Nonostante i 3,3 miliardi di euro di incremento del finanziamento (gran parte dei quali è destinata ai rinnovi contrattuali) definito dal disegno di legge di bilancio per il 2024, il personale del Servizio Sanitario Nazionale è sul piede di guerra. Si lamenta che il personale è poco, malpagato e maltrattato. Cosa ci dicono i dati? Gli ultimi dati OCSE, riferiti al 2021 e comprendenti il settore pubblico e privato, evidenziano come il numero dei medici sia in linea con il dato medio UE, mentre quello relativo agli infermieri si colloca abbondantemente sotto: contro una media UE di 9,1 infermieri per 1.000 abitanti, l’Italia conta infatti 6,2 infermieri per 1.000 abitanti; allo stesso modo, se in Europa vi sono 2,3 infermieri per medico, in Italia il rapporto scende a 1,5, con profonde disparità interne tra Nord e Sud. I dati riferiti al SSN mostrano una riduzione delle unità di personale (per il tetto alle spese del personale fissato da precedenti leggi di bilancio, oggi in parte rimodulato) fino al 2019, con un incremento del personale a seguito della pandemia di circa 13 mila unità. Per il futuro, il governo ha incrementato i posti disponibili per le facoltà di Medicina, sia per la laurea, sia per le successive specializzazioni, ma i dati sulle iscrizioni suggeriscono che quelle specializzazioni per le quali si osserva una carenza di personale già oggi vengono poco apprezzate dai nuovi laureati. Analogo problema di osserva per i corsi di Scienze Infermieristiche, per formare i nuovi infermieri che già oggi sono carenti.
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Il recente ddl Bilancio per il 2024 ha definito diverse misure relative al personale della sanità. Da un lato, dei 3 miliardi aggiuntivi di finanziamento al Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard per il 2024, ne ha stanziati 2,4 per i rinnovi contrattuali del comparto, 250 milioni dal 2025 e 350 dal 2026 per le nuove assunzioni relative alla sanità territoriale e 280 milioni all’anno fino al 2026 ancora per l’incremento delle tariffe orarie per gli straordinari di medici e infermieri già operanti nel SSN.[1] Dall’altro, ha però previsto una revisione dei meccanismi di calcolo delle pensioni dei dipendenti della PA (fra i quali i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale) in senso penalizzante per questi ultimi, prevedendo risparmi per il bilancio pubblico – secondo le stime della Relazione tecnica al ddl Bilancio – pari a 17,7 milioni già nel 2024 e complessivamente 3,5 miliardi entro il 2043.
Anche se il governo ha promesso di risolvere la questione del ricalcolo delle pensioni, la reazione delle principali organizzazioni di rappresentanza del personale sanitario al ddl Bilancio è stata negativa: sono già stati fissati scioperi per diverse categorie[2] e sono stati rilanciati nel dibattito pubblico alcuni messaggi chiave che hanno caratterizzato gli ultimi anni prima e dopo la parentesi della pandemia: sussistono importanti carenze di personale;[3] il personale è stressato, malpagato e opera in condizioni difficili dal punto di vista organizzativo.
Questa nota aggiorna e approfondisce un nostro precedente lavoro[4] sul personale sociosanitario offrendo evidenze descrittive su tre questioni: i) come si colloca l’Italia nel contesto internazionale, in particolare europeo, alla luce dei dati OCSE; ii) cosa sappiamo delle unità di personale attive nel Servizio Sanitario Nazionale, di gran lunga il principale datore di lavoro nell’ambito del comparto sociosanitario; iii) cosa sappiamo sulle prospettive del comparto, in base all’andamento delle iscrizioni alle principali lauree che consentono l’accesso al mondo del lavoro nel comparto sociosanitario.
L’occupazione nel settore sociosanitario: un confronto internazionale
In base ai dati internazionali più aggiornati, l’occupazione nel settore sociosanitario (includendo quindi tutti i lavoratori del pubblico e del privato) ha interessato in media un lavoratore su 11 nei Paesi UE nel 2021 (Fig. 1). Il dato segnala l’importanza crescente del comparto in Paesi che invecchiano anche in termini di occupazione, soprattutto se si considera che la quota di occupati europei nel settore è aumentata dell’8 per cento dal 2011 al 2021.
Nel 2021, l’Italia rimane sotto la media UE, con l’8 per cento di occupati nel settore sociosanitario sul totale degli occupati. Dal confronto dei diversi Paesi emerge la netta differenza tra i Paesi scandinavi e dell’Europa continentale e i Paesi dell’area mediterranea: mentre per i primi l’occupazione raggiunge il 21,4 per cento in Norvegia e si attesta al 13,9 per cento in Germania e Francia, per i secondi il dato più elevato è quello del Portogallo (8,7 per cento), simile a quello di Spagna e Italia, certamente più elevato del dato della Grecia (5,9 per cento).
I dati internazionali OCSE consentono di distinguere anche diverse figure professionali all’interno del comparto sociosanitario. Le due figure principali sono quelle dei medici e degli infermieri. Analizzando il numero di medici in rapporto alla popolazione (Fig. 2), la posizione dell’Italia cambia rispetto al dato aggregato: il nostro Paese vanta nel 2021 un rapporto di 4,1 medici ogni 1.000 abitanti, in linea con la media UE e in crescita del 3 per cento rispetto al 2018.[5]
La stessa cosa non si può dire per gli infermieri, dato che al 2021 l’Italia conta solo 6,2 infermieri ogni 1.000 abitanti di fronte alla media UE di 9,1 infermieri per 1.000 abitanti (Fig. 3).[6] Per arrivare alla media UE mancherebbero dunque 2,9 infermieri ogni 1.000 abitanti (quasi 200.000 unità di personale infermieristico in più).
Per quanto riguarda il rapporto infermieri/medici calcolato a partire da questi dati OCSE (Fig. 4), l’Italia conta 1,5 infermieri per medico e ovviamente si colloca al di sotto della media UE pari a 2,3. Il dato è fra i più bassi a livello continentale, comune ai Paesi dell’area mediterranea, addirittura inferiore al dato della Grecia (1,6) e costituisce un primo segnale di un diverso skill-mix nel comparto sociosanitario italiano rispetto a quanto osservato nei Paesi nordici (in Finlandia, 5,2 infermieri per ogni medico).
Una possibile spiegazione di queste differenze è rappresentata dal grafico nella Fig. 5, dove si mette in relazione la percentuale degli occupati nel settore sociosanitario (rispetto al totale dell’occupazione) e il rapporto infermieri/medici. L’aumento della dimensione economica del comparto, misurato dalla quota dell’occupazione, si associa a un diverso skill-mix: se aumentano i servizi territoriali e i servizi di Long Term Care, le figure professionali più adeguate diventano gli infermieri e non i medici.
In assenza di modifiche sostanziali alle politiche di reclutamento del personale, a modificare il rapporto tra medici e infermieri potrebbero contribuire le regole pensionistiche e l’invecchiamento del personale. A Paesi con un’alta quota di medici con età superiore ai 55 anni (Italia 55 per cento; Lettonia 48 per cento; Estonia 46 per cento) si contrappongono Paesi con medici prevalentemente giovani – con meno di 55 anni (Norvegia 76 per cento; Svezia 73 per cento; Danimarca 71 per cento). Purtroppo, non ci sono dati a livello OCSE sull’età degli infermieri, ma per il nostro Paese l’età media è cresciuta sensibilmente tra il 2018 e il 2022, da 45 a 48,7 anni.[7]
L’occupazione nell’ambito del SSN in Italia
Nel nostro Paese, il principale datore di lavoro nell’ambito del comparto sociosanitario è il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). I dati sulle unità di personale impiegate nell’ambito del Sss sono pubblicati annualmente dal Ministero della Salute. In base agli ultimi dati disponibili, riferiti al 2021, il personale sanitario occupato dal SSN è pari a 617.293 dipendenti.[8] I dipendenti del SSN rappresentano il 30,6 per cento dell’occupazione complessiva del settore sociosanitario nel 2021 in base ai dati OCSE.
Negli ultimi vent’anni, dal 2000 al 2021 il personale del SSN è diminuito del 3,3 per cento, con una riduzione di 21 mila unità (Fig. 6).[9] La variazione sull’intero periodo nasconde però due dinamiche differenti: dai primi anni 2000 al 2019 si osserva una riduzione (soprattutto a partire dal 2004) frutto del blocco delle assunzioni imposto dalle leggi finanziarie e in particolare dalla legge n. 311/2004, tramite l’utilizzo di un tetto alla spesa per il personale. Invece, l’aumento che si verifica nel periodo 2019-2021 (dal 2018 al 2021 +13.075 occupati) è riconducibile sia all’introduzione della nuova normativa per le assunzioni che sospende il blocco del turn-over[10] sia alle misure straordinarie di assunzione di personale a causa dell’epidemia da Covid-19.
I 617.293 dipendenti per il 2021 sono per il 72,5 per cento personale sanitario (447.359, +2,9 per cento rispetto al 2018), 0,2 per cento professionale (1.379, +8,3 per cento dal 2018), 17,7 per cento tecnico (108.989, +3,7 per cento), 9,6 per cento amministrativo (59.342, -5,2 per cento), 0,03 per cento personale con qualifiche atipiche (177, -60,8 per cento) e 0,01 per cento con altre mansioni (47, -58,8 per cento).[11] All’interno dell’organico del SSN nel 2021 le donne sono in maggioranza (69,1 per cento) rispetto agli uomini (30,9 per cento).
Se si considerano i medici e gli infermieri (che sono la componente maggiore del personale sanitario del SSN), nel 2021 si contano 102.491 medici e odontoiatri e 264.768 infermieri. Dei primi, le donne sono il 51,2 per cento, contro il 48,8 per cento di uomini; gli infermieri, invece, sono per il 77,8 per cento donne, contro il 22,2 per cento di uomini.[12] È interessante notare la crescita nel tempo della percentuale di donne che ricoprono il ruolo di medico e/o odontoiatra, passata dal 28 per cento nel 2000 al 51,2 per cento nel 2021 (Fig. 7A). Per quanto riguarda gli infermieri, invece, è costante nel tempo la prevalenza femminile: nel 2000 il 74 per cento degli infermieri in Italia era donna, e nel 2021 la percentuale è cresciuta seppur di poco, arrivando al 77,8 per cento (Fig. 7B).
A livello territoriale, nel 2021, analizzando il rapporto tra medici e odontoiatri per 1.000 abitanti (Fig. 8) questo appare superiore in Valle d’Aosta e Sardegna con 2,4 medici per 1.000 abitanti, seguite da Toscana (2,37), Umbria (2,3), Abruzzo (2,1), Friuli e Trentino (2,1). Al sud la densità si abbassa, con 1,9 medici in Campania per 1.000 abitanti, 1,8 in Basilicata e Sicilia, 1,6 in Puglia e Campania. Il dato più basso è però in Lombardia, con 1,4 medici per 1.000 abitanti.
Sul fronte degli infermieri, sempre considerandone la densità per 1.000 abitanti (Fig. 9), il primato è in Friuli con 6,3 infermieri ogni 1.000 abitanti, seguito da Umbria, Trentino e Toscana (6 infermieri per 1.000 abitanti). Dati più bassi si registrano sempre al Sud: Puglia (3,9), Calabria (3,8), Sicilia (3,5) e, in fondo alla classifica, la Campania con 3,3 infermieri per 1.000 abitanti.
Del rapporto tra infermieri e medici nell’ambito del SSN, il 2021 segnala differenze marcate fra macroaree: a fronte di una media nazionale pari a 2,6 (secondo il Ministero), si registra la presenza di 3,5 infermieri per medico in Veneto contro un rapporto di 1,9 infermieri per medico in Sicilia e 2 in Sardegna e Calabria (Fig. 10).[13] In un Paese dove l’attività dei sistemi sanitari è guidata dalla necessità di garantire Livelli Essenziali di Assistenza uniformi tra regioni, quindi dove tutti dovrebbero produrre gli stessi servizi, queste differenze impattano sia sulla capacità dei diversi sistemi di produrre effettivamente i servizi, sia sul costo di produzione dei servizi (visto che un medico è remunerato di più di un infermiere).
Nelle strutture di ricovero pubbliche o equiparate[14] erano impiegate nel 2021 altre 88.755 unità di personale: il 71 per cento opera nel profilo sanitario (di questo, la metà è composto da personale infermieristico e il 28 per cento da medici e odontoiatri), lo 0,3 per cento nel profilo professionale, il 15,7 per cento in quello tecnico, l’11,4 per cento ha qualifiche atipiche e il residuale 1,8 per cento ha altre mansioni.
Le prospettive e i problemi
Le necessità di medici e infermieri andrebbero tarate sulla struttura organizzativa e sul sistema sanitario che si vuole costruire; questo, a sua volta, dovrebbe tener conto dei bisogni della popolazione. Da questo punto di vista, le direttrici di riforma alle quali sembra ispirarsi anche questo governo sono, da un lato la definizione di ospedali sempre più specializzati dove curare le acuzie, dall’altro la definizione di un insieme di servizi territoriali (centrati su Ospedali e Case della Comunità) dove prendere in carico le cronicità. Se questo è il modello, anche alla luce dell’esperienza di altri Paesi, abbiamo una forte necessità di infermieri e di medici specializzati nella medicina territoriale (quelli che sono oggi i medici di medicina generale).[15]
Per capire cosa succederà in futuro è necessario guardare oggi alle iscrizioni alle Facoltà di Medicina, sia ai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia (e alle successive specializzazioni), sia ai corsi di laurea in Professioni sanitarie e, in particolare, a Scienze infermieristiche. Come è noto, l’accesso alla laurea in Medicina è regolato da un numero limitato di posti a partire dal 1999; soggetto a limiti di posti è anche l’accesso alle specializzazioni successive alla laurea.[16] Negli scorsi anni, per rispondere alle richieste provenienti dal mondo della sanità, che identificava un “imbuto formativo” nella mancanza di posti nelle scuole di specializzazione, i governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno sia aumentato i posti disponibili alle Facoltà di Medicina, sia le borse di specializzazione.[17] Se guardiamo all’andamento delle iscrizioni alle scuole di specializzazione degli ultimi anni, queste scelte sembrano aver prodotto un fenomeno paradossale, con più borse che candidati che si sono sottoposti al test di ammissione alla specializzazione. Infatti, se per l’anno accademico 2018-2019 il Ministero aveva stanziato 8.935 borse di specializzazione a fronte di 18.733 studenti per sostenere il test, per l’anno accademico 2021-2022 15.873 candidati hanno affrontato la prova su 14.378 borse (Fig. 11).
Per affrontare questo problema, l’attuale Ministra dell’Università ha istituito una commissione di esperti appartenenti al mondo sanitario e universitario, il cui operato è volto a potenziare l’accesso alla facoltà di medicina e alle scuole di specializzazione, “organizzato sul fabbisogno del Paese”.[18] Concretizzando questo lavoro bisogna però prestare attenzione a non ripetere ciò che succedeva negli anni Settanta, quando non c’era il “numero chiuso” a Medicina e si era creata una “pletora medica” che non trovava poi accesso al mondo del lavoro per l’eccesso di laureati rispetto ai fabbisogni di personale.[19]
Il mismatch tra candidati e borse si realizza non solo in aggregato, ma anche e soprattutto tra le diverse specializzazioni. Tralasciando la medicina territoriale e concentrandosi sulle 51 scuole di specializzazione di Medicina (divise in tre macroaree, medica, chirurgica e servizi clinici), è facile notare come l’attrattività non sia omogenea. Le specializzazioni più richieste dai candidati sembrano essere nel 2022 dermatologia (con il 98 per cento dei posti coperti), neurologia (97 per cento), pediatria (97 per cento), chirurgia plastica (96 per cento), psichiatria (94 per cento), al contrario di specializzazioni quali malattie infettive che contano il 61 per cento di posti coperti, medicina d’urgenza (35 per cento), farmacologia (28 per cento), radioterapia (20 per cento) e, per ultima, microbiologia e virologia (solo il 9 per cento dei posti coperti) (Fig. 12). Tra le specializzazioni meno attrattive per i candidati se ne trovano alcune per le quali è più evidente la mancanza di professionisti (per esempio, la medicina d’urgenza che forma specialisti per i Dipartimento di Emergenza e Urgenza, i Pronto Soccorso degli ospedali).
Osservazioni simili valgono per gli infermieri, per i quali abbiamo notato una carenza rilevante per il nostro Paese in base ai dati OCSE. A fronte di un aumento dei posti disponibili (passando da 14.758 nell’a.a. 2018-2019 a 19.860 nell’a.a. 2023-2024, +35 per cento), le iscrizioni hanno mostrato un netto calo degli aspiranti infermieri iscritti alla facoltà: per l’a.a. 2023-2024 si è registrato il 10,5 per cento in meno di iscrizioni alla facoltà rispetto all’a.a. 2022-2023, la maggior parte al centro (-14,4 per cento) e al nord (-14 per cento), contro un calo più attenuato al sud (-5,4 per cento). Capire le ragioni sottostanti al mismatch è cruciale per disegnare risposte mirate alle necessità dei sistemi sanitari e costituirà il tema che affronteremo in una prossima nota.
[1] Per un ulteriore approfondimento si veda la nostra precedente nota: “Le proposte del ddl Bilancio in materia di sanità”, 3 novembre 2023.
[2] Il 5 dicembre 2023 sono stati proclamati due scioperi in merito: il primo promosso da ANAAO Assomed e CIMO Fesmed ha coinvolto il personale della dirigenza medica, veterinaria, sanitaria, professionale, tecnica e amministrativa del SSN, inclusi i dipendenti degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), dell’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) e degli enti del SSN, con motivazioni legate all’esiguità dei finanziamenti per i contratti di lavoro e l’assenza di risorse per il rinnovo della dirigenza e per le pensioni destinate a questa; il secondo promosso da Nursing Up ha coinvolto gli infermieri e il personale sanitario non medico che opera nelle ASL, nelle aziende ospedaliere e negli enti della sanità pubblica, per Regioni e Province Autonome, anche questo orientato alla protesta contro i tagli alle risorse per i contratti alla sanità e per le pensioni.
[3] Per esempio, secondo la Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso), la sanità pubblica italiana richiede ancora altri 30 mila medici e infermieri per evitare il crollo del SSN. Per un ulteriore approfondimento si veda il Comunicato Stampa Fiaso dell’8 novembre 2023.
[4] Si veda la nostra precedente nota: “Il personale socio-sanitario: un confronto europeo”, 25 novembre 2022. La media UE utilizzata nell’analisi è calcolata sulla base dei dati disponibili per i Paesi membri. Non sono considerati nel calcolo Bulgaria, Cipro, Croazia, Lituania, Lussemburgo, Malta.
[5] La categoria di medici considerata nei dati statistici è “medici praticanti” (cioè che hanno conseguito la laurea in medicina e sono abilitati a esercitare la professione; tirocinanti; medici dipendenti e autonomi che forniscono servizi indipendentemente dal luogo di servizio; medici esteri abilitati all’esercizio della professione nel Paese di riferimento; in generale, tutti i medici che forniscono cure mediche di vario genere ai pazienti. Sono esclusi dentisti, stomatologi, chirurghi dentali e maxillo-facciali; medici che lavorano in amministrazione, ricerca o altre attività che escludono il contatto diretto con i pazienti; medici disoccupati e pensionati; medici che lavorano all’estero rispetto al Paese di riferimento) e, ove non disponibile, “medici professionalmente attivi” (cioè medici praticanti o altri medici per i quali la formazione medica è un prerequisito per l’esercizio della professione. Include medici che lavorano in amministrazione o in posizioni direttive per le quali è richiesta una formazione medica; medici ricercatori su patologie dell’uomo e metodi preventivi e curativi; medici che partecipano nella formulazione di leggi e regolamenti sulla sanità pubblica; medici che redigono paper scientifici e report. Sono esclusi dentisti, stomatologi, chirurghi dentali e maxillo-facciali; medici che ricoprono posizioni per le quali non è richiesta una formazione medica; medici disoccupati e pensionati; medici che lavorano all’estero rispetto al Paese di riferimento). Per un ulteriore approfondimento su dati italiani si veda: Istat, “Rilevazione sulle forze di lavoro”, 6 giugno 2023; Ministero della Salute, Annuario statistico del SSN.
[6] La categoria di infermieri considerata nei dati statistici è “infermieri praticanti” (cioè infermieri che forniscono cure dirette ai pazienti, inclusi gli infermieri professionisti nazionali e stranieri con licenza a praticare nel Paese di riferimento. Sono esclusi studenti non ancora laureati; OSS senza qualifiche in infermieristica; ostetrici (a meno che non lavorino prevalentemente come infermieri); infermieri che lavorano in amministrazione, management, ricerca e altre posizioni che escludono il contatto diretto con i pazienti; infermieri disoccupati e pensionati non praticanti; infermieri che lavorano all’estero) e, ove non disponibile, “infermieri professionalmente attivi” (cioè infermieri praticanti e altri infermieri per i quali la formazione infermieristica è un prerequisito per l’esercizio della professione. Sono inclusi infermieri professionisti; infermieri che forniscono cure dirette ai pazienti; infermieri che lavorano in amministrazione, management, ricerca e altre posizioni che escludono il contatto diretto con i pazienti. Sono esclusi gli infermieri per i quali la formazione in infermieristica non è richiesta; infermieri disoccupati e pensionati; infermieri che lavorano all’estero rispetto al Paese di riferimento). Per un ulteriore approfondimento su dati italiani si veda: COGEAPS, “Practising professional nurses”; Istat, “Rilevazione sulle forze di lavoro”, 06 giugno 2023.
[7] Per un ulteriore approfondimento si veda: “Dossier infermieri. Numeri, carenza, retribuzioni e formazione”, Quotidiano Sanità, 31 agosto 2022.
[8] La macrocategoria “Personale sanitario nel SSN” si riferisce ai dipendenti operanti nelle Aziende Sanitarie Locali e nelle Aziende Ospedaliere, nella forma di ruolo sanitario (medici e odontoiatri); professionale (veterinari, farmacisti, biologi, chimici, fisici, psicologi); tecnico (analisti, statistici, sociologi, assistenti sociali, collaboratori tecnico-professionali, assistenti tecnici, programmatori, operatori tecnici, operatori tecnici di assistenza, ausiliari specializzati); amministrativo (direttori amministrativi, collaboratori amministrativi, assistenti amministrativi, coadiutori amministrativi, commessi); con qualifiche atipiche; altro personale.
[9] Sul sito del Ministero della Salute non risultano disponibili i dati per il biennio 2014-2015.
[10] Per un ulteriore approfondimento si veda l’emendamento alla Legge di Bilancio del 2019 proposto dal Ministro della Salute Grillo.
[11] Si tratta di una composizione che nel tempo è rimasta pressoché invariata. Per quanto riguarda le professioni ripartite tra i vari ruoli: nel ruolo sanitario vengono conteggiati medici e odontoiatri, insieme ad altro personale laureato (farmacisti, biologi, chimici, fisici, psicologi, veterinari), dirigenti, operatori di riabilitazione, di vigilanza e ispezione, personale infermieristico, e operatori tecnico-sanitari; il ruolo professionale è ricoperto da avvocati, ingegneri, architetti, geologi, assistenti religiosi, e addetti alla comunicazione e informazione; il ruolo tecnico considera analisti, statistici, sociologi, assistenti sociali, collaboratori tecnico-professionali, assistenti tecnici, programmatori, operatori tecnici, operatori tecnici di assistenza, ausiliari specializzati; il ruolo amministrativo considera direttori, collaboratori, assistenti, coadiutori e commessi amministrativi; infine, vi è il personale con qualifiche atipiche.
[12] Seppur non vi sia una spiegazione chiara fornita dal Ministero della Salute, il calo vertiginoso del numero di infermieri dal 2004 al 2005 (-8.032) potrebbe essere imputabile all’imposizione del tetto di spesa al personale a partire dalla Legge di Bilancio 2005. Infatti, le relazioni ministeriali sullo stato sanitario del Paese a partire dal 2007 hanno posto come obiettivo dei governi la necessità di indagare sulle assunzioni del SSN e di favorire un aumento delle risorse.
[13] Si noti che il dato medio nazionale è maggiore del dato basato sui numeri forniti dall’OCSE, in quel caso pari a 1,5. Ciò significa che la maggior parte degli infermieri italiani lavora per il SSN, presumibilmente dentro gli ospedali, mentre i servizi territoriali sono presidiati da medici non coadiuvati da alcun infermiere, proprio il punto che cerca di risolvere la riforma della sanità territoriale prevista dal D.M. 77.
[14] Queste comprendono i Policlinici Universitari privati, gli IRCCS privati e pubblici, gli Ospedali classificati, gli Istituti privati qualificati presidio dell’ASL e gli Enti di Ricerca.
[15] In base ai dati OCSE per il 2021, questi rappresentano il 20% del totale dei medici, contro l’80 per cento che invece è classificato tra i medici specializzati.
[16] Si noti che per la medicina territoriale, l’accesso alla formazione successiva alla laurea si traduce in un corso di formazione gestito direttamente dai Medici di Medicina Generale, che non configura però una vera e propria specializzazione. Questo implica borse di livello inferiore per i giovani laureati (e una ovvia minore attrattività del percorso rispetto alle specializzazioni che danno accesso ai ruoli ospedalieri).
[17] La scelta di aumentare i posti è confermata per il 2024, con 19.944 posti per i corsi di Medicina e Chirurgia in italiano e inglese (oltre 4.000 posti in più) e, dalle recenti dichiarazioni della Ministra dell’Università, anche per le borse di specializzazione.
[18] La commissione coinvolge anche il Ministero della Salute e la Conferenza delle Regioni e conta tra i membri le figure più influenti del mondo universitario e sanitario. Per un ulteriore approfondimento si veda il Comunicato Stampa del 12 gennaio 2023 sul sito del Ministero dell’Università e della Ricerca.
[19] L’accesso a numero limitato alla facoltà di medicina è stato istituito nel 1999 proprio per contrastare questo fenomeno. Si noti che aumentare i posti a Medicina è costoso: in base ai dati forniti dall’Associazione Liberi Specializzandi, per formare e specializzare un medico servono mediamente 115.000 euro. Per un ulteriore approfondimento si veda: Z. Dalla Valle, M. Minerva, G. Pisauro, S. Vannutelli, “Pochi medici oggi, ma forse troppi domani”, Lavoce.info, 27 giugno 2023.