Lavoro

Quanti sono gli scioperi in Italia?

17 ottobre 2023

Intermedio

Quanti sono gli scioperi in Italia?

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Descrivere l’evoluzione storica del fenomeno degli scioperi in Italia è un compito per nulla semplice, che lascia inevase alcune semplici domande, come quella sulla prevalenza dei conflitti nel comparto pubblico o privato. La serie storica più lunga sui conflitti di lavoro, fornita dall’Istat, si ferma al 2009 e permette di evidenziare l’aumento della conflittualità tra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, con una concentrazione degli scioperi nel settore dell’industria. Dal picco degli anni Settanta, il numero di azioni si riduce notevolmente. La mappa degli ultimi anni, ricostruita sulla base dei dati della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo Sciopero, per quanto parziale e frammentata, mostra come gli scioperi si concentrino in alcuni settori, in particolare quello dei trasporti. L’andamento del fenomeno sembra seguire l’evoluzione dell’economia italiana verso un sistema sempre più basato sui servizi.

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Nel 1893, in un articolo per l’Economic Journal, Francesco Saverio Nitti – futuro presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia e titolare della cattedra di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze presso l’Università di Napoli – scrive che “non ci sono buone statistiche sugli scioperi italiani”.[1] L’affermazione sembra ancora valida e giustifica il tentativo di ricostruire una mappa quantitativa del fenomeno degli scioperi nel nostro Paese, che è l’obiettivo che ci poniamo in questa nota.

I primi paragrafi dell’articolo di Nitti ricostruiscono la legislazione sugli scioperi dell’Italia pre-unitaria, riportandoci in un mondo dove lo sciopero veniva visto di fatto come un crimine e regolato nell’ambito del Codice Penale. Degli oltre mille scioperi registrati negli anni Ottanta del XIX secolo, la grande maggioranza erano scioperi di breve durata per quei tempi (3 giorni o meno) e rivolta a ottenere un aumento delle condizioni salariali.

Oggi in Italia lo sciopero è un diritto sancito dall’art. 40 della Costituzione, che stabilisce che questo diritto “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Nel nostro Paese è la legge 12 giugno 1990, n. 146 poi modificata dalla legge 83 del 2000 a contenere le “Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge”. La normativa, frutto della collaborazione fra il Parlamento e le organizzazioni sindacali, è basata sulla necessità di un equilibrio fra l’esercizio del diritto di sciopero e il godimento di diritti costituzionali della persona (per esempio il diritto alla salute, alla sicurezza, alla libertà di circolazione e alla comunicazione). In quest’ottica, e per la natura dello sviluppo della legge stessa, è la fonte collettiva a stabilire le “prestazioni essenziali” che devono essere garantite durante uno sciopero in tutte le loro declinazioni.

La stessa legge del 1990 ha istituito anche la Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo Sciopero (CGS) nei servizi pubblici essenziali come autorità amministrativa indipendente. Per poter assicurare la coesistenza tra i diritti degli utenti e il diritto di sciopero, la CGS gode di poteri di vigilanza rispetto alle regole procedimentali stabilite dalla normativa, nonché di poteri normativi e di regolazione del conflitto collettivo. Inoltre, in caso di comportamenti contrari alla normativa in materia, la Commissione è dotata anche di poteri sanzionatori.

La prospettiva storica: gli scioperi dal 1949 al 2009

Per una ricostruzione dell’evoluzione storica dei conflitti di lavoro in Italia una prima fonte informativa sono i dati disponibili nell’Archivio Storico dell’Istat. Nel 1948, tramite una intesa tra l’Istat e il Ministero degli Interni, è iniziata la Rilevazione dei conflitti di lavoro, per la quale la metodologia di raccolta dei dati ha subito diverse modifiche negli anni.[2] Inizialmente venivano considerati solo scioperi derivanti da vertenze di lavoro, escludendo dunque scioperi che avevano come motivazioni, per esempio, il “caro prezzi”, e quelli che avevano durata inferiore alla giornata lavorativa e solo dal 1995 sono stati inclusi tutti gli scioperi, indipendentemente dalla loro durata.[3] Nel 1970 è stato predisposto un modello che registrasse anche i conflitti non originati dai rapporti di lavoro, unificato poi a quello già esistente nel 1976. Questa rilevazione dell’Istat è stata però interrotta dal 2010 con lo scopo di revisionare l’intero processo di raccolta ed elaborazione dei dati. Il monitoraggio non è ancora stato ripreso e la serie si ferma al 2009.[4]

Le informazioni disponibili, dunque, tracciano l’evoluzione dei conflitti di lavoro dal 1949 al 2009, suddividendo i conflitti in cinque grandi settori di attività economica: Agricoltura, Industria, Servizi, Pubblica Amministrazione e Altre attività (Fig. 1).[5] Non stupisce che, da una prima analisi del fenomeno, il numero di scioperi cresca rapidamente tra gli anni Sessanta e Settanta, in particolare nell’industria e nei servizi. Questa crescita trova riscontro in un dato rappresentativo: ben 3.605 scioperi per il settore dell’industria nel 1971, a fronte di un totale record di ben 5.598 conflitti annui (15 al giorno).

Dopo il picco di questo ventennio, il numero di scioperi diminuisce notevolmente. È interessante anche notare come, almeno a partire dal 1986, anno dal quale i dati distinguono i Servizi dalla Pubblica Amministrazione, questo ultimo settore giochi un ruolo marginale nel numero di conflitti; è soprattutto il settore dei servizi privati a contribuire al numero complessivo di scioperi registrati dall’Istat.[6]

Gli scioperi nei “servizi pubblici essenziali”

La ricostruzione del fenomeno degli scioperi tramite i dati Istat si interrompe dunque al 2009. Per ricostruire una mappa degli scioperi in Italia dal 2010 ad oggi si è quindi fatto ricorso alle informazioni riportate dalla CGS nelle sue Relazioni annuali al Parlamento.[7] In esse vengono però raccolte le informazioni relative agli scioperi che coinvolgono i “servizi pubblici essenziali”.[8] I “servizi pubblici” sono le attività prestate con lo scopo di soddisfare le esigenze della collettività, indipendentemente dalla natura del soggetto erogatore. L’art. 1 della stessa legge che ha istituito la Commissione definisce “essenziali” quei servizi pubblici che, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di lavoro, sono volti a garantire, come già ricordato, il godimento dei diritti della persona tutelati dalla Costituzione (come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione).

Le relazioni della CGS consentono di distinguere scioperi proclamati, effettuati e revocati. Il primo è l’insieme più ampio, dato dalla somma degli scioperi effettuati e revocati. Se consideriamo il dato relativo alle proclamazioni di sciopero, possiamo ricostruirne l’evoluzione dal 2006 al 2022 (Fig. 2).[9] Guardando agli anni dal 2006 al 2009, in cui sono disponibili entrambe le serie, si nota, tuttavia, una differenza fra i dati registrati dalla CGS e quelli registrati secondo la metodologia Istat. Per esempio, nel 2006 l’Istat riporta 1.172 scioperi, mentre la CGS 1.660 scioperi proclamati (tra il 2006 e il 2009, anni di sovrapposizione delle due serie, non si riescono purtroppo a distinguere quelli effettivamente realizzati da quelli revocati). Secondo la serie CGS, negli anni considerati il numero massimo di scioperi annui è stato 2.488 nel 2017, mentre il minimo si registra nel 2020 con un totale di 1.472. Tra il 2010 e il 2020 si contano più di 2.000 scioperi proclamati, tra i 5 e i 6 al giorno; il numero si riduce poi per effetto della pandemia nel 2020 e rimane intorno ai 1.500 scioperi negli ultimi due anni.[10]

Utilizzando i dati delle Relazioni è possibile analizzare anche quanti degli scioperi proclamati vengono revocati e quanti effettuati. La ricostruzione per questa analisi parte dal 2015 e arriva fino al 2022, un intervallo individuato per garantire continuità nei dati utilizzati (Fig. 3).[11]

Non tutti gli scioperi proclamati vengono effettivamente realizzati: circa un terzo del totale vengono revocati (alcuni proprio per effetto di un intervento della CGS), riducendo dunque notevolmente il numero degli scioperi effettuati. Negli anni considerati la percentuale di scioperi effettuati si è infatti aggirata fra il 60 e il 70 per cento, mentre il biennio 2019-2020 è caratterizzato da una quota maggiore di revoche (quasi il 40 per cento). Facendo un confronto fra il 2015 e il 2022, il numero di scioperi effettuati si è ridotto da 1.471 a 1.129, circa 3 ogni giorno.

La relazione della CGS consente di studiare l’eterogeneità del fenomeno dello sciopero lungo due dimensioni: una dimensione territoriale e una settoriale. Per quanto riguarda la prima, dal 2011 sono disponibili informazioni sugli scioperi proclamati per regione (dunque escludendo quelli di carattere generale e nazionale), ma solo dal 2015 è possibile tracciare le giornate effettivamente interessate da azioni di sciopero. Un confronto temporale sulla distribuzione a livello regionale mostra che, sebbene il volume sia delle proclamazioni che delle giornate interessate da scioperi sia diminuito negli anni (coerentemente con quanto detto finora), la distribuzione sul territorio italiano rimanga pressoché invariata. Nel 2022, come nel 2015, infatti, le regioni con maggiori scioperi in numero assoluto sono state la Campania, la Lombardia, l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Veneto e il Lazio (nei primi anni di disponibilità dei dati, anche Puglia e Sicilia risultavano in questo gruppo di regioni). Tuttavia, rapportando questo dato al numero di dipendenti di ogni regione si può notare che gli scioperi hanno invece una maggiore incidenza relativa in Calabria, Basilicata, Valle d’Aosta e Liguria (Fig. 4).

Per quanto riguarda la dimensione settoriale, la relazione della CGS non consente di distinguere tra scioperi nel pubblico e nel privato, classificando gli scioperi tra settori (anche molto specifici) di “servizi essenziali”. Fra gli scioperi effettuati, la maggior parte delle azioni riguardano un sottoinsieme di servizi essenziali i quali, per tutto l’arco temporale considerato, costituiscono complessivamente più della metà del totale: Igiene Ambientale, Pulizie e multiservizi, Telecomunicazioni, Trasporto pubblico locale, Trasporto aereo, Trasporto ferroviario, Regioni e autonomie locali e Servizio sanitario nazionale (Fig. 5).[12]

Per quanto questi servizi rappresentano la quota maggioritaria degli scioperi, si osserva negli anni una variazione dell’importanza relativa tra diversi settori. Per esempio, vi è un aumento relativo degli scioperi effettuati in alcuni settori relativi ai trasporti (Fig. 6).

Per quanto riguarda il trasporto ferroviario, in termini assoluti gli scioperi effettuati sono aumentati da 65 nel 2015 a 82 nel 2022 (uno ogni quattro giorni circa), che in termini relativi si traduce in un incremento del 3 per cento sul totale degli scioperi annui (dal 4 per cento del totale al 7 per cento). Allo stesso modo, il forte aumento in termini assoluti per il trasporto aereo (da 54 a 138, uno sciopero ogni 2,5 giorni) si traduce in un aumento relativo del 7 per cento, arrivando a costituire ben il 12 per cento dei casi di sciopero nel 2022. Il caso del trasporto pubblico locale (TPL) è invece differente, in quanto vi è stata una diminuzione delle istanze di sciopero annuali in termini assoluti (da 281 a 193, uno ogni 1,8 giorni), tradottasi in una diminuzione relativa del 2 per cento (dal 19 per cento dei casi totali nel 2015 al 12 nel 2022). Riassumendo, questo significa che sul totale degli scioperi annui i trasporti nel loro complesso sono coinvolti nel 36 per cento degli scioperi effettuati (contro il 28 per cento nel 2015): uno ogni tre scioperi si riferisce a questo settore.

In termini di giornate effettive di sciopero nel settore dei trasporti, questo si traduce in media nel 20 per cento circa del totale delle giornate di sciopero annue (Fig. 7). Fino al 2020 la maggior parte delle giornate di sciopero relative ai trasporti hanno riguardato il trasporto pubblico locale, mentre nel biennio 2021-2022 ha giocato un ruolo maggiore il trasporto ferroviario.

Sebbene la relazione non riporti una distinzione degli scioperi tra comparto pubblico e privato, abbiamo comunque provato a effettuare un confronto considerando la sanità, che è l’unico settore per il quale si distingue il comparto privato da quello pubblico.

In questo settore è possibile notare che, dal 2015 al 2022, vi sono sempre stati più casi di sciopero nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che nel comparto della Sanità Privata. In particolare, il numero di scioperi nel comparto pubblico mostra un aumento fino al 2019 e, nonostante il forte declino per il biennio 2019-2021, registra una ripresa delle azioni collettive nel 2022. Al contrario, le proclamazioni e gli scioperi effettuati nella Sanità Privata sono stati sempre inferiori a quelli del SSN e sembrano registrare una tendenza alla riduzione negli anni. Rapportando il numero di scioperi al numero dei dipendenti pubblici e privati, è possibile notare che gli scioperi avevano una maggiore incidenza per il privato solo nel biennio del 2015-2016. Dal 2016 in poi, questi hanno infatti caratterizzato maggiormente la sanità pubblica, confermando la ripresa nel 2022 in seguito al forte declino dei due anni precedenti (Fig. 8).

Le giornate di sciopero nell’industria e nei servizi

Oltre al numero di scioperi, la Rilevazione sui conflitti di lavoro dell’Istat consente di mappare anche il numero di ore non lavorate per settore. Questo indicatore, che può essere preso come una proxy dell’intensità del conflitto, mostra un andamento analogo a quello degli scioperi: valori particolarmente elevati per il ventennio degli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo (quasi 233 mila ore per l’industria nel 1969) che vanno a diminuire notevolmente nel tempo, attestandosi negli ultimi anni sempre sotto alle cinquemila ore complessive, considerando congiuntamente industria e servizi (Fig. 9).

Come già detto, questa rilevazione viene interrotta nel 2009. Per provare a ricostruire l’andamento del fenomeno nell’ultimo ventennio ricorriamo quindi a una serie alternativa fornita sempre dall’Istat. Le informazioni sulle ore di sciopero possono essere recuperate dalla Rilevazione mensile sull’occupazione, gli orari di lavoro, le retribuzioni e il costo del lavoro nelle grandi imprese. Questa indagine viene condotta a cadenza mensile e interessa tutte le imprese dell’industria e dei servizi con almeno 500 dipendenti che svolgono la loro attività economica nei settori B-S della classificazione economica ATECO-2007.[13] Attualmente la rilevazione è condotta su circa 1.450 imprese (nella base 2010 le imprese considerate erano circa 1297) individuate nell’Archivio Statistico delle Imprese Attive (ASIA 2015). Le imprese selezionate rappresentano il 23 per cento del totale delle posizioni lavorative dipendenti presenti nell’archivio per il 2015; la quota è pari al 17,7 per cento per l’industria e al 26,1 per cento per i servizi. L’indagine fornisce degli indicatori per l’analisi di breve periodo dell’andamento congiunturale dell’occupazione, delle ore lavorate, delle retribuzioni e del costo del lavoro nelle imprese di grande dimensione.

I dati disponibili permettono di tracciare l’andamento del fenomeno dal 2005 al 2022, e mostrano una tendenza alla riduzione delle ore di sciopero (per mille ore lavorate) in ogni settore considerato, premesso che l’industria sembra ancora giocare un ruolo maggiore per tutto l’arco temporale incluso (Fig. 10).

Gli scioperi nel pubblico impiego

In questo paragrafo ci concentriamo sul pubblico impiego, vista l’importanza del settore nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. Una prima rappresentazione è offerta dalla Rilevazione dei conflitti di lavoro dell’Istat, che consente di mappare il periodo tra il 1986 e il 2009. Si osserva un picco nella conflittualità sul finire degli anni Ottanta, poi ancora sul finire degli anni Novanta (anche se a questo non corrisponde un fenomeno analogo per quanto riguarda le ore non lavorate, Fig. 11).

Un’altra fonte di dati, limitata agli scioperi relativi al pubblico impiego, è il Cruscotto degli scioperi del pubblico impiego gestito dal Ministero per la Pubblica Amministrazione, che riporta il calendario delle azioni relative agli ultimi tre anni (Fig. 12).[14] Questi numeri costituiscono a loro volta solo una parte del totale degli scioperi nel pubblico impiego poiché non vengono considerate le azioni di sciopero proclamate (ed effettuate) a livello locale e/o regionale. I dati, infatti, includono tutti gli scioperi di carattere nazionale per i singoli comparti (Amministrazioni o Enti che stipulano CCNL con l’Aran, incluso il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco) e settori o quelli di carattere generale (ossia relativo a tutti i comparti e i settori).

In questo caso i settori maggiormente coinvolti sono: Istruzione e Ricerca, Sanità e Funzioni Centrali. Complessivamente, questi costituiscono in media i tre quarti degli scioperi del pubblico impiego di carattere nazionale nel triennio considerato (Fig. 13).

Conclusioni

Sono passati più di cent’anni dall’affermazione di Nitti e l’Italia continua a non avere buone statistiche sul fenomeno degli scioperi. La serie storica più lunga è prodotta dall’Istat ma si ferma inspiegabilmente al 2009 e da allora non è più stata aggiornata. L’evoluzione degli ultimi anni può essere mappata tramite i dati forniti dalla CGS ma questi dati si limitano ai “servizi pubblici essenziali”. I dati disponibili consentono comunque di affermare che la stagione dei conflitti degli anni Sessanta e Settanta non è stata più sperimentata dal paese: dal picco dell’inizio degli anni Settanta il fenomeno dello sciopero si è sensibilmente ridotto e dagli scioperi nell’industria si è passati agli scioperi nei servizi, in qualche modo riflettendo i cambiamenti strutturali dell’economia italiana.


[1] L’originale inglese è “There are no good statistics of Italian strikes”. Si veda F.S. Nitti, “Strikes in Italy”, Economic Journal, 3(12), 1893, pp. 719-733.

[2] Questa rilevazione ha alimentato anche lo Yearbook of Labor Statistics dell’ILO come segnalato in L. Bordogna, “Conflitti di lavoro: un vuoto di informazione ormai decennale”, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 159, 2018, pp. 703-708.

[3] Venivano però inclusi scioperi di durata inferiore alla giornata lavorativa qualora le interruzioni coinvolgessero due o più giornate.

[4] In questo senso si veda ancora L. Bordogna, “Conflitti di lavoro: un vuoto di informazione ormai decennale”, cit.

[5] Il settore “Altre attività” è stato suddiviso in “Servizi” e “Pubblica Amministrazione” a partire dal 1986 – e dunque non più incluso a partire da tale data; il settore della “Pubblica Amministrazione” a partire dal 1998 include anche i dati relativi a istruzione e sanità.

[6] È curioso osservare come il picco del numero di conflitti si collochi all’inizio degli anni Settanta mentre quello del numero di iscritti ai sindacati si registri un decennio dopo, all’inizio degli anni Ottanta, secondo l’analisi proposta in P. Santini, “Quanti sono gli iscritti al sindacato in Italia?”, Lavoce.info, 6 ottobre 2013.

[7] Non ci sono alternative facili per ricostruire la numerosità delle azioni. Per esempio, la metodologia utilizzata nell’ambito degli studi sui movimenti sociali è conosciuta come Protest Event Analysis e consiste nella raccolta di informazioni a partire dalle notizie pubblicate sulla stampa. Si veda per esempio M.S. Perra, K. Pilati, “Political, General or Economic Strikes? New Types of Strikes and Workers’ Contention”, Partecipazione e Conflitto, 16(2), 2023, pp. 234-251.

[8] Le Relazioni annuali sono disponibili nella sezione dedicata del sito della Commissione Garanzia Sciopero.

[9] Le Relazioni antecedenti al 2006 riportano i dati con metodologie diverse che non consentono di costruire una serie storica senza interruzioni.

[10] La stima di Perra e Pilati (si veda la nota 2) è molto più contenuta: tra il 2015 e il 2018, gli anni considerati anche dalla nostra analisi, il numero di scioperi mappati dai giornali è 200.

[11] Fino al 2014 non sono disponibili i dati utilizzati per questa analisi.

[12] Le altre categorie di servizi essenziali considerate nelle Relazioni sono: Acqua, Agenzie fiscali, Appalti ferroviari, Avvocati, Camera di commercio, Carburanti, Circolazione e sicurezza stradale, Consorzi di bonifica, Credito, Distribuzione farmaci e logistica farmaceutica, Elettricità, Elicotteri, Energia e petrolio, Enti pubblici non economici, Funerario, Gas, Istituti di vigilanza, Istruzione e ricerca, Libere professioni, Magistrati professionali e onorari, Metalmeccanici, Ministeri, Noleggio con conducente, Poste, Radio e tv, Ricerca, Sanità privata, Scuola, Taxi, Trasporto merci su gomma, Trasporto merci su rotaia, Università e Vigili del fuoco.

[13] Tali settori includono: B – Estrazione di minerali da cave e miniere; C – Attività manifatturiere; D – Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata; E – Fornitura di acqua, reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento; F – Costruzioni; G – Commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli; H – Trasporto e magazzinaggio; I – Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione; J – servizi di informazione e comunicazione; K – Attività finanziarie e assicurative; L – attività immobiliari; M – attività professionali, scientifiche e tecniche; N – Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese; O – Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria; P – Istruzione; Q – Sanità e assistenza sociale; R – Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento; S – Altre attività di servizi.

[14] Il Cruscotto degli scioperi nel pubblico impiego è consultabile nella corrispondente sezione del sito istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica.

Un articolo di

Ilaria Maroccia, Gilberto Turati

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