento complessivo, la misura più consistente è l’abolizione degli oneri di sistema per l’elettricità da ottobre 2021 per un valore di 7,25 miliardi di euro (Fig. 1). Le cose cambiano, almeno in parte, se guardiamo alla distribuzione di sussidi in termini assoluti, cioè di euro per famiglia (Fig. 3): la cifra ricevuta diminuisce passando dal primo al terzo quinto di spesa, ma torna a risalire per i quinti di spesa più alti. Le famiglie nel primo quinto (con consumi minori e presumibilmente redditi minori) ricevono comunque il valore maggiore di sussidi (860 euro in media), ma anche la famiglia nel quintile che consuma di più (e che probabilmente ha un reddito più elevato) riceve una cifra non molto distante (772 euro in media). La cifra per quinto di spesa è determinata moltiplicando il valore massimo per la probabilità (per quinto di spesa) che entrambi i componenti della famiglia percepiscano il bonus. Si assume che questa cifra cresca del 10 per cento in seguito all’estensione del bonus e che il 70 per cento delle famiglie che accedono al bonus di collochi nel primo quinto e la restante parte nel secondo quinto. Eliminazione oneri di sistema su gas e elettricità, riduzione dell’IVA sul gas e riduzione delle accise sui carburanti : per i sussidi che crescono con il consumo, si determina quante unità di bene siano consumate per quinto di spesa e successivamente si calcola il sussidio per livello di consumo.