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  • Qualcosa non torna. Lo scudo anti spread c'è già, ma nessuno lo vuole usare

    Lo scudo anti spread c'è già, ma nessuno lo vuole usare Il Foglio Qualcosa non torna. Lo scudo anti spread c'è già, ma nessuno lo vuole usare 22 giugno 2022 Per funzionare lo strumento della Banca centrale europea dovrebbe avere portata illimitata. Questo però è già previsto dall’OMT (Outright Monetary Transactions), introdotto dall'Eurotower nell’estate del 2012. Il problema è che l’OMT può essere attivato solo se un paese si è rivolto al Mes. *** La domanda da un milione di dollari che circola nei mercati finanziari riguarda il famoso scudo anti spread più volte annunciato dalla presidente della Banca Centrale Europea, ma mai reso esplicito. Soprattutto, se lo scudo si limitasse a questo, il mercato saprebbe che esso ha un limite (stimabile in circa 20 miliardi al mese) e quel limite verrebbe rapidamente messo alla prova.

  • Lo Stato si, ma non solo

    Nel seguito mi limito alla fondamentale questione di come sarà rivisto il nuovo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), su cui è caduto il precedente governo. Draghi ha detto che si tratterà, soprattutto, di rafforzare il PNRR in termini di obiettivi strategici e di riforme. Il precedente PNRR non chiariva esplicitamente la questione, ma sembrava orientato verso una maggiore presenza dello Stato nella gestione economica a partire dalla dimensione e dal ruolo previsto per gli investimenti pubblici. E sulla parità di genere non si punta sul “farisaico rispetto di quote rosa”, ma sul creare “parità di condizioni competitive tra generi”. Insomma occorre dare opportunità alle donne, per esempio attraverso “eguale accesso alla formazione” e “un sistema di welfare che permetta … di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini”. Primo, il precedente PNRR trascurava completamente la riforma del regime di concorrenza, che è ora invece tra le prime citate. Il quarto punto riguarda un’omissione, l’unica che ho trovato, ma che mi sembra importante: il nostro paese ha un disperato bisogno di una massiccia semplificazione burocratica (normativa e regolamentare), condizione sine qua non per attirare investimenti privati in quantità adeguata.

  • Working poor e salario minimo

    Una della proposte avanzate per affrontare il problema è quella del salario minimo per legge. Lungo queste linee di sta muovendo anche la Commissione Europea. Taglierebbe le gambe – questo sì- a quelle microimprese che vivono proprio grazie ai bassi salari e all’evasione fiscale e che rappresentano una buona parte di quell’11 per cento di Pil sommerso che è una delle grandi anomalie dell’Italia. E’ ora di chiamare le cose con il loro nome: queste sono “imprese zombie”, che sopravvivono grazie al contributo di lavoratori mal pagati e dei contribuenti. Il loro destino è uscire dal mercato. I sindacati strepitano contro i working poors e i contratti pirata, ma si oppongono al salario minimo, perché temono di perdere ruolo; una visione miope che ne mina la credibilità come paladini dei lavoratori.

  • Lo scandalo della Banca Mondiale

    Pressioni analoghe, ma senza il coinvolgimento dei vertici della Banca, sarebbero state eserciate nel 2020 da alcuni altri paesi (Arabia Saudita, Emirati e Azerbaijan). Il 16 settembre scorso, la Banca ha preso la decisone di cessare la pubblicazione del rapporto che da vent’anni usciva con cadenza annuale. Lo scandalo è serio di per sé ed è aggravato dal fatto che la direttrice della Banca Mondiale nel 2018 era Kristalina Georgieva che è ora al vertice del Fondo Monetario Internazionale. Ma sembrano contenti anche alcuni intellettuali europei che pensano che la Banca Mondiale sia un covo di liberisti e che le politiche per rendere meno difficile fare impresa comportino di comprimere i diritti. Nulla di più sbagliato dal momento che i paesi nordici, quelli con la pressione fiscale più alta al mondo e il welfare più sviluppato, stanno tutti nelle prime posizioni. La faccenda non è chiusa, anche perché la Georgieva ha dichiarato che i fatti non sussistono e che chiarirà la propria posizione. Forse più che esultare, dovremmo trarre qualche insegnamento su cosa voglia dire avere funzionari di qualità che non saranno martiri, ma comunque credono nella missione a cui è preposta la loro istituzione.

  • Covid, serve uno scudo per l'economia

    Ma che prospettive ci sono effettivamente per una rapida ripresa? Possiamo essere ottimisti? Chiarisco: non mi riferisco a quello che serve per mettere l’Italia su un sentiero di crescita di medio termine che ci porti fuori dal pantano del ventennio pre-covid. Per cominciare, in Italia la produzione industriale è ormai tornata quasi ai livelli pre-Covid: era caduta di più del 40 per cento un anno fa, ora è solo dello 0,6 per cento più bassa di quella del febbraio 2020. Fra l’altro, in quest’area siamo tra i migliori: in Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, il rimbalzo della produzione industriale è stato inferiore, segno della flessibilità della nostra manifattura. Questo suggerisce che, in assenza di freni alla produzione, si produce: non c’è una carenza di domanda. Fra l’altro il forte aumento del risparmio nel 2020 ci dice che le famiglie italiane non hanno (ovviamente si parla di medie) una carenza di liquidità al momento. Si può quindi sperare che, ridotte le restrizioni alla produzione (chiusure, divieti di spostamenti, eccetera), anche il settore dei servizi possa riprendersi rapidamente (come peraltro confermato dalla forte crescita del nostro PIL nel terzo trimestre del 2020, prima della seconda ondata Covid). Non mi scandalizzerebbe neppure un piccolo nuovo prolungamento del blocco dei licenziamenti, anche se, ovviamente, non si può andare avanti all’infinito, anche perché attualmente tutto l’aggiustamento sul lato della produzione ricade su chi ha contratti temporanei, solitamente giovani e donne.

  • Tagliamo la giungla fiscale

    Il metodo tedesco, si dice, comporta aliquote “personalizzate”: questo è il vostro reddito, questa è l’aliquota da applicare al reddito. A loro non andrà nulla? Ma la questione principale riguarda la complessità del nostro sistema IRPEF e il raggiungimento di una maggiore equità “orizzontale”, cioè una maggiore eguaglianza tra contribuenti che hanno lo stesso reddito ma diversi livelli di tassazione effettiva. Esistono una marea di deduzioni e detrazioni al di là di quelle per familiari e per reddito da lavoro, ognuna con la sua normativa e diversi campi di applicazione. Esistono differenze di trattamento tra reddito da lavoro autonomo e reddito di impresa (quando invece le micro imprese non sono molto diverse dal lavoro autonomo). Esistono i redditi con imposizione sostitutiva (redditi di capitale, redditi diversi di natura finanziaria, redditi di fabbricati, plusvalenze immobiliari ecc.) e differenze marcate all’interno di questi in termini di trattamento fiscale. Ma quella che abbiamo attualmente è una vera giungla, il risultato di decenni di misure estemporanee prese dai vari governi e parlamenti senza una chiara logica se non quella di far contento questo o quel settore dell’elettorato. Senza dimenticarsi che occorrerà trovare adeguate fonti di copertura se si vuole ridurre la pressione fiscale e che, come ricordato più volte da Gentiloni e dallo stesso Gualtieri, le risorse del Recovery Fund, in quanto temporanee, non possono finanziare il taglio permanente delle tasse di cui avremmo bisogno.

  • I naufraghi del lavoro

    Negli Stati Uniti si licenzia direttamente e il numero dei disoccupati è salito di oltre 20 milioni nel solo mese di aprile. Ieri Valentina Conte su questo giornale ha sottolineato che oltre due milioni e mezzo di lavoratori (un terzo di quelli che hanno fatto domanda) non hanno ancora ricevuto gli aiuti. Ciò comporta che la disoccupazione, palese e nascosta (tramite la cassa integrazione), tenderà a restare elevata per parecchio tempo, col rischio che i lavoratori perdano poi la capacità di rientrare nel mercato del lavoro. È stato per esempio notato che nell’Unione europea il 27 per cento delle donne ha lavori precari, quelli che probabilmente saranno persi più rapidamente, contro il 15 per cento degli uomini. Spero ci sia qualcuno, nel governo o nelle task force create, che si stia occupando di questo aspetto, visto che occorre tempo per attivare gli investimenti pubblici in un Paese vincolato da un eccesso di burocrazia. Certo, come scrisse Keynes nel capitolo 10 della sua Teoria generale, anche scavare buchi per terra può aiutare a combattere una recessione, ma meglio lasciare qualcosa di buono alle generazioni future piuttosto che buchi per terra. Grazie all’azione della Bce i tassi di interesse sui titoli di Stato restano solo di qualche decimo di punto sopra al livello di fine 2019.

  • Patrimonio Destinato, strumento utile

    Lo strumento può essere utile se serve ad aiutare le imprese sane ad uscire dalla crisi con operazioni che non interferiscano nella gestione e siano chiaramente delimitate nel tempo. La tentazione di fare una nuova IRI o forse addirittura una nuova Gepi è invece chiaramente presente nelle norme in vigore, approvate dal precedente governo. L’intento programmatorio diventa evidente quando si elencano i settori che meritano la qualifica di “strategici” o comunque di interesse nazionale: quasi tutti. Per i primi, i soggetti ammissibili sono quelli che non si trovavano in condizioni di difficoltà al 31 dicembre 2019, ma ora rischiano di perdere la continuità aziendale. Anche qui non è chiaro chi venga escluso; non era meglio dire che lo strumento serve per tutte le imprese con prospettive di redditività? Tanto più che per questi interventi, le regole europee impongono un coinvestimento privato per almeno il 30%. Cdp opera per conto del Mef; non guadagna né rischia nulla, ma viene solo compensata per le spese che sostiene; non si può quindi contare molto sulla comprovata prudenza delle Fondazioni per evitare operazioni poco accorte. Non rimane che contare sul buon senso, che pure non manca, e sui controlli della Commissione europea.

  • Riforma scadente e risparmi bassi. È fatta per creare una nuova casta

    È fatta per creare una nuova casta 14 settembre 2020 La Stampa, 14 settembre 2020 *** Voterò no al referendum sul taglio del numero dei parlamentari perché, nella sua evidente semplicità, è una riforma fatta male, senza una chiara motivazione, senza ben definiti e significativi vantaggi e con qualche probabile svantaggio. Ma, soprattutto, voterò no perché, approvando riforme della nostra Costituzione che non sono fondamentali, ma sono solo di facciata, si alimenterebbe la convinzione che i problemi sociali ed economici della nostra Italia possono essere risolti con approcci superficiali e approssimativi. Il risparmio è modesto: 57 milioni l’anno, il famoso “costo di una tazzina di caffè all’anno” per italiano (assumendo che si possa trovare una tazzina di caffè a meno di un euro!). Non è questo un motivo sufficiente per non risparmiare, ma non si dia l’impressione, come è stato fatto da tanti sostenitori della riforma, che il taglio risolva i problemi delle finanze pubbliche italiane: il risparmio è equivalente allo 0,007 percento della spesa pubblica. E poi, se lo scopo della riforma era ridurre il “costo della casta” allora non era meglio ridurre il costo per parlamentare (che è più elevato che negli altri principali paesi europei) invece di ridurre il numero dei parlamentari? Si dice anche: abbiamo troppi parlamentari. La conclusione è, quindi, che, se si voleva ridurre il numero dei parlamentari, il modo giusto di farlo era passare a un sistema monocamerale, il che avrebbe anche consentito una vera semplificazione nella approvazione delle leggi. E la strada, lo ripeto, è quella di riforme di facciata, di ricette semplicistiche più che semplici, spinte da slogan di facile comprensione (aboliamo la casta, dopo aver abolito la povertà).

  • Debito pubblico, macigno per l’Italia fra tre anni 100 punti più dei tedeschi

    Il primo è quello dei paesi che hanno portato il deficit nel 2020 a livelli ben superiori al 10 per cento del Pil. Sono quattro: Israele, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti. Nel biennio, il FMI prevede un aumento del debito pubblico di 9 punti percentuali per la media di Finlandia, Germania e Olanda, contro 21 punti percentuali in media per Francia, Italia, Grecia e Spagna, che già partivano con un debito più alto. Cosa accadrà, per esempio, al debito pubblico italiano rispetto a quello tedesco? Il divario tra debito italiano e tedesco, già sui massimi storici nel 2019 (75 punti percentuali) raggiungerebbe i 92 punti percentuali nel 2024 (62 per cento per la Germania contro 154 per cento per l’Italia). Questa divaricazione tra paesi del Nord e paesi del Sud nell’andamento del debito pubblico renderà molto difficile trovare un accordo su come le regole del patto di stabilità dovranno essere modificate e su quando debbano rientrare in vigore. Ma il vero problema è che le enormi differenze nel livello di debito pubblico tra i paesi dell’area euro li rende diversamente vulnerabili a un aumento dei tassi di interesse causato da una futura impennata dell’inflazione media dell’area (l’obiettivo dell’azione della BCE). Se l’inflazione aumentasse, soprattutto nei paesi che, come la Germania, sembrano avviarsi verso un’uscita anticipata dalla crisi, questi paesi spingerebbero per un aumento dei tassi di interesse: non li preoccuperebbero gli effetti di tale aumento sul proprio debito pubblico, visto il suo modesto livello. È vero che l’aumento del debito pubblico nel biennio Covid è stato soprattutto nei confronti della BCE e, legalmente, delle banche nazionali (è la Banca d’Italia che compra il 90 per cento dei BTP acquistati dal sistema europeo delle banche centrali).

  • L'interesse pubblico

    Insieme ad altri, come il Professor Ponti, ho criticato più volte in passato il fatto che aspetti fondamentali di tali contratti fossero secretati, il che impediva di valutare se l’interesse pubblico fosse davvero tutelato. E’ in corso un processo penale per valutare le responsabilità della tragedia di Genova, processo che avrà inevitabili implicazioni sulla valutazione delle responsabilità del gestore del ponte Morandi e quindi sulle sue inadempienze. Resta il fatto che, al momento, non si è ancora raggiunta una conclusione legale sulle cause del crollo del ponte e quindi sulla responsabilità del gestore. E’ nell’interesse pubblico che la rete autostradale sia gestita dal settore pubblico? Certo, si può sostenere che la gestione passata è responsabile della caduta del ponte Morandi, per cui peggio non si può fare. Quello che sarebbe necessario per garantire un minimo di efficienza sarebbe affidare la concessione per le autostrade (e per tante altre cose; non dimentichiamo le spiagge) attraverso un processo concorrenziale che coinvolga diversi operatori. Questo senza tener conto che i Benetton detengono solo il 30 per cento di Atlantia, mentre il restante 70 per cento, che pure verrebbe penalizzato dall’accordo, è nelle mani di una marea di investitori e piccoli risparmiatori. In conclusione, l’impressione che mi resta è che, probabilmente, una conclusione migliore per l’interesse pubblico avrebbe potuto essere raggiunta se, fin dall’inizio, la vicenda del futuro della rete autostradale fosse stata meno politicizzata.

  • Con i fondi del Recovery crescita assicurata ma il valore del piano si vedrà alla distanza

    Questo richiede investimenti in capitale fisico e “umano” (non mi piace questo termine, ma è quello comunemente usato per indicare la nostra ricchezza umana). Il Piano vuole rimuovere le condizioni che frenano l’investimento privato in Italia attraverso appropriate riforme: la semplificazione della normativa, l’efficientamento della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia sono le cose che le imprese richiedono da anni come condizione per investire di più in Italia. Oltre alle riforme il piano prevede un forte aumento della spesa pubblica (digitalizzazione, infrastrutture, pubblica istruzione, sanità) per rendere il paese più moderno e per arricchirne il capitale umano. Il ruolo della spesa pubblica è anche un altro: dare una spinta diretta alla domanda di beni e servizi. I progetti non sembrano essere stati sottoposti a un’analisi costi-benefici, della cui importanza sembra che ormai ci siamo scordati, inebriati forse da un’improvvisa abbondanza di risorse (anche quelle derivanti dagli acquisti di BTP da parte della BCE) a cui non siamo abituati. È difficile che riforme strutturali (la giustizia, la pubblica amministrazione, eccetera) siano implementate a pieno se non sono sostenute da una genuina volontà popolare di considerarle prioritarie. Se battiamo il virus la ripresa ci sarà e continuerà finché durano i finanziamenti europei (il che però richiede che l’inflazione, che comincia a dare segni di risveglio, resti bassa, altrimenti la BCE dovrà stringere i cordoni della borsa).

  • Forzare la retribuzione verso l'alto non è la soluzione. Il PNRR è l'unica speranza

    Il PNRR è l'unica speranza Il Foglio Forzare la retribuzione verso l'alto non è la soluzione. Il PNRR è l'unica speranza 16 giugno 2022 L'Italia ha un colossale problema di produttività, che non significa affatto, come qualcuno sostiene, che la gente non lavora. Significa tutto ciò per cui è stato disegnato il Recovery, a partire dalle pubbliche amministrazioni che non funzionano, la giustizia che di giusto ha ben poco, le università infestate dalle varie concorsopoli. Nell’introduzione di Mario Draghi al PNRR, è detto chiaramente che l’Italia è uno dei paesi che nell’ultimo quarto di secolo è cresciuto di meno e che dietro questa bassa crescita c’è la stagnazione della produttività. Se invece si scopre che gli stipendi sono rimasti fermi negli ultimi decenni o addirittura sono diminuiti, questo è un tema che provoca reazioni indignate. Dal 1995 al 2019, il pil reale per ora lavorata (ossia il pil reale diviso il totale delle ore lavorate da tutti gli occupati) è cresciuto del 9 per cento in Italia, a fronte di valori compresi fra il 30 e il 50 per cento negli altri principali paesi. In Giappone, paese che fino a poco tempo fa veniva definito il malato del mondo, la crescita è stata del 34 per cento; in Germania, una volta considerata, con l’Italia, il malato d’Europa, la crescita è stata del 29; Francia e Regno Unito stanno attorno al 30.

  • Sei domande sull’inflazione

    L’inflazione, che i millennials non avevano mai conosciuto, è di nuovo tra noi. E non solo tra noi. Negli Stati Uniti l’aumento annuale dei prezzi al consumo viaggia al 7 per cento. A dire il vero, l’inflazione è spinta, più che da cannonate, da raffiche di aumenti dei prezzi delle materie prime. L’inflazione “di fondo” (cioè al netto di voci volatili come i prezzi dell’energia) è più bassa di quella totale, ma è cresciuta. Ci sono fattori specifici a certe materie prime come il gas naturale il cui prezzo si è quadruplicato rispetto ai livelli pre-covid (hanno pesato il calo nel 2021 delle scorte di gas per il freddo inverno, il basso rendimento dell’eolico nel nord Europa, ed eventi geopolitici). Ma in questo caso, lo stato italiano ci guadagna un po’ meno perché parte dell’inflazione è dovuta ai prezzi delle importazioni e non tocca il Pil. Chi ci guadagna di più sono i produttori di materie prime. L’inflazione potrebbe, in qualche misura, rallentare per conto suo. L’aumento della domanda aggregata ha una componente temporanea: parte della domanda che non si è espressa nel 2020, e che ha portato a un aumento dei risparmi, si è travasata nel 2021. Inoltre, non è ancora partita, tranne che negli Stati Uniti, quella rincorsa prezzi salari che prolunga nel tempo qualunque shock ai prezzi, compreso quelli internazionali.

  • Natalità, istruzione e meritocrazia: così l’Italia deve ripensare il futuro

    Sono problemi che solo in parte vengono affrontati dal PNRR, ma che più di tanti altri influenzeranno le tendenze di medio termine del nostro Paese. Il numero medio di figli per donna di cittadinanza italiana è sceso a 1,17, ma cala la natalità anche nelle famiglie con almeno un genitore straniero. Il problema è stato alleviato in passato dall’aumento del tasso di occupazione rispetto alla metà degli anni ‘90 e da un’immigrazione disordinata (quello che abbiamo visto sulle coste italiane negli ultimi anni è tutto tranne che una politica di immigrazione che è finora mancata). Se gli eccessi di un mondo basato sul merito vanno rigettati, il nostro paese ha sempre peccato nella direzione opposta, quello di un capitalismo relazionale e di un tentativo di promuovere un egualitarismo spinto (peraltro efficacie più nelle parole che nei fatti). Occorre invece premiare il merito per motivare le persone e questo deve essere fatto a partire dalla pubblica amministrazione, con un’adeguata formazione, con la misurazione sistematica dei risultati e col riconoscimento di tali risultati anche finanziariamente. E ci deve essere la volontà da parte del sindacato di accettare l’introduzione di criteri di merito nella gestione del personale pubblico. Spero che i tre sopracitati temi ricevano l’attenzione che meritano perché anche da essi, e non solo dalla disponibilità di infrastrutture fisiche, dipenderà il futuro di medio termine dell’economia italiana.

  • Altri due anni di flat tax, e il fisco grava sempre su stipendi e pensioni

    Questo slogan risuona forte e chiaro nel momento in cui il governo presenta il Documento di Economia e Finanza e il Parlamento si accinge a esaminare la delega fiscale. Quando lo enuncia, Landini alza di vari decibel il volume della voce, come a dire che il governo è insensibile alla grave ingiustizia che grava sui lavoratori che egli rappresenta.

  • Senza riforme saranno i mercati a punirci

    Inoltre, l’OCSE sollecita un’azione di sostegno pubblico non solo ai settori più direttamente colpiti dal coronavirus ma all’economia in generale per attenuare le spinte recessive, il che metterà ulteriore pressione sui deficit. Il deficit pubblico è sceso dal 2,2 per cento del Pil nel 2018 all’1,6 per cento, il valore più basso dal 2007. Il debito pubblico è rimasto stabile rispetto al Pil, al 134,8 per cento, un risultato non certo esaltante (ancora una volta, nessuna riduzione), ma che non è da buttar via in un anno in cui il Pil è cresciuto poco. Questo comporterebbe una perdita di entrate di circa lo 0,4 per cento del Pil. Pari e patta con l’effetto del miglior andamento delle entrate nel 2019. La risposta dei mercati è stata finora contenuta: i tassi di interesse sul debito pubblico sono cresciuti ma solo di un paio di decimi di punto. Ciò non significa che, di fronte al rischio di una seria recessione, politiche fiscali più espansive siano da escludere, ma sono purtroppo più rischiose per noi che per altri. Ciò detto, un modo per ridurre il rischio sarebbe quello di convincere gli investitori, con fatti e non con parole o promesse, che l’economia italiana, una volta superate la difficoltà temporanee, sarà in grado di crescere in modo più deciso del passato e di ridurre il nostro debito pubblico.

  • Un passo importante

    Ma le proposte sono certamente in linea con le intenzioni dei quattro principali Paesi (Germania, Francia, Italia e Spagna) e la possibile resistenza dei "quattro frugali" (Svezia, Olanda, Austria e Danimarca) ci conferma proprio che tali proposte sono coraggiose. Anche se tale solidarietà riflette senza dubbio la natura della crisi sanitaria, esogena, indipendente dalle azioni dei singoli Stati si tratta comunque di un importante cambiamento rispetto al recente passato. Il grosso delle risorse verrebbe non da trasferimenti da parte dei singoli Paesi, ma da tasse europee (incluse una digital tax e tasse ecologiche) con cui la Commissione conterebbe di raccogliere a regime 30 miliardi l’anno. Ciò detto, per un Paese come l’Italia che riceverebbe risorse in proporzione molto superiore alla quota del suo Pil (compresa per la parte erogata a fondo perduto) ci sarebbero indubbi vantaggi. Ciò significa che, per quest’anno, dovremo continuare a contare, in termini di sostegno da istituzioni europee, sugli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, sul meccanismo Sure e, si spera, sul Mes sanitario, che resta così importante attivare. E ricordiamo anche che gli usi devono essere conformi alle raccomandazioni della Commissione sulle riforme di cui l’Italia ha bisogno, recentemente espresse come parte del cosiddetto "semestre europeo". In conclusione, non sarà una rivoluzione copernicana, o un momento hamiltoniano, come alcuni hanno detto con riferimento al primo segretario del Tesoro degli Stati Uniti d’America che promosse l’unificazione del debito contratto dai singoli Stati durante la guerra d’indipendenza.

  • Le banche centrali tra Scilla e Cariddi

    I recenti dati sull’inflazione in novembre, in Italia e in Europa, insieme all’affermazione del presidente della FED Powell sul fatto che l’accelerazione dei prezzi negli Stati Uniti non può più considerarsi transitoria, confermano che il rischio di un duraturo ritorno dell’inflazione non è trascurabile. Certo non è questo uno scenario in cui dobbiamo sperare! Ma anche senza un nuovo shock da Covid, è comunque ancora possibile che l’inflazione scenda spontaneamente, esauritasi la fase di rimbalzo post-lockdown di domanda e prezzi. Per livelli di inflazione come quelli attuali (e prima che le aspettative inflazionistiche si innalzino stabilmente, vedi sotto), l’aumento dei prezzi riflette solitamente un eccesso di domanda sull’offerta. Si può discutere se l’eccesso di domanda sull’offerta abbia natura temporanea, per esempio perché la domanda è gonfiata temporaneamente dal trasferimento di spesa dall’anno scorso (quando, con i lockdown, i risparmi sono aumentati) o permanente (per esempio, perché i tassi di interesse sono troppo bassi). Ne consegue che, se (e sottolineo se) le pressioni inflazionistiche perdurassero, diventerebbe necessario prendere misure per stringere le politiche monetarie e di bilancio al fine di eliminare l’eccesso di domanda sull’offerta. Ma, a livello aggregato, non c’è dubbio che pressioni inflazionistiche persistenti dovrebbero essere affrontate stringendo le politiche macroeconomiche, ossia eliminando le operazioni di quantitative easing, aumentando i tassi di interesse e riducendo, più rapidamente di quanto previsto attualmente, i deficit pubblici. Il secondo è quello di mantenere l’inflazione a livelli tali da portare a una revisione delle aspettative di inflazione, cadendo in un circolo vizioso per cui l’inflazione si prolungherebbe nel tempo anche in assenza di un eccesso della domanda sull’offerta.

  • Una misura giusta ma con tre rischi

    Il tema è anche molto dibattuto in Italia, uno dei pochi paesi europei che non ha un salario minimo. Quindi, niente di stravolgente, ma è comunque un segnale importante che l’Unione, nel suo complesso, ritenga che il salario minimo sia una cosa positiva. Ma il salario minimo è davvero una buona cosa? Il Governatore della Banca d’Italia Visco ha di recente detto di sì “se è ben studiato”. Ma in pratica che problemi sorgono con l’introduzione di un salario minimo? Quello più ovvio è che, ogni qual volta lo stato interviene per evitare un “fallimento di mercato”, non faccia anche peggio. Insomma, se il mercato può fare errori, non si può dare per scontato che lo stato non ne faccia di più grandi! Nel caso specifico, se il salario minimo viene fissato a livelli troppo alti, si corre il rischio di far sparire posti di lavoro a bassa produttività. Una possibile soluzione è quella di rendere il più trasparente possibile la determinazione del salario minimo: insomma, servirebbe un comitato tecnico-scientifico che dia un parere oggettivo. La seconda difficoltà è quella di evitare che, in pratica, salari inferiori al minimo continuino a prevalere in nero. In un paese dove l’evasione fiscale, l’abusivismo edilizio e il mancato rispetto delle norme sul lavoro sono ancora diffuse (per usare un eufemismo), il rischio è piuttosto serio.

  • Per ridurre l'Irpef bisogna tagliare le detrazioni

    Fra l’altro la sua previsione di un forte rimbalzo del Pil nel terzo trimestre è del tutto realistica: come nota Gualtieri, il rimbalzo potrebbe essere un po’ sotto quel 15 per cento che aveva precedentemente indicato, ma dovrebbe comunque essere consistente (nelle mie previsioni almeno l’11 per cento). Un cambiamento nel livello di progressività, se questo è quello che il governo intende ottenere, potrebbe essere quindi raggiunto anche con un numero più limitato di scaglioni e aliquote marginali senza passare al più complesso modello tedesco. La vera questione è se si voglia avere un sistema più progressivo di quello attuale continuando la politica di detassazione dei redditi più bassi, politica seguita negli ultimi anni. Il Conte bis non si è comportato diversamente dai governi precedenti: la politica dei bonus e dei crediti di imposta, spesso a valere sugli anni successivi (riducendo fra l’altro la trasparenza dei conti pubblici), ha infatti ulteriormente complicato il nostro sistema fiscale. Insomma, si dovrebbe tener concettualmente distinto il bilancio “straordinario”, da finanziarsi in deficit con le risorse temporaneamente messe a disposizione dall’Europa, da quello permanente, che dovrebbe comprendere interventi con coperture di lungo periodo. Sembra che questo sia quello che Gualtieri ha in mente quando dice che il taglio dell’IRPEF dovrebbe essere finanziato da una riforma di detrazioni e sussidi ambientali (quella semplificazione cui ho fatto riferimento sopra) e in parte con il contrasto all’evasione. Spero davvero questo sia il caso, ma il rischio che si intendano usare risorse temporanee, e in gran parte prese a prestito, per finanziare interventi permanenti è elevato, almeno sulla base delle opinioni di recente espresse da vari esponenti politici.

  • Il virus della giustizia inefficiente

    Sì, perché un paese dove il sistema giudiziario è inefficiente, dove occorrono anni e anni per ottenere sentenze, non è un paese in cui vi può essere certezza del diritto. Le proposte si concentrano su modifiche chirurgiche quasi esclusivamente relative al codice di procedura civile senza una visione e riflessione più ampia del “servizio giustizia civile” e dell’impatto sull’economia e sull’organizzazione del lavoro nei tribunali. Molti giudici non accettano l’idea che un tribunale sia un’organizzazione complessa che produce un servizio, che la qualità includa la tempestività e che tale tempestività dipenda da come il lavoro è organizzato. Questo richiede non solo addestramento adeguato (obbligatori corsi di management per chi aspira a cariche direttive), ma anche riconoscere una larga autonomia al dirigente dell’ufficio nel creare una squadra che, all’interno del tribunale, gestisca il flusso dei processi al fine di garantirne una efficiente conduzione. Se la velocità con cui sono conclusi i processi non è considerata un parametro rilevante nel valutare il comportamento di un giudice o di un presidente del tribunale, allora la tempestività non sarà mai percepita come un valore. Organizzativamente, una maggiore specializzazione, incrementando le competenze dei tribunali delle imprese e replicandone il modello, nonché l’estensione con gli opportuni adattamenti del rito del lavoro a tutti i giudizi di cognizione con giudice monocratico, porterebbero a maggior celerità e qualità delle decisioni. In conclusione, ridurre i tempi della giustizia è, insieme alla semplificazione burocratica, la più importante riforma che la nostra economia deve affrontare per rilanciarsi, una volta superata la fase immediata dell’emergenza economica.

  • La discontinuità di Draghi

    La prima è che forse solo un personaggio come Mario Draghi poteva dire che non è questo il momento di preoccuparsi del debito pubblico. Tutti sanno che Draghi è perfettamente consapevole delle conseguenze nefaste di un alto debito pubblico; proprio per questo Draghi può dire che al debito ci si penserà dopo, quando sarà finita la guerra contro l’epidemia. Per questo si può permettere di dire che non è questo il momento di dire se è meglio lo stato o il mercato; e che quando l’Europa non funziona, alla salute ci devono pensare i singoli Stati. L’uomo che per tanti anni alla BCE ha contrastato con successo le posizioni dell’establishment tedesco ha una ovvia credibilità quando nega che questo sia stato il caso e fulmina con lo sguardo l’incauto giornalista che aveva fatto la domanda. Fra questi l’annuncio di una nuova richiesta di scostamento di bilancio nella consapevolezza, espressa molto chiaramente, che anche questo intervento, per quanto ingente, non sarà sufficiente. Il motivo per cui si era continuato a usare quel criterio è che i soggetti che avevano beneficiato del primo ristoro erano già noti e quindi questo evitava che si ripetessero i ritardi che tanto hanno pesato sull’efficacia dell’azione del precedente governo e anche sulla sua popolarità. Ma sono state dette un po’ sottovoce, forse per non irritare i partiti che erano anche nella precedente maggioranza, ma forse anche per un’accorta avversione verso forme di ostentazione che stonano con la serietà della situazione che il Paese sta affrontando.

  • Fare i conti con il deficit pubblico

    Non è più così: l’assenza di problemi di liquidità (i tassi di interesse sono ai minimi storici) rendono meno pressante la questione della nostra finanza pubblica. Il DEF prevedeva una crescita del Pil reale del 4,5 per cento e un aumento dei prezzi (deflatore del PIL) dell’1,1 per cento. Le cose sono andate meglio in termini di crescita reale (si può ora ipotizzare una crescita del 6 per cento) e i prezzi hanno accelerato più del previsto (seppure in parte per effetto del costo delle importazioni che non influenzano il deflatore del PIL). Più PIL reale e nominale vuol dire più entrate per lo stato sicché il deficit pubblico quest’anno dovrebbe risultare più basso di quello previsto nel DEF. La bonanza di entrate proseguirebbe, per effetti di trascinamento, nel 2022 (anche ipotizzando un rallentamento della crescita). In assenza di nuovi interventi, il nostro deficit pubblico risulterebbe quindi più basso di quanto previsto nel DEF anche nel 2022. Dico solo che al più rapido ritorno del PIL alla normalità dovrebbe corrispondere anche un sentiero di rientro dal deficit più rapido del previsto. Fra l’altro, nelle sopra citate cifre del deficit non sono comprese le spese che saranno finanziate dai conferimenti a fondo perduto del Recovery Plan che nel 2022 dovrebbero corrispondere a una ventina di miliardi (un altro punto abbondante di Pil).

  • Pensioni, la via da cercare

    Questo graduale ritorno al passato è aspramente criticato da chi, dalla Lega ai sindacati, chiede un radicale cambiamento del regime pensionistico volto a evitare il sostanziale aumento dell’età di pensionamento rispetto ai livelli attuali. Chi vuole evitare un aumento dell’età di pensionamento lo fa sulla base di un argomento molto intuitivo: non è giusto che si obblighino le persone a lavorare oltre a una certa età. E ciò che è ingiusto e innaturale lo si decide in base all’età di pensionamento nel passato. Questo significa che, senza un aumento dell’età di pensionamento, i “giovani” dovrebbero rinunciare a quote crescenti del loro reddito per passarlo al crescente numero di “anziani”. Questo ragionamento può sembrare semplicistico: anche in presenza delle citate forze demografiche, si potrebbe evitare un aumento dell’età di pensionamento se i “giovani” aumentassero la loro produttività (cioè il prodotto per lavoratore), se più persone in età lavorativa trovassero lavoro rispetto al presente o se aumentassero gli immigrati regolari. Un recente lavoro di Simone Ghislandi e Benedetta Scotti mostra che l’aspettativa di vita del 20 per cento più ricco degli uomini è di 3 anni maggiore di quella del 20 per cento più povero e che tale differenza sta aumentando (le differenze sono inferiori per le donne). Per questo avrebbe senso cercare strade di riforma che tengano conto di queste differenze nell’aspettative di vita.

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