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  • L’accentramento della spesa della Pubblica Amministrazione

    I dati disponibili suggeriscono che la spesa che viene accentrata sia ancora limitata e che, conseguentemente, i risparmi relativi ad acquisti decentrati abbiano ancora spazi di crescita. Le informazioni esistenti su questi acquisti sono però estremamente scarse, soprattutto riguardo all’attività degli aggregatori regionali e comunali, il che rende impossibile valutare appieno gli effetti della riforma degli acquisti introdotta nel 2014. Escludendo gli acquisti dei cosiddetti prodotti “non market” (per esempio, acquisti basati su convenzioni non di mercato, come i compensi per i medici di base), si tratta di acquisti cha ammontavano nel 2022 a 118 miliardi di euro, ossia il 12 per cento della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito. Dalla riforma del 2014, questa spesa è aumentata un po’ più rapidamente del Pil (anche escludendo il periodo del Covid in cui gli acquisti di prodotti medici erano cresciuti enormemente) risultando nel 2023 (dati stimati) più alta che nel 2014, seppure di poco (Fig. 1). Tuttavia, la spesa accentrata è bassa non solo rispetto alla spesa totale per consumi intermedi, ma anche rispetto alla spesa presidiata, ossia alla spesa che potenzialmente potrebbe essere coperta, anche se nel tempo l’accentrato è cresciuto rispetto al presidiato (Fig. 3). Questo però non significa necessariamente che la spesa non sia accentrata, perché Consip è solo uno dei tanti soggetti aggregatori: gli acquisti accentrati potrebbero essere realizzati da soggetti di livello inferiore. Appare comunque sorprendente che, a quasi dieci anni dalla riforma, il Sistema degli aggregatori e il Ministero dell'Economia e delle Finanze, che è responsabile per l’intero settore, non pubblichi dati coerenti tra i diversi soggetti, che consentano di valutare la percentuale degli acquisti che viene effettivamente accentrata.

  • Il nuovo regolamento europeo sull’IA: cosa cerca di fare e cosa fa

    A fronte di una tecnologia sfuggente e in rapidissima evoluzione, il legislatore ha prodotto un testo legislativo lungo, tortuoso, di difficilissima interpretazione, che assomiglia più a una legge delega che a un regolamento; un testo pieno di incertezze e ambiguità. Dovranno essere istituiti anche un sistema di risk management e uno di quality management, che dovranno essere attivi per tutto il periodo di utilizzo del sistema ed essere aggiornati periodicamente. Monitoraggio e attività post-vendita Una volta che il prodotto viene immesso sul mercato, i produttori dei sistemi di IA ad alto rischio dovranno elaborare un programma di monitoraggio post-vendita proporzionato ai rischi del sistema immesso. I produttori di modelli di GPAI che presentano un potenziale rischio sistemico dovranno eseguire tutti questi compiti, e in più dovranno porre un’attenzione particolare alle potenziali esternalità negative che potrebbero ricadere sul mercato unico; sarà richiesto inoltre un maggior livello di cybersecurity del sistema. Un commento In un’audizione alla Camera dei Deputati del 14 febbraio scorso l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, ha detto che il rischio dell’AI Act è quello di “fare il codice della strada prima di avere le automobili e la strada”. Il rinvio ad atti successivi può essere vista come una intelligente scelta di flessibilità a fronte di una tecnologia che evolve molto rapidamente, ma rivela anche una certa difficoltà a incapsulare una materia tanto complessa in un unico atto normativo. Il fatto è che per dare attuazione a questi principi, a fronte di una tecnologia sfuggente e in rapida evoluzione, il legislatore ha fatto ricorso ad un testo legislativo lungo, tortuoso, di difficilissima interpretazione, che assomiglia più a una legge delega che a un regolamento.

  • Quanto è autentico il calo dell’evasione fiscale nel 2020?

    L’importo evaso (ossia il divario riportato tra imposte versate e gettito potenziale o tax gap) è sceso di 13 miliardi di cui però la gran parte è dovuta alle caratteristiche degli sviluppi economici nel 2020, l’anno del Covid, più che a un cambiamento nei comportamenti di famiglie e imprese. Il tax gap , rimasto per anni vicino ai 110 miliardi di euro, è sceso intorno ai 100 miliardi nel 2018 e 2019, soprattutto a seguito dell’obbligo di fatturazione elettronica e di altre misure che hanno ridotto l’evasione dell’IVA. La propensione all’evasione è data dal rapporto percentuale tra il tax gap e il gettito potenziale: anche questa, dopo la discesa nel 2018-19, cala ulteriormente nel 2020, anche se in modo meno rapido del tax gap , raggiungendo il minimo storico del 17,3 per cento. Questo tende a ridurre il tax gap a parità di propensione all’evasione; del cambiamento nelle abitudini di consumo delle famiglie: a causa delle misure di contenimento del Covid-19 si è ridotta notevolmente la spesa per servizi, caratterizzata tipicamente da aliquote inferiori e da una maggiore propensione all’evasione. In questo caso il tax gap sarebbe stato di 85,4 miliardi, nettamente superiore alla stima della Relazione per il 2020 (76 miliardi di sole entrate tributarie) e solo di 1,5 miliardi sotto il tax gap del 2019 (86,9 miliardi). Si noti che anche buona parte della riduzione della propensione al gap , pari a un punto percentuale rispetto al 2019 (da 18,3 a 17,3 per cento), è riconducibile probabilmente al mutamento nella composizione dei consumi verso prodotti dove l’evasione tende a essere minore (si veda il punto (1) sopra). Il limitato successo ottenuto nel 2020 nel combattere l’evasione è confermato dal citato aumento della propensione all’evasione per l’Irpef degli autonomi, l’Ires e le accise sui prodotti energetici, anche se è normale che in periodi di forte recessione l’evasione tenda ad aumentare, come “valvola di sfogo” rispetto alle difficoltà economiche.

  • Titoli di Stato per il settore retail: quanto sono cresciuti e a che costo

    L’incremento è stato trainato in gran parte dalle emissioni di nuovi titoli rivolti principalmente agli investitori “retail” (essenzialmente famiglie). Per incentivare l’acquisto di questi titoli, lo Stato ha offerto rendimenti maggiori rispetto a quelli dei titoli “tradizionali”. Il maggior rendimento comporterà, per la durata delle quindici emissioni di titoli “retail” realizzate dal 2016 e ancora in circolazione (che ammontano al 6,5 per cento dei titoli di Stato in essere), un maggior costo (cumulato) di 12,7 miliardi di euro. Nel 2023 la percentuale dedicata agli investitori retail è aumentata dal 3,9 per cento del 2019 al 5,6 per cento, grazie al 3,2 per cento di BTP Italia, lo 0,9 per cento di BTP Futura e all’1,5 per cento di BTP Valore. Questa è quindi la cifra che lo Stato italiano sta spendendo per incentivare la detenzione di titoli di Stato da parte del settore retail. Appendice Per il confronto fra i rendimenti abbiamo considerando il rendimento all’emissione di BTP Italia, BTP Futura e BTP Valore e quello di BTP a tasso fisso acquistabili sul mercato secondario nello stesso giorno di emissione del titolo retail. Gli acquisti netti sono stati interrotti dal 1° luglio 2022: da questa data a febbraio 2023 i titoli in scadenza sono stati completamente rimpiazzati; da marzo a giugno 2023 il reinvestimento è stato solo parziale; successivamente il reinvestimento è stato sospeso; il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), iniziato a marzo 2020.

  • La riscossione dei tributi municipali

    Esiste anche una forte differenziazione territoriale, con i comuni più efficienti (che incassano oltre il 90 per cento dei propri tributi) che si collocano quasi esclusivamente nel Nord del Paese. La scarsa capacità di riscossione dei tributi municipali è fonte di preoccupazione perché alimenta la fragilità delle finanze locali, riduce i servizi offerti ai cittadini e impedisce di costruire schemi perequativi appropriati che diventeranno sempre più importanti con l’avvio dell’autonomia differenziata. Occorre intervenire sia in termini di efficientamento amministrativo degli uffici comunali, che di condivisione di banche dati e di rapporti con l’Agenzia delle entrate che dovrebbe in prima battuta perseguire i renitenti al pagamento delle imposte municipali. Come anche ben noto, il dettato costituzionale è in realtà in buona parte disatteso con una quota crescente delle risorse locali che derivano invece da trasferimenti da parte dello Stato centrale piuttosto che da tributi propri. È il comune, cioè, che applicando la legge ed esercitando la propria autonomia di imposizione (per esempio nella determinazione delle aliquote o delle esenzioni), definisce il credito dovuto all’amministrazione per ciascuno dei tributi di sua competenza, un processo che dal punto di vista giuridico viene definito “accertamento” dell’imposta. In particolare, il 10 per cento dei comuni italiani meno efficienti riscuote meno del 55 per cento dei tributi accertati e il 25 per cento dei meno efficienti incassa meno del 70 per cento; viceversa, il 10 per cento dei comuni italiani più efficienti incassa oltre il 95 per cento dei propri tributi. è stata l’obbligo per i comuni di predisporre l’accantonamento in un fondo, il Fondo Crediti di Dubbia Esigibilità (FCDE) delle entrate la cui esigibilità è dubbia al fine di evitare che una parte delle spese comunali vengano finanziate con entrate che risultano poi non esigibili.

  • Come procede la spending review in Italia?

    Misure più impattanti sono state invece ottenute rimuovendo misure espansive introdotte prima del 2020 (come il Reddito di cittadinanza), bloccando il Superbonus 110%, che aveva gonfiato la spesa per sussidi all’edilizia fuori proporzione, e limitando l’aumento delle spese (per esempio per pensioni e sanità) al di sotto del tasso di inflazione. In altri termini, la vera revisione della spesa è consistita nel taglio di recenti aumenti di spesa o è stata attuata attraverso l’inflazione, con l’implicazione di tagli lineari per tutti gli enti di uno stesso settore (es. ospedali) coinvolti, indipendentemente dal loro grado di efficienza. Anche superata la crisi, il suo livello nel 2023 era però leggermente più alto che nel 2014 (42,9 per cento contro il 42,7 per cento per la spesa corrente e 49,2 contro 46,3 per la spesa primaria totale; Fig. 1). Passi essenziali di questi processi sono la divisione della spesa pubblica in diversi programmi di spesa, l’individuazione per ogni programma di indicatori per valutare se gli obiettivi del programma sono stati raggiunti e la revisione periodica di questi programmi attraverso, appunto, processi di spending review . L’obiettivo non è necessariamente il taglio della spesa totale: se la spesa deve essere tagliata dev’essere determinato in base a fattori macroeconomici (la sostenibilità delle finanze pubbliche, data una pressione fiscale desiderata) e la necessità di avere politiche di sostegno o di contenimento della domanda aggregata. In particolare, negli ultimi anni, le leggi di bilancio hanno solitamente incluso una sezione di revisione della spesa che includeva tagli di vario genere rispetto al quadro a legislazione vigente delle spese dell’amministrazione centrale e degli enti territoriali. La legge di bilancio 2019 non conteneva nuovi tagli di spesa, forse come riflesso dell’approccio del governo giallo-verde formatosi a maggio del 2018 che, come visione generale, considerava i tagli di spesa controproducenti per la crescita economica.

  • Verso il G7 sull’Intelligenza Artificiale

    Non è un gran merito essere dei bravissimi regolatori se poi il campo di gioco è occupato da altri; può anche essere un demerito se la regolazione, per quanto ben congegnata, ha l’effetto di scoraggiare i player che dovrebbero giocare nella propria metà del campo. Le auto più recenti utilizzano sistemi di “computer vision” che consentono di mantenere l’auto in carreggiata o di frenare di fronte a un pedone in caso di distrazione del guidatore o di emergenza. Sul sito di Leonardo-Spazio, si legge: “Di recente il concetto di digital twin sta assumendo nuovi significati: un modello digitale olistico di un sistema reale, ovvero una sua rappresentazione virtuale che ne replica lo stato e i relativi cambiamenti grazie all’utilizzo combinato di dati, simulazioni e intelligenza artificiale. Sempre in India, una collaborazione con United Phosphorous (UPL) ha portato alla creazione di una app di previsione dei rischi di attacco da parte di parassiti; l’IA indica in anticipo il rischio di attacchi da parte di parassiti comuni, consentendo così ai coltivatori di prendere misure preventive. L’esempio forse più importante è quello di AlphaFold, che stando a ciò che si legge sul sito, ha risolto il problema di come trovare la struttura di qualcosa come 200 milioni di diverse proteine presenti nel nostro organismo. Sistemi di tutoraggio intelligenti che forniscono feedback personalizzati agli studenti (Carnegie Learning), di valutazione automatica (Turnitin), di rilevamento della disattenzione, di personalizzazione dei percorsi di apprendimento, di suggerimento di risorse educative (IBM Watson Discovery), di learning analytics ecc. [27] Previsione di insuccessi accademici degli studenti . Un esempio di questo è l’applicazione di modelli di IA per la previsione di insuccessi accademici degli studenti, con l’obiettivo di poter fornire strategie di supporto personalizzate (si veda lo studio di Vieira Martins et al. del 2021).

  • Le imposte patrimoniali in Europa

    E nonostante la distribuzione della ricchezza sia profondamente diseguale, con il 10 per cento delle famiglie più ricche che detengono in Italia sei volte il patrimonio complessivo del 50 per cento di quelle più povere, è comunque più egalitaria che nei principali Paesi europei. A fronte di questa più ampia base imponibile, le imposte patrimoniali in Italia producono un gettito pari al 2,5 per cento del Pil, una quota che la pone in una posizione intermedia in Europa, minore che in Francia, Belgio e Regno Unito, ma maggiore che in Germania e Olanda. Dove l’Italia invece differisce nettamente dai principali Paesi europei è il ruolo molto limitato delle imposte sulla successione, un elemento che appare anomalo alla luce delle tendenze recenti a una maggiore concentrazione della ricchezza anche nel nostro Paese. A ulteriore riprova di questa relativa maggior uguaglianza della distribuzione del patrimonio in Italia rispetto ad altri Paesi, la Fig. 2 riporta il rapporto tra il patrimonio posseduto dal 10 per cento (e dal 5 per cento) più ricco delle famiglie e quello posseduto dal 50 per cento di quelle più povere. La disuguaglianza in Italia è enorme, con, per esempio, il 10 per cento delle famiglie più ricche che possiedono oltre la metà (il 55 per cento) della ricchezza privata nazionale, mentre il 50 per cento delle famiglie più povere non arriva a un decimo (il 9 per cento, per essere precisi). Come si vede dalla figura, se il 10 per cento delle famiglie più ricche ha in Italia 6 volte il patrimonio del 50 per cento delle famiglie più povere, in Germania le famiglie più ricche hanno 16 volte il patrimonio di quelle più povere. In media europea, le imposte patrimoniali coprono una quota inferiore (il 4,5 per cento circa del totale delle entrate), con, di nuovo, l’eccezione rappresentata dalle imposte di successione, che in Europa coprono lo 0,42 per cento del totale delle entrate e in Italia solo lo 0,11 per cento.

  • Come viene finanziata la sanità tra le Regioni?

    Per quanto riguarda le fonti di finanziamento, dal 2000 al 2023, la quota dei trasferimenti statali sul totale è aumentata continuamente a scapito delle entrate proprie delle Regioni. Nel 2023 la voce di finanziamento più importante per le Regioni a statuto ordinario è stata la compartecipazione al gettito IVA, per un totale di 76 miliardi di euro. Il FSNS si compone però di diverse parti: il fabbisogno “indistinto” è la parte preponderante; a questo si aggiungono una pluralità di “quote vincolate” per una moltitudine di obiettivi (prevenzione e cura della fibrosi cistica, medicina penitenziaria, farmaci innovativi, eccetera); vi è infine una “quota premiale”. La voce di finanziamento più significativa per le RSO è rappresentata dalla compartecipazione al gettito IVA, identificata nella figura come “Decreto legislativo 56/2000”, che ammonta nel 2023 a 76 miliardi di euro, pari al 36% del totale delle entrate destinante alla sanità e che di fatto rappresenta un trasferimento erariale. La causa di questa unicità della Regione Sicilia è da ricondursi a due problemi fra di loro, almeno parzialmente, collegati che nell’avvicendarsi di procedimenti e ricorsi legali, cioè delle questioni di legittimità sollevate presso la Corte costituzionale, hanno cristallizzato la situazione a com’era nel 2009. Questa compensazione in pratica implica, oltre che l’attribuzione di 200 milioni di euro nel 2022, l’attribuzione di 300 milioni di euro a partire dal 2023 da incrementare di 50 milioni all’anno fino al 2029, raggiungendo l’importo massimo di 630 milioni di euro dal 2030 in poi. Da questo grafico emergono due aspetti: i) il finanziamento sanitario pro capite è in continuo aumento in termini assoluti ed è passato da 1.156 euro nel 2000 a 2.113 euro nel 2023; ii) il coefficiente di variazione tra le Regioni è decrescente nel tempo ed è passato dallo 0,074 del 2000 allo 0,020 nel 2023 (meno 73%).

  • La questione aperta delle liste d’attesa

    Pur in assenza di informazioni precise, i segnali che arrivano da pazienti e medici raccontano che, in Italia, il problema delle liste d’attesa è in continuo peggioramento, soprattutto a seguito della pandemia di Covid-19, che ha aggravato le criticità preesistenti del sistema sanitario. I nuovi provvedimenti del governo italiano prevedono, fra le altre cose, l’incremento delle risorse destinate al personale sanitario (tramite l’abrogazione del tetto di spesa per il personale sanitario e l’introduzione di una normativa fiscale più favorevole per le prestazioni aggiuntive del personale sanitario) e l’introduzione di tempi massimi d’attesa. I due provvedimenti sono: il decreto-legge n. 73 del 7 giugno 2024, [1] contenente misure urgenti per la riduzione delle liste di attesa delle prestazioni sanitarie emanato proprio prima delle elezioni europee; un disegno di legge, che dovrà fare il suo iter parlamentare. Inoltre, si prevede anche di inserire il rispetto dei tempi massimi di attesa per l’erogazione delle prestazioni sanitarie fra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), come criterio per l’attribuzione di forme premiali in aggiunta alle risorse ordinarie per il finanziamento del SSN previste dalla legislazione vigente. Questa piattaforma garantirà interoperabilità con le piattaforme delle singole regioni e province autonome, in linea con quanto stabilito anche dall’obiettivo del PNRR “Potenziamento del Portale della Trasparenza”, e consentirà di monitorare le agende e i tempi di attesa, anche con l’aiuto di verifiche in capo alla stessa Agenas. Questo avrà il compito di verificare l’erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie e il corretto funzionamento del sistema di gestione delle liste di attesa. L’OCSE sottolinea il ruolo di diversi fattori di domanda e di offerta di servizi sanitari nel determinare la lunghezza delle liste e mette in luce la differenza degli approcci dei vari Paesi in termini di misure di contenimento del fenomeno.

  • Il finanziamento del debito pubblico italiano: il ruolo delle istituzioni europee

    Con la riduzione progressiva di queste risorse a causa del processo di Quantitative Tightening, occorrerà ricorrere sempre di più al settore privato nazionale e internazionale per il finanziamento del debito italiano. Si tratta di un cambiamento importante per le nostre finanze, dato che a fine 2023 più del 29 per cento del debito lordo italiano era detenuto da queste istituzioni. Come misura di quanto l’afflusso di fondi europei sia stato importante, la Fig. 1 riporta la differenza, in percentuale al Pil, fra l’aumento del debito pubblico lordo e i finanziamenti europei dalle tre sopracitate fonti. La misura, quindi, indica quanto dell’aumento del debito lordo sia stato finanziato (o più che finanziato) dalle istituzioni europee evitando, quindi, il ricorso al settore privato nazionale e internazionale. La figura mostra come nel biennio 2020-2021 il settore pubblico italiano abbia ricevuto dalle istituzioni europee più di quanto fosse necessario per coprire le proprie esigenze di indebitamento, riuscendo quindi a rimborsare il settore privato per importi rispettivamente pari al 2,5 per cento e 3,6 per cento del Pil nel 2020 e 2021. Lo spread si è anzi ridotto negli ultimi sei mesi, ma questo è avvenuto nel contesto di un generale ottimismo dei mercati finanziari mondiali rispetto all’attesa riduzione dei tassi di interesse. In assenza di informazioni specifiche sulla scadenza dei titoli acquistati in passato, si è assunto che il decumulo di titoli prosegua fino al 2027 alla stessa velocità (in miliardi) di quella media calcolata fra luglio 2023 e aprile 2024 (ultimo mese per cui i dati sono disponibili).

  • Perderemo le prossime rate del PNRR?

    Più della metà dei 194,4 miliardi di euro destinati all’Italia sono già stati ricevuti, ma ricevere il resto richiederà completare progetti da qui a metà 2026, compito che sembrerebbe non facile visto che la loro realizzazione sta procedendo lentamente. Nelle recenti relazioni sullo stato di avanzamento dei progetti del PNRR redatte dalla Corte dei Conti si evidenzia il ritardo nella realizzazione dei lavori pubblici che ci siamo impegnati a compiere. Il problema è rilevante, non solo per il fatto che i benefici connessi agli investimenti tarderanno ad arrivare, ma anche perché l’erogazione delle successive rate del PNRR dipende dal raggiungimento degli obiettivi che il governo ha in precedenza concordato con l’Unione europea. Anche le istituzioni europee hanno notato che, sebbene l’Italia stia procedendo con l’implementazione del programma, il rischio che si verifichino dei ritardi nelle prossime scadenze è sempre maggiore, vista la lentezza nella spesa relativa agli obiettivi ancora da raggiungere. Recuperare questi ritardi sembra più difficile per quelli che riguardano la realizzazione di investimenti pubblici, visto che tradizionalmente è per queste azioni che l’amministrazione pubblica italiana è stata in passato particolarmente lenta. Uno sguardo agli investimenti La Tav. 2 riporta il numero di progetti e l’ammontare in miliardi degli investimenti ancora da finalizzare per stato di avanzamento e scadenze, considerando, per semplicità, solo quelli che si riferiscono a investimenti in infrastrutture o in ammodernamenti ed efficientamenti delle stesse, quando superiori a 500 milioni. L’erogazione delle rate è successiva alla valutazione, da parte della Commissione Europea, del raggiungimento di specifici “obiettivi” (azioni misurate da risultati quantitativi ottenuti, inclusa la realizzazione di certe opere) e “traguardi” (azioni principalmente relative all’approvazione di provvedimenti) stabiliti per ogni semestre (vedi Regolamento (UE) 2021/241 ).

  • Intelligenza Artificiale, cosa fa davvero

    Di seguito, ci concentriamo invece su ciò che l’IA fa davvero già oggi e forniamo un elenco di alcuni casi di utilizzo effettivo più interessanti nei diversi settori produttivi (agricoltura, industria e servizi finanziari), nelle pubbliche amministrazioni, nella sanità e nella giustizia. Questa piattaforma combina algoritmi avanzati di machine learning per valutare con precisione le opportunità e i rischi a livello di appezzamento di terreno, consentendo agli agricoltori di prendere decisioni basate sui dati e di mitigare efficacemente le perdite potenziali. Tali sistemi hanno consentito all’azienda di ridurre del 20 per cento l’errore di previsione nella richiesta dei propri prodotti e di ridurre l’ammontare di mancate vendite del 30 per cento. Lo sblocco di una carta (dopo che per esempio è stata bloccata per un sospetto di frode) prevede normalmente controlli serrati e diverse attività manuali da parte degli operatori che possono richiedere tempi di elaborazione molto lunghi. Queste consentono di fornire agli utenti anticipazioni e possibili realizzazioni dell’esito di un contenzioso o di calcolare la probabilità di successo di una delle parti in causa. Predictice, una startup creata nel 2016 da esperti di diritto e da informatici, ha sviluppato un sistema di analisi dei documenti che funge da supporto agli addetti ai lavori ed è stato utilizzato presso le corti di appello di Rennes e Douai. “DoNotPay” è una startup americana, molto controversa, che si prefigge di difendere i consumatori fornendo assistenza legale automatizzata e a basso costo per questioni come il reclamo di multe per il traffico, la richiesta di rimborsi e la risoluzione di controversie con le imprese.

  • I tempi della giustizia civile si sono ridotti grazie al PNRR?

    Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si propone di ridurre, entro giugno 2026: (i) del 40% la durata media di tali processi, rispetto al 2019; e (ii) del 90% il numero dei processi pendenti a fine 2022 (se originati dopo il 2016 per i Tribunali e dopo il 2017 per le Corti d’Appello). Tuttavia, finora il calo nella durata osservato tra il 2019 e il 2023 è stato solo del 17% e se la riduzione procedesse allo stesso passo nel 2024-2025, il calo complessivo sarebbe solo del 24%, ben al di sotto del target del 40%. In questa nota ci concentriamo solo sui due obiettivi sopra riportati (riduzione dei tempi dei processi e riduzione dei casi pendenti) poiché, secondo i dati Ministeriali, gli obiettivi sulla riduzione degli arretrati sembrano essere già stati raggiunti (a livello di target intermedi) o in fase di raggiungimento. I tempi della giustizia civile italiana secondo il CEPEJ: 2010-2020 Prima di commentare il progresso fatto finora nel raggiungere gli obiettivi del PNRR, è utile osservare cosa è accaduto in passato e confrontare i tempi della giustizia italiana con quelli degli altri principali Paesi europei. Se la riduzione nella durata dei processi proseguisse nel 2024 e 2025 alla stessa velocità media dei quattro anni precedenti, nel 2025 la durata si sarebbe ridotta del 24% rispetto al 2019, ben al di sotto dell’obiettivo del PNRR. Assumendo che la stessa tendenza osservata per la definizione utilizzata dal Ministero sia valida anche per la definizione del CEPEJ (Fig. 2), nel 2023 la durata complessiva nella definizione CEPEJ sarebbe di 2.178 giorni, ossia circa 6 anni, ancora ben al di sopra di quelle sopra riportate per Francia, Spagna e Germania. Gli andamenti sono invece più favorevoli riguardo alla riduzione dei pendenti: per quelli iscritti in Tribunale tra il 2017 e il 2022 il calo è stato del 50% nel corso del 2023, mentre per quelli iscritti in Corte d’Appello tra il 2018 e il 2022 il calo è stato del 43,4%.

  • La (buona) salute degli italiani

    A sintesi di questi dati, l’aspettativa di vita è aumentata nel 2023 fino a 83,1 anni dai 79,6 anni nel 2000. Per esempio, nel 1951 il numero di decessi dei neonati sotto il primo anno di vita è stato pari a 57.348; il numero di decessi totale (considerando cioè tutte le fasce d’età) è stato pari invece a 481.911. Come emerge dalla Figura, la percentuale dei decessi dei neonati sul totale in Italia è diminuita enormemente negli anni: questo valore è sceso da 12% nel 1951 a 1,1% nel 1985 e a 0,2% del 2019, il che segnala gli enormi progressi nella qualità delle cure materno-infantili, oltre che delle condizioni igienico-sanitarie. Fra il 1951 e il 2019 il numero di morti totale (cioè senza distinzione di età) di questa macrocategoria è diminuito, in valori assoluti, di quasi 80 mila unità; rapportando il numero di decessi per 100.000 abitanti, la mortalità è diminuita di 185 casi. Il numero di morti totale attribuibile a queste cause di morte è aumentato negli anni: il numero di morti per 100.000 abitanti è aumentato dai 644 del 1951, a 850 nel 1985 fino ai 944 del 2019. Completamente opposta era invece la situazione nel 1951: 617 erano i morti nella fascia dei neonati, 1.049 nella fascia d’età fra 1 e 4 anni e 227 fra i 5 e i 9 anni; solo 7 erano invece i morti della fascia 80-84 anni, mentre solo 4 sono stati i morti nella fascia degli ultra-ottantacinquenni. Stupisce in particolare il dato degli ultra-ottantenni: rispetto al 1951 il numero di decessi è diminuito di tremila unità per la fascia d’età compresa tra gli 80 e 84 anni e di ottomila unità per chi ha più di ottantacinque anni.

  • La riforma infinita della PA

    Il costo e la complessità della burocrazia per cittadini e imprese uniti a politiche di reclutamento e di carriera del personale pubblico che faticano a favorire il merito individuale sono problemi noti nella Pubblica Amministrazione italiana e spesso richiamati nel dibattito sulle difficoltà di crescita economica del Paese. Non è un caso che la PA sia stata oggetto di numerose riforme, anche nel recente passato, e che sia oggi al centro di una delle riforme previste dal PNRR. La riforma della PA nel PNRR La riforma della PA, una delle 66 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è una riforma di carattere “orizzontale”, in quanto trasversale a tutte le missioni del Piano. La piattaforma, che prevede anche un repository comune dei curricula, è accompagnata dalla stesura di procedute volte all’inserimento di personale tecnico e specializzato per l’attuazione dei progetti del PNRR; una task force per la digitalizzazione e il monitoraggio (734,2 milioni di euro). Saranno offerti dei corsi mirati ad aumentare le competenze del personale, allo scopo di avere un crescente livello di specializzazione dal punto di vista tecnico ma anche organizzativo e di governance. Il costo del lavoro pubblico La diminuzione dei dipendenti pubblici rispetto al totale della forza lavoro si rispecchia anche in una diminuzione del costo del lavoro del pubblico impiego in rapporto al Pil. L’ultimo dato, riferito al 2022, colloca la spesa per i dipendenti pubblici al 9,5% del Pil (Fig. 4). Il personale comincia quindi ad aumentare più consistentemente dal 2019, ma è con la pandemia che, nel 2020, si tocca un picco nel costo del lavoro delle PA, anche se più a causa della forte contrazione del Pil che dell’aumento dell’organico (solo di circa 45 mila unità dal 2018).

  • Quanto sarà difficile per l’Italia rispettare le nuove regole europee sui conti pubblici?

    Nel periodo 2025-2027 sarebbe necessario non confermare i tagli temporanei di contributi e imposte esistenti nel 2024 (o prendere misure equivalenti per 15 miliardi), mantenendo la spesa corrente primaria reale pro capite in leggera crescita (0,2 per cento all’anno). Cosa comporta raggiungere questi obiettivi per le politiche di tassazione e spesa del nostro Paese? Prima di rispondere a questa domanda, sono utili due chiarimenti: secondo le regole europee la velocità di aggiustamento richiesta è espressa in termini di riduzione del deficit strutturale o primario. In questo quadro tendenziale, nel contesto di una crescita del Pil reale in media dell’1,1 percento l’anno, il deficit scenderebbe di oltre 0,5 per cento del Pil all’anno, dal 4,3 per cento nel 2024 al 2,1 per cento nel 2027. Nel nostro quadro “programmatico” (Tav. 2), la spesa primaria viene tenuta un po’ più alta che nel tendenziale, in modo tale che il deficit scenda di ½ punto di Pil all’anno nel 2025-27. Se il governo preferisse invece rendere strutturali il taglio di contributi e Irpef la spesa primaria corrente reale pro capite dovrebbe ridursi nel triennio a un tasso annuale medio del -0,33 per cento (-1,1 per cento per quella primaria reale complessiva pro capite). L’aggiustamento continuerebbe sul lato della spesa con un calo della spesa primaria di 0,25 punti percentuali del Pil nel 2028-29 e di 0,1 nel 2030, in linea col miglioramento richiesto dalle regole europee, fino al raggiungimento nel 2030 di un deficit dell’1,5 per cento del Pil e un avanzo primario del 2,8 per cento. Per semplicità si ipotizza che questi aumenti di spesa non comportino aumenti del Pil. Se questo avvenisse, il quadro di finanza pubblica risulterebbe leggermente migliore di quello incluso nelle tavole in termini di livelli di deficit e debito.

  • Salute della popolazione, i trend globali

    La tesi che vi si sostiene è che la distruzione di biodiversità, in combinato disposto con il riscaldamento globale, sta minando le basi della vita nella biosfera e mette a rischio lo stato di salute di tutti gli esseri viventi, inclusi gli esseri umani. Inoltre, è crollato il tasso di analfabetismo e si è ridotta al solo 10 per cento (dal 60 per cento del 1950) la quota della popolazione che vive in condizioni di povertà assoluta. Vi fu poi la “peste di Giustiniano” (peste bubbonica) nel 541-549, con un numero di morti di quasi 100 milioni di persone; si stima che morì quasi il 60 per cento della popolazione globale del tempo. Nel 1846-60 l’epidemia di colera fece più di 1 milione di morti nel mondo, seguita nel 1855 fino al 1960 da un’altra ondata di peste bubbonica che uccise circa 15 milioni di persone. Il Covid-19 è la malattia recente che ha prodotto il maggior numero di morti: secondo le statistiche ufficiali dell’OMS, fra il 2019 e aprile 2024 i decessi sono stati poco più di 7 milioni (anche se alcuni, anche all’interno dell’OMS, hanno dichiarato che il numero vero è ben più alto). Dalla figura emerge come la situazione sia migliorata nel tempo: il tasso di mortalità infantile globale è passato infatti dal 44 per cento (!) circa del 1800 all’8 per cento del 2000; nel corso di questi ultimi due decenni è sceso ulteriormente al 3,7 per cento. Il motivo è che la popolazione italiana è più anziana della media mondiale che è presa in considerazione dalla OMS. I decessi in Italia avvengono mediamente in età più avanzate che nella media mondiale e per l’OMS quelle età hanno un peso minore di quello che hanno in Italia.

  • Autonomia differenziata, il rischio dello Stato arlecchino

    La ragione di fondo per la quale alcune regioni del Nord hanno chiesto l’autonomia è il desiderio di mantenere sul proprio territorio una parte maggiore delle risorse che da quel territorio originano. Si pensi per esempio alle vicende cui è sottoposto il Servizio sanitario nazionale, che alimenta quella che è a tutt’oggi di gran lunga la principale voce di spesa delle regioni. Il rischio, dunque, è quello di rendere ancora più confusi e oscuri i criteri di allocazione delle risorse, rendendo più difficile il giudizio dei cittadini e dunque l’esercizio della democrazia. È vero che questo è un rischio che si corre anche con un regionalismo simmetrico, anziché differenziato, tuttavia è più probabile che si manifesti in un contesto di differenziazione; una confusione normativa . Il che sembra configurare il peggiore dei mondi possibili, perché difficilmente i rappresentanti della regione con un eccesso di risorse, quando partecipano alla commissione, possono farsi portatori di una proposta che sottrae risorse alla propria regione. Di essa si dice che si tratta di una “Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali, disciplinata dall’intesa medesima”, ossia dall’intesa fra Stato e regione che deve definire una proposta preliminare che deve poi essere sottoposta al Consiglio dei ministri e infine alle Camere. Un secondo aspetto che lascia molto perplessi è che, al fine di salvaguardare “l’unità giuridica o economica” della Repubblica nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, viene messo in capo al solo Presidente del Consiglio dei ministri il potere di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie” (art.

  • I regimi di tutela nel settore del gas e dell’energia elettrica

    Il fatto significativo è che molti clienti hanno cambiato fornitore, ma non hanno fatto ritorno ai regimi di tutela, rimanendo nel libero mercato: nel 2023, il 20,3% dei clienti domestici ha cambiato fornitore di energia elettrica, mentre il 17% ha fatto lo stesso nel settore del gas. Inoltre, vi è evidenza che nei paesi senza prezzi amministrati i tassi di switching sono più alti rispetto ai paesi che, accanto alle offerte sul libero mercato, dispongono di una offerta standard definita dal regolatore o dal governo. In realtà, non tutte le offerte del libero mercato sono direttamente comparabili ai prezzi di tutela: le offerte sul libero mercato presentano molti elementi di differenziazione che non sempre rendono possibile un confronto diretto con la tutela. In particolare, i consumatori – sia nel caso del gas, sia in quello dell’energia elettrica – sembrano prediligere in maggioranza contratti a prezzo fisso (che, rispetto a quelli a prezzo variabile come la tutela, contengono una sorta di opzione finanziaria contro gli incrementi repentini delle quotazioni della materia prima). Inoltre, i consumatori spesso sottoscrivono contratti con componenti aggiuntive di servizio, quali la garanzia di energia 100% green, servizi nel campo dell’efficienza energetica o programmi di fidelizzazione, che ovviamente distinguono queste offerte da quelle prive di tali caratteristiche (come la tutela). Anzi, si è verificato il contrario: nel corso degli anni i consumatori hanno abbandonato i regimi di tutela, con un tasso di uscita superiore di almeno un ordine di grandezza a quello dei rientri. Il caso del gas La struttura del mercato Prima della liberalizzazione del mercato del gas, regolata dal Decreto Letta del 2000, la vendita del gas ai piccoli clienti era riservata ai gestori delle reti di distribuzione locale, ai tempi circa 800 imprese (oggi meno di 200).

  • Ambizioni europee e vincoli di bilancio

    Effetti di spillover e rendimenti di scala suggeriscono vantaggi per un finanziamento comune di almeno parte di queste spese, ma l’attuale bilancio europeo non è in grado di sostenerle. E in assenza di una base fiscale comune e di una maggiore autonomia decisionale dell’Unione anche l’ipotesi di ripetere l’esperienza dell’emissione di debito comune, supponendo di superare i vincoli politici e giuridici, incontra serie difficoltà tecniche, risultando economicamente poco conveniente. La Commissione stima che di questo ulteriore investimento, circa l’80% potrebbe essere intrapreso dal settore privato, e quindi l’impegno del settore pubblico ammonterebbe in questo caso a 125 miliardi di euro all’anno, lo 0,7% del Pil europeo. L’investimento (ovviamente in questo caso totalmente pubblico) necessario a raggiungere e a mantenere questo obiettivo sarebbe di circa 58 miliardi di euro per il 2024 (al fine di raggiungere il 2%) e di oltre 10 miliardi di euro all’anno negli anni successivi, ossia rispettivamente lo 0,3% e 0,06% del Pil europeo. Assumendo che la ricostruzione inizi nel 2025 e che questo ammontare sarà egualmente distribuito a partire dal 2025 e fino al 2035, questo implica un fabbisogno di 45 miliardi di euro all’anno, ma non è chiaro di che ammontare si farebbero carico l’Europa o i suoi membri. Potremmo ipotizzare che l’Europa si faccia carico delle necessità immediate di ripresa del Paese, finanziando (oltre ai 50 miliardi del periodo 2024-2027) ulteriori 15 miliardi di euro, ossia circa lo 0,08% del Pil UE, così riportato in Tav. 1 nell’ipotesi che il conflitto termini nel 2025. Visto che il limite è di nuovo rappresentato dal mancato sfruttamento di economie di scala (imprese troppo piccole, sostenute da mercati finanziari troppo piccoli e segmentati, per potersi assumere gli ingenti investimenti necessari), questo è nuovamente un impegno che dovrebbe essere assunto a livello europeo.

  • L’evoluzione dei finanziamenti alla sanità in Italia

    Dopo una fase di rapida crescita, il trend si è interrotto a seguito delle due recessioni (crisi finanziaria del 2008 e crisi del debito sovrano europeo del 2010-2011). I partiti di governo hanno sempre ribattuto a questa accusa sostenendo che l’attuale governo è quello che ha messo più soldi nella storia d’Italia sulla sanità, arrivando a 134 miliardi di euro per il 2024. Si riscontrano sostanzialmente tre fasi distinte: una prima fase che dura fino all’innesco della crisi finanziaria del 2008-2009, una seconda fase che segue fino alla crisi del Covid ed una terza caratterizzata dalla pandemia. La prima è una fase di forte espansione del finanziamento, che passa in termini nominali da 66 miliardi nel 2000 a 97 miliardi nel 2009 (cioè, dal 5,5 al 6,8 in percentuale del Pil). Ma con l’avvento della pandemia si registra un aumento ben più consistente del finanziamento in corso d’anno: il finanziamento cresce di circa 6 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, che consente di raggiungere il 7,3 per cento del Pil (anche per la consistente riduzione dell’attività economica). Quando si torna a tempi normali, fuori dall’emergenza anche per l’economia, il finanziamento riprende i trend precedenti: in termini nominali si arriva nel 2023 a 129 miliardi di euro, il 6,2 per cento del Pil; per il 2024, si arriverebbe ad un finanziamento tra i 134 e i 135 miliardi di euro. Se le stime Def sull’inflazione (1,2 per cento) e sulla crescita reale del Pil (1 per cento) si rivelassero corrette, rispetto al 2023 si osserverebbe un finanziamento costante in percentuale del Pil (6,2 per cento) e una modesta crescita in termini reali (2,6 per cento) dopo tre anni di riduzione.

  • Audizione sulla riforma della governance economica dell’UE

    Il video dell’intervento è disponibile al seguente link . Un articolo di Massimo Bordignon Download SCARICA IL PDF.

  • La sfida europea della competitività

    Questa misura tiene conto dell’evoluzione differenziata della popolazione nelle due aree, dato che la dinamica demografica (grazie anche ad una maggiore immigrazione, ma anche a un tasso di natalità maggiore di quello europeo) è stata nel periodo più favorevole negli USA che nei Paesi europei “core”. Colpisce ancora di più la dinamica italiana, che da un valore del reddito medio nel 1980 attorno al 85 per cento nel di quello statunitense (e un po’ superiore a quello medio europeo) nel 1980, si è ridotto a poco meno del 65 per cento nel 2022. Crolla invece quella italiana, che cresce meno di un terzo di quella europea, e mostra difficoltà crescenti anche l’economia francese, la seconda economia dell’area euro, che cresce del 30 per cento in meno di quella media europea. In questo periodo, la quasi totalità dei Paesi europei crescono meno degli Stati Uniti, con una crescita media dell’area euro che è meno della metà di quella statunitense e con divergenze interne ancora più marcate. Cominciamo dall’evoluzione della produttività oraria, cioè il valore aggiunto prodotto da un’ora di lavoro, in modo da tener conto anche del fatto che le ore lavorate nei diversi Paesi sono differenti e che, in particolare, negli Stati Uniti si lavora in media di più che in Europa. Si nota invece una inversione nell’ultimo periodo: a fronte di un rallentamento generale della crescita della produttività oraria in tutti i Paesi (anche negli Stati Uniti si dimezza nell’ultimo periodo rispetto a quelli precedenti), i Paesi europei restano comunque mediamente indietro, con questa volta la Germania fanalino di coda. Questo significa che nell’ultimo anno di osservazione, a parità di fattori produttivi impiegati, capitale e lavoro, l’economia statunitense è in grado di produrre il 30 per cento in più di quanto produceva nel 1980, mentre l’economia europea produce solo il 10 per cento in più.

  • Documento di Economia e Finanza: il vero quadro tendenziale

    Tenendo conto di queste intenzioni, un quadro più veritiero dello stato delle nostre finanze pubbliche a politiche invariate comporterebbe invece un aumento del rapporto tra debito e Pil di circa 5 ½ punti percentuali entro la fine del 2026. Per arrivare quest’anno a una crescita dell’1 per cento, il tasso di crescita medio trimestrale del Pil reale dovrebbe salire dallo 0,2 per cento degli ultimi due trimestri del 2023 allo 0,35 per cento in ogni trimestre del 2024. Per gli anni seguenti le previsioni di crescita reale del Def appaiono realistiche, mentre sembra più prudente ipotizzare una crescita del deflatore del Pil leggermente più bassa nel 2025 (2 per cento, invece del 2,3 per cento previsto nel Def). Il rapporto tra debito pubblico e Pil sarebbe corrispondentemente più alto, con un aumento tra il 2023 e il 2026 di 4,4 punti percentuali, con solo una piccola riduzione nel 2027, anche senza tener conto, per semplicità, della più elevata spesa per interessi relativa all’accumulo del debito. Nel 2027 il debito pubblico sarebbe del 3,3 per cento più elevato che nella previsione del Def. L’aumento del rapporto debito/Pil tra fine 2023 e fine 2027 sarebbe di 5,6 punti, invece che di 2,3 punti. Il quadro programmatico della Nadef, dopo il deficit del 4,3 per cento del 2024, comportava un deficit del 3,6 per cento nel 2025 e del 2,9 per cento nel 2026, solo di poco inferiori al tendenziale del Def. Questi numeri sono stati ribaditi in conferenza stampa da Giorgetti. In proposito, è ormai chiaro che l’Italia, insieme ad altri Paesi, sarà inclusa tra quelli sottoposti all’Excessive Deficit Procedure (EDP) visto l’ampio sforamento del deficit rispetto al tetto del 3 per cento del Pil nel 2023 e nel 2024.

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