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  • La politica monetaria USA e gli effetti sulle economie emergenti

    La dimensione dell’economia USA e il ruolo del dollaro nei mercati finanziari internazionali generano effetti negativi anche sulle altre economie che, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche, sono costrette ad aumentare i propri tassi di interesse per evitare deflussi di capitale e svalutazioni eccessive della moneta locale. Tuttavia, non va dimenticato che sia per via delle dimensioni dell’economia americana sia per il ruolo rilevante giocato dal dollaro sui mercati finanziari internazionali, le scelte della FED hanno effetti significativi anche sulle economie di altri paesi e in particolare su quelle dei paesi emergenti. Di conseguenza, il deprezzamento del tasso di cambio di una valuta di un paese emergente nei confronti del dollaro americano comporta significativi aumenti nei costi di approvvigionamento delle materie prime e di molti beni importati che costituiscono ampia parte del paniere rappresentativo dei consumi di questi paesi (Fig. 6). In questo modo, al deprezzamento del tasso di cambio nei confronti del dollaro corrisponde un aumento dell’inflazione importata, tanto più consistente quanto più elevato è il pass-through , ovvero l’intensità con cui il deprezzamento del tasso di cambio si trasferisce sui maggiori prezzi (in valuta locale) dei beni importati. Per non parlare di quanto accaduto più di recente, nel maggio 2013, quando l’allora Governatore della FED, Ben Bernanke, annunciò l’intenzione di ridurre – a partire dal successivo mese di luglio – l’intensità degli acquisti di titoli, avviati nel settembre 2012 con il varo del QE3 (terza fase del Quantitative Easing ). Più fattibile – anche se di difficile attuazione in tempi brevi – è la realizzazione di miglioramenti strutturali all’interno delle economie emergenti, che rendano queste meno dipendenti dal dollaro e dalla politica monetaria USA; ma il tempo necessario perché ciò avvenga è chiaramente lungo . Nel frattempo, tutte queste economie risultano inevitabilmente esposte al rischio che, nel corso di questa lunga fase di transizione, si materializzino nuovi shocks capaci di scatenare una contrazione monetaria che favorirebbe una recessione globale.

  • Le regole fiscali europee per il 2024

    Ad oggi, però, le regole vigenti sono quelle che precedono la riforma e la Commissione è legalmente tenuta a rispettarle nel fornire Raccomandazioni sugli aggregati di bilancio ai Paesi per il 2024, sebbene le stesse potranno non essere più in vigore l’anno prossimo. Si tratta di tre documenti separati, un nuovo Regolamento sul cosiddetto “braccio preventivo” del PSC, un documento contenente emendamenti a un altro Regolamento (relativo all’attuazione delle “procedure sui deficit eccessivi”) e il testo di una nuova Direttiva sulle procedure di bilancio dei Paesi membri. Da un lato, le regole esistenti sono quelle che la Commissione stessa giudica “inapplicabili” nel mondo post-Covid (è la giustificazione stessa della proposta di riforma) e che potrebbero essere superate già nel 2024, se l’approvazione delle proposte legislative avvenisse in modo sufficientemente tempestivo. Queste statistiche tengono conto sia delle previsioni macroeconomiche della Commissione sui singoli Paesi (crescita del Pil, inflazione, occupazione) sia delle stime che la Commissione fa sull’evoluzione dei bilanci pubblici l’anno successivo (deficit, deficit strutturale) a partire dal piano di stabilità presentato dagli stessi governi. Si osservi che la variazione della spesa netta nazionale nelle tabelle è sempre riportata in termini nominali; è cioè quanto la Commissione si aspetta che il Paese spenda in più nel prossimo anno sulla base delle stime prima ricordate. Dai nostri conti manca la componente della spesa per la pandemia, ma l’assenza di dati è giustificata dal fatto che tali spese nel caso italiano risultano nulle sia nel 2023 che nel 2024 e pertanto non apportano alcuna differenza ai fini del calcolo dell’aggregato finale. La Commissione, in attuazione delle vecchie regole fiscali, chiederebbe al Paese una correzione del disavanzo strutturale nel 2024 dello 0,7 per cento del Pil; ma il governo ha già preventivato nel Def una correzione superiore, pari allo 0,9 per cento.

  • L’evoluzione del mercato del lavoro dopo il Covid-19: “Great Resignation” o “Great Reallocation”?

    Infatti, mentre il tasso di inattività degli Stati Uniti è rimasto pressoché invariato, in Italia tra il 2020-21 questo si è ridotto dell’1 per cento, segno che coloro che hanno presentato le dimissioni si sono ricollocati rapidamente nel mercato del lavoro. Il saldo dei rapporti di lavoro nell’ultimo decennio L’analisi sull’andamento del saldo tra attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro deve essere contestualizzata all’interno dei vari cicli economici e delle riforme nel mercato del lavoro. La crescita tendenziale del saldo dei rapporti di lavoro, tra il 2013-2022, si attesta in media intorno allo 0,7 per cento con un andamento lievemente più sostenuto di quello dell’economia che in media, nello stesso periodo, vede una crescita tendenziale del Pil attorno allo 0,5 per cento. Nel primo si può notare il miglioramento del saldo dei rapporti di lavoro a seguito della ripresa dalla crisi del debito sovrano, mentre il 2015 mostra l’apporto delle nuove norme in materia di sgravi contributivi sulle assunzioni a tempo indeterminato (c.d. Tuttavia, l’impatto del Covid-19 sul saldo dei rapporti di lavoro, e ciò che ne è conseguito nel biennio successivo, rappresenta qualcosa di inusuale se si guarda al recente passato. Infatti, l’impatto del lockdown sulle attivazioni (che sono diminuite del -44 per cento) è stato contenuto dalle minori cessazioni (che sono calate del -36 per cento rispetto al 2019) grazie alle CIG (Cassa integrazione guadagni) con causale COVID-19, quelle straordinarie (CIGS), quelle in deroga e dal contestuale blocco dei licenziamenti. Infatti, secondo l’ultimo rapporto INPS, nel 2021 si sono registrati elevati tassi di ricollocazione settoriale a seguito di dimissioni spontanee; ciò dimostra che ad esse spesso non è seguito uno stato di disoccupazione, ma semplicemente un'occupazione presso un altro datore di lavoro.

  • Le “rottamazioni” delle cartelle esattoriali: quanto sono state efficaci?

    Nella corrente legislatura, il “Rottamazioni-ter” del 2018 – il provvedimento più generoso in termini di rateizzazione dei pagamenti – ha portato alla riscossione di 6,3 miliardi su 26,3 previsti (con 1,7 miliardi ancora riscuotibili con le prossime rate). Secondo una recente dichiarazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini, solo una piccola parte di questi crediti (“decine di miliardi, comunque sotto i 100 miliardi”) sarebbero recuperabili: la maggior parte non sono riscuotibili o sono di difficile riscossione. Inoltre, il periodo di riferimento dei debiti è stato esteso al 31 dicembre 2017 e le nuove condizioni di rateizzazione sono state estese anche ai beneficiari di “Rottamazione-bis”, purché avessero rispettato i termini di pagamento. “Saldo e stralcio”, che prevedeva per soggetti in gravi difficoltà economiche (ossia con ISEE del nucleo familiare inferiore a 20.000 euro) la possibilità di estinguere i debiti fiscali, iscritti tra inizio 2000 e fine 2017, con una riduzione delle somme dovute, oltre all’azzeramento di sanzioni e interessi. Nel 2021, per far fronte alle difficoltà di liquidità dovute alla crisi pandemica, il decreto “Sostegni” ha differito i termini di pagamento per le rate non ancora versate nel 2020 e per quelle da versare nel 2021 dei precedenti provvedimenti di rateizzazione. L’efficacia delle rottamazioni Per “Rottamazione” e “Rottamazione-bis” hanno fatto domanda 2,3 milioni di soggetti, per debiti (inclusi interessi di mora e sanzioni) di 45 miliardi. Per “Rottamazione-Ter” hanno presentato domanda 1,4 milioni di soggetti, per debiti, inclusi interessi e sanzioni, di quasi 44 miliardi (quindi con un debito medio per soggetto più alto rispetto ai precedenti provvedimenti).

  • Da dove verranno i nuovi posti di lavoro: dal pubblico o dal privato?

    febbraio 2023 Intermedio Una recente frase di Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, ha ravvivato uno storico dibattito sui meriti relativi dello Stato e del privato nel generare ricchezza e posti di lavoro. Di seguito si mostra che, se nei prossimi anni vi sarà creazione di posti di lavoro, questa deriverà quasi certamente dal settore privato. Un certo scetticismo sulla capacità del sistema economico di creare “spontaneamente” occupazione e soprattutto posti di lavoro di qualità può essere giustificato dal fatto che tra il 2008 e il 2019 l’occupazione ha subito forti oscillazioni in funzione dei cicli dell’economici, ma non è aumentata. In questa nota non cerchiamo di dirimere la questione, dato che è pressoché impossibile dire se siano più importanti i posti di lavoro creati dallo Stato o dalle imprese. Infatti, se è vero che funzioni fondamentali e basilari come, la difesa, la sicurezza, l’istruzione, la ricerca e la sanità sono svolte prevalentemente dallo Stato, è altrettanto vero che il settore privato produce la gran parte dei beni e servizi di cui hanno bisogno i cittadini-consumatori. L’occupazione privata invece ha subito una perdita di quasi 1 milione di posti di lavoro fra il 2008 e il 2013, ed è aumentata a ritmi piuttosto sostenuti; tra il 2014 e il 2019 la crescita è stata del 5,4 per cento, corrispondente a circa il milione di posti di lavoro persi negli anni precedenti. Questa relazione è stata oggetto di moltissime contestazioni e perfezionamenti, ma nessuno ha mai messo in dubbio che solo la crescita economica è in grado di creare posti di lavoro.

  • Crescita economica e meritocrazia: Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce

    Svalutazioni e accumulo di debito pubblico, le droghe con cui si era forzata la crescita dagli anni Settanta, non erano più disponibili. Per affrontare la competizione internazionale bisognava puntare sulla ricerca e sulla valorizzazione dei talenti. Invece, ad eccezione di un pugno di imprese manifatturiere che esportano, è in genere prevalsa la vecchia pratica delle raccomandazioni e delle sponsorizzazioni politiche per aver un posto di lavoro e per far carriera, e il merito è stato messo da parte. E il problema riguarda quasi tutti gli ambiti della società: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e persino la selezione dei manager e la finanza. Al contrario di quanto prevede la Costituzione e, per "i capaci e i meritevoli", se partono svantaggiati, in Italia le opportunità restano scarse. Il tema della insufficiente considerazione del merito e degli incentivi distorti è il filo rosso che accompagna tutte le spiegazioni al cosiddetto "declino" economico italiano. Un primo passo per trovare soluzioni adeguate, è quello di avere piena coscienza dei problemi, che sono spesso, esplicitamente o implicitamente, negati.

  • Ha senso un allarme per le perdite delle banche centrali?

    In questa nota, mostriamo che il conto economico di quasi tutte le banche centrali sta peggiorando, ne spieghiamo le ragioni e argomentiamo che perdite anche notevoli, ma limitate nel tempo, sono sostenibili e non dovrebbero obbligare gli Stati a ricapitalizzazioni forzate. Il fatto è che la banca centrale tedesca, come tutte le altre banche centrali dell’Eurosistema, sta peggiorando il proprio conto economico e da ormai due anni (nel 2021 e 2022) ha azzerato la distribuzione di utili allo Stato. Il motivo è che negli anni passati tutte le banche dell’Eurozona hanno accumulato una grande massa di titoli a medio e lungo termine per finalità di politica monetaria che avevano un tasso cedolare molto basso e si finanziavano principalmente con depositi a vista delle banche. Si noti che il problema non nasce dalla valutazione dei titoli ai prezzi di mercato ( mark-to-market ) perché le banche centrali (sia la Fed che le banche dell’Eurozona) contabilizzano i titoli a valore storico e comunque tipicamente detengono i titoli fino alla scadenza. Perché aumenta il costo del funding per le banche centrali Prima di vedere i numeri, è opportuno spiegare perché la BCE ha aumentato il tasso sui depositi delle banche, come peraltro hanno fatto quasi tutte le altre banche centrali, tra cui la Fed e la Bank of England. Il fatto è che il tasso sui depositi ( overnight ) delle banche presso le banche centrali fa parte degli strumenti di politica monetaria in quanto rappresenta un costo opportunità per le banche commerciali. Un ulteriore accorgimento consiste nel fatto che una banca centrale che ha un attivo destinato superiore al passivo può dedurre dal reddito che cede al pool la differenza moltiplicata per il tasso MRO. Viceversa deve fare una banca centrale che abbia un passivo superiore all’attivo.

  • ITA Airways: la svolta con Certares?

    La nota presenta un aggiornamento dell’analisi dell’Osservatorio sul costo sostenuto dal contribuente negli ultimi 20 anni per mantenere in piedi una compagnia che ha quasi sempre presentato perdite di esercizio di cui si è fatto carico il bilancio pubblico. E almeno finora il mantenimento di un ruolo del settore pubblico nella gestione dell’aviolinea non è servita a difenderne le quote di mercato che si sono drammaticamente ridotte. Per comprendere le ragioni della privatizzazione e della scelta del governo, è opportuno ricostruire brevemente la storia della compagnia di bandiera italiana e il costo sostenuto dallo Stato nel corso degli anni per evitarne il fallimento. I risultati di Alitalia dal 2000 ad oggi Durante la storia di Alitalia e delle sue successive trasformazioni, riassunta brevemente nella Tav. 1, lo Stato italiano è risultato a più riprese cruciale per tenere in piedi la compagnia. Come proprietario della totalità delle quote di ITA Airways, il MEF si fa anche carico di coprire le perdite del vettore aereo che alla chiusura dello scorso esercizio ammontavano già a 149 milioni di euro (per il solo periodo 15 ottobre - 31 dicembre). In vista del rilancio definitivo di ITA Airways, nel 2021 il governo Draghi ha definito insieme alla Commissione europea il tetto massimo degli investimenti pubblici sotto forma di aumento di capitale: 1,35 miliardi per l’insieme dei 3 anni successivi. La prima è stata ritenuta migliore per gli obiettivi del governo e ha di fatto avviato un processo di formale privatizzazione della ex compagnia di bandiera.

  • Si può evitare un aumento dell’immigrazione con una maggiore natalità?

    Il Bel Paese è sempre più vecchio a causa dell’allungamento dell’aspettativa di vita e del crollo della natalità (col numero dei nati sceso da più di 900 mila unità all’anno negli anni Sessanta a meno di 400 mila nel 2022). Quanto è percorribile questa strategia? Questa nota calcola di quanto dovrebbe aumentare il tasso di fecondità, e quindi la natalità, per compensare, in termini di impatto sulla spesa pensionistica, il mancato aumento della presenza di immigrati in Italia. Tra le prime si segnalano un tasso di fecondità in costante aumento (da 1,24 del 2022 a 1,39 nel 2035 e a 1,52 nel 2070) e un flusso netto di immigrati che nell’intero periodo di previsione si attesta mediamente intorno a 213 mila unità annue. Il rapporto AWG, richiamato anche nel Def, ci dice che con il -33 per cento del flusso netto di immigrati (circa -70 mila unità medie l’anno), nel 2070 il rapporto tra spesa pensionistica e Pil sarebbe più alto di 0,7 punti. Ipotizzando una relazione lineare tra aumento della spesa pensionistica e riduzione del numero di immigrati, un calo rispetto alla baseline di 207 mila unità medie annue comporta un aumento della spesa di 2,6 punti percentuali al di sopra di quello della baseline . Il rapporto AWG ci dice anche che un aumento di +0,2 al 2070 sul tasso di fecondità assunto nella baseline comporta un calo della spesa pensionistica rispetto al Pil di 0,96 punti percentuali. Quindi per controbilanciare la maggiore spesa per pensioni di 2,61 punti percentuali, dovuta al calo degli immigrati, occorre un tasso di fecondità al 2070 più alto di 0,6 rispetto alla baseline (1,52) e quindi un tasso finale di 2,1.

  • L’evoluzione della spesa sanitaria italiana

    Con una dotazione totale di 191,5 miliardi di euro da investire tra il 2022 e il 2026, il PNRR destina 15,6 miliardi (8,2 per cento del totale) alla Missione Salute (M6). La spesa sanitaria prevista dalla Legge di Bilancio 2023 Per il 2023, le risorse per il Servizio Sanitario Nazionale sono previste in aumento di 4 miliardi rispetto al 2022. Nella Legge di Bilancio 2023 sono stati aggiunti altri 2 miliardi, portando il totale complessivo per il 2023 a 128 miliardi; di queste ulteriori risorse, la maggior parte (1,4 miliardi) andrà a coprire i maggiori costi delle fonti energetiche mentre 200 milioni saranno destinati all’aumento degli stipendi degli operatori del pronto soccorso. Pur contando su un aumento consistente di fondi, rispetto all’esperienza degli anni pre-Covid quando il finanziamento è aumentato di 1 miliardo all’anno, è solo il 3 per cento in più nonostante l’inflazione abbia raggiunto a novembre quasi il 12 per cento su base annua. L’aumento in termini reali si è verificato tutto nei primi anni del secolo; dopo la crisi finanziaria del 2008 e la successiva crisi dei debiti sovrani in Europa si osserva una riduzione seguita da un lungo periodo di stabilità, che si è concluso solo nel 2020 con l’esplosione della pandemia. Come noto, rispetto alla dotazione totale di 191,5 miliardi di euro da investire tra il 2022 e il 2026, il PNRR destina ben 15,6 miliardi (8,2 per cento del totale) alla sanità (oltre alle risorse, comprese nelle altre missioni, che hanno influenza sulla tutela della salute). La spesa di CN è maggiore della spesa di CE: la prima contabilizza i costi per la produzione dei servizi sanitari da parte di un qualsiasi ente facente parte della Pubblica Amministrazione, incluse le amministrazioni centrali.

  • Le sfide per i Comuni italiani: le entrate

    Dall’analisi sono emerse una perdita di centralità dell’attore comunale nell’accumulazione del capitale pubblico e una riduzione significativa del personale, soprattutto di carattere tecnico, una fonte di preoccupazione per la capacità dei Comuni di realizzare la quota degli investimenti a loro attribuita dal PNRR. In più, la finanza comunale è stata soggetta a continue modifiche negli anni, sia per quanto riguarda i tributi che i trasferimenti, accentuando il grado di incertezza degli enti locali sui loro bilanci e dunque sulla loro capacità di programmazione. Prima di analizzare nel dettaglio le fonti e le modalità di finanziamento dei Comuni italiani, è utile riportare le principali informazioni, raccolte in una nota precedente, sulla spesa di questi enti locali. Con i primi anni Novanta, si decise dunque di riformare il sistema e, coerentemente con l’idea che il decentramento fiscale potesse accrescere la responsabilità finanziaria degli enti sub-nazionali, si puntò a rafforzare anche la capacità dei Comuni di finanziarsi con risorse proprie. I Comuni dovevano imporre un’aliquota minima sul tributo, ma avevano comunque un’ampia autonomia nel determinare l’aliquota dell’imposta (all’interno di intervalli prestabiliti) per tutte le tipologie di immobili a cui si applicava, con anche la possibilità di introdurre detrazioni differenziate sugli immobili di residenza principale dei contribuenti. Tuttavia, come già ricordato, la Tari è vincolata al finanziamento integrale del servizio dei rifiuti e non può, dunque, essere considerata al pari di addizionale e IMU. Pertanto, di seguito, calcoliamo un indicatore di “autonomia tributaria” dei Comuni considerando esclusivamente l’IMU e l’addizionale Irpef sul totale delle entrate correnti. L’ICI doveva essere pagata dai proprietari di fabbricati, di aree edificabili e di terreni agricoli situati nel territorio dello Stato; dai titolari di diritti reali di godimento sugli stessi beni; dai locatari in caso di locazione finanziaria e infine dai concessionari di aree demaniali.

  • Il nuovo pacchetto di proposte europee per il gas

    Già nel mese di ottobre 2021, l’aumento dei prezzi dell’energia, inizialmente causato dalla ripresa della domanda globale post-COVID-19, ha spinto l’UE ad adottare un pacchetto di misure ( Energy Price Toolbox ) mirate a sostenere il reddito di famiglie e imprese. La strategia europea prevede: l’aumento del risparmio energetico sia nel breve che nel medio termine, la diversificazione dell’approvvigionamento energetico di gas naturale e liquefatto (GNL) e un’accelerazione sull’uso di energie rinnovabili per sostituire i combustibili fossili nelle abitazioni, nell'industria e nella produzione di energia. A giugno è stato poi adottato dal Consiglio un regolamento volto a garantire che le capacità di stoccaggio del gas nell’UE fossero riempite prima della stagione invernale e potessero essere condivise tra gli Stati membri in uno spirito di solidarietà. In particolare, è stato chiesto agli Stati di riempire gli stoccaggi di gas per almeno l’80 per cento entro il 1° novembre 2022 e per il 90 per cento prima dei periodi invernali successivi. L’influenza sul prezzo della riduzione di domanda legata agli stoccaggi si può vedere graficamente attraverso gli andamenti dell’indice della domanda di stoccaggio fornito da SNAM (proxy degli stoccaggi a livello UE) e il prezzo TTF (proxy del prezzo all’ingrosso del gas negli hub dei singoli paesi UE) (Fig.2). Per limitare tale rischio, la Commissione richiede l’introduzione di un meccanismo automatico di controllo dei prezzi entro il 31 gennaio 2023, da realizzarsi tramite la definizione di un “corridoio” di prezzo fuori dal quale non possono essere eseguiti gli ordini di acquisto e vendita. Misure per situazioni di emergenza : con l’obiettivo di garantire la sicurezza del sistema energetico di tutti gli stati membri, la Commissione propone l’allargamento delle condizioni di solidarietà negli accordi bilaterali tra stati anche a quelli che non hanno ancora ratificato un trattato in merito.

  • Le previsioni sbagliate sull’economia russa

    La nostra valutazione è che nelle statistiche ufficiali vi possano essere molte forzature, ma non al punto da spiegare la differenza fra le previsioni iniziali di una caduta attorno al 10 per cento e le stime finali. L’introduzione delle sanzioni da parte dei Paesi occidentali e l’iniziale svalutazione del rublo nei confronti del dollaro potrebbero spiegare il forte crollo delle importazioni registratosi subito dopo lo scoppio del conflitto. L’apprezzamento del rublo ha evitato alla Russia di cadere in una spirale caratterizzata da iperinflazione, fughe di capitali, crisi bancarie, alti tassi d’interesse e recessione, che si stava profilando all’inizio del conflitto a causa del timore dei cittadini russi di ritrovarsi con moneta priva di valore. Un ulteriore fattore che può aver contribuito a evitare il crollo del Pil russo è il fatto che l’indice della produzione industriale (di fonte Rosstat), come si vede dalla Fig. 4, non sembra aver risentito dell’introduzione delle sanzioni. L’aumento della spesa militare è avvenuto a scapito del tenore di vita della popolazione, come testimoniano anche i già citati dati ufficiali sui consumi delle famiglie, caduti rispettivamente del 15 e del 6,6 per cento nel secondo e terzo trimestre 2022 rispetto al quarto trimestre 2021. Nonostante i significativi errori di valutazione commessi dalle organizzazioni internazionali subito dopo l’invasione, è giusto ricordare che, nei mesi precedenti alla guerra, le autorità russe e le organizzazioni internazionali erano d’accordo nel prevedere una crescita fra il 2 e il 3 per cento per il 2022, dopo il 5,6 per cento del 2021 [6] . A meno di ipotizzare che l’elasticità delle sole importazioni nei confronti del prezzo sia maggiore di 1, sia nel breve periodo (un mese) sia nel medio termine (fino alla fine dell’anno), il che appare molto improbabile.

  • Le privatizzazioni del governo Meloni

    L’unica operazione finora riconducibile nell’alveo di queste privatizzazioni è stata la cessione del 25 per cento delle azioni di Monte dei Paschi di Siena da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), effettuata lo scorso novembre per un controvalore di 919 milioni di euro. Si osserva dalla Tav. 1 che il valore di mercato delle imprese partecipate direttamente dal Tesoro, pari a 28 miliardi di euro, sarebbe già sufficiente a coprire l’obiettivo dell’1 per cento del Pil (circa 20 miliardi). Qui qualcosa di più il governo può certamente fare, considerando che il controllo delle imprese è garantito non solo tramite la partecipazione diretta del MEF al loro capitale, ma anche tramite la partecipazione di CDP (a sua volta controllata dal Tesoro, che possiede l’83 per cento delle sue azioni). Che cosa si perde per il futuro Se la dismissione di partecipazioni può rappresentare una soluzione per reperire delle risorse nel breve periodo, è importante anche ricordare che così facendo lo stato perde la possibilità di partecipare in parte ai profitti di queste imprese. In realtà, tutto quello che si è fatto nell’ultimo decennio è stata la vendita di azioni di imprese già quotate (Enel) e la quotazione di alcune imprese sul mercato (Poste e Enav) che ha poi condotto alla cessione di quote di minoranza. Altre operazioni, meno rilevanti per ammontare, sono state invece passaggi di proprietà dal MEF a CDP, come nel caso di Sace e Fintecna; [9] quindi, formalmente delle privatizzazioni (CDP è un’impresa privata) ma che di fatto hanno implicato il mantenimento di queste società all’interno del controllo pubblico. Piuttosto, come per i governi precedenti, l’obiettivo dichiarato è quello di far cassa, e anzi il problema principale del governo è proprio trovare il modo di sollevare sufficienti risorse senza però perdere il controllo delle imprese partecipate, che in molti casi agiscono in settori percepiti come strategici dell’economia italiana.

  • Le proposte del ddl Bilancio in materia di sanità

    Le proposte per l’impiego dei fondi puntano a contenere il problema delle liste d’attesa e si concentrano sul rinnovo dei contratti del comparto sanitario, su altre misure a sostegno del personale sanitario e sull’imposizione di un tetto massimo al settore farmaceutico. Il ddl prevede infatti un incremento del finanziamento del Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard (FSNS) di 3 miliardi di euro per il 2024, 4 miliardi per il 2025 e 4,2 miliardi per il 2026. Il rifinanziamento del FSNS e i fondi addizionali per la Sicilia si aggiungono a quelli già stanziati dalla Legge di Bilancio per il 2023, che prevedono 2,3 miliardi per il 2024 e 2,6 miliardi sia per il 2025 che per il 2026. Ci sono quindi 5,6 miliardi di risorse aggiuntive per il 2024 per il SSN: il fondo per il 2024 arriva a una cifra compresa tra i 134 e i 135 miliardi, mentre la spesa programmata si attesta a 136 miliardi. L’evoluzione del finanziamento del SSN determinato in sede di legge di bilancio è presentata nella Fig. 1 a partire dal 2019, l’anno prima dell’inizio della pandemia, quando il FSNS valeva 114 miliardi di euro e il Ministro della Salute Roberto Speranza aveva appena ottenuto 2 miliardi di euro per il 2020. La quota di spesa sanitaria privata diretta sulla spesa complessiva, pur con qualche oscillazione, è rimasta sostanzialmente stabile in questo ultimo decennio e si è anzi ridotta negli anni post-Covid per l’incremento del finanziamento pubblico. Il disegno di legge, infatti, menziona solo la possibilità per le regioni e le province autonome di utilizzare per l’abbattimento delle liste d’attesa “una quota non superiore allo 0,4 per cento del livello di finanziamento indistinto del fabbisogno sanitario nazionale standard per l’anno 2024” (art.

  • Evasione, nel 2021 prosegue il calo

    Questo calo prosegue la tendenza in corso dal 2018: nel quadriennio 2018-2021 l’evasione si sarebbe ridotta di quasi 20 miliardi, ossia di circa il 19 per cento. I dati aggiornati e il 2021 Fino al 2017 l’evasione fiscale (come stimata nelle varie edizioni della “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” pubblicate dal Ministero dell’Economia e delle Finanza) era rimasta per anni intorno a 110 miliardi (108 miliardi nel 2016; Tav. 1). Lo scorso 2 gennaio è stato pubblicato un aggiornamento alla Relazione dello scorso ottobre, alla luce della recente revisione dei dati di contabilità nazionale ed estendendo le stime al 2021. Secondo l’aggiornamento, l’evasione fiscale e contributiva (il cosiddetto tax gap ) è scesa dai 100,4 miliardi nel 2019 a 86,3 miliardi nel 2020 e a 83,6 miliardi nel 2021 (Tav. 1). Le poste principali: IVA, Ires e Irpef Nella nostra nota precedente, basata sulla Relazione dello scorso ottobre, avevamo stimato che gran parte del calo dell’evasione era una conseguenza del calo “di quanto dovuto”, a causa delle condizioni del 2020: al limite, se nulla fosse dovuto l’evasione sarebbe nulla. Inoltre, le condizioni straordinarie del 2020 avevano anche influito sulle abitudini di consumo delle famiglie, fattore che poteva aver influenzato notevolmente il calo dell’evasione per l’IVA: questo perché il calo dei consumi di servizi, per i quali l’evasione è mediamente superiore, era stato relativamente più forte. Nel 2021, tuttavia, il calo della propensione è diventato più marcato e nonostante l’aumento del dovuto (a causa della ripresa economica e le riaperture), l’evasione stimata è rimasta bassa, addirittura di poco inferiore ai valori del 2020.

  • Il bilancio europeo e le politiche dell’Unione

    Sebbene le decisioni sul bilancio europeo a lungo termine restino una prerogativa degli Stati membri, è il Parlamento europeo che le approva e che co-determina le spese annuali. Il bilancio pluriannuale: i numeri Una novità importante del QFP per il 2021-2027 rispetto agli anni precedenti è rappresentata dall’ampia quota delle spese finanziata con debito europeo, a seguito della decisione assunta dal Consiglio nel 2020 di lanciare il Next Generation EU (NGEU) per finanziare la ripresa post-pandemica. In particolare, agli oltre 1.200 miliardi di euro stanziati per il bilancio di lungo termine nel 2021-2027, si sono aggiunti gli oltre 800 miliardi del NGEU, sebbene circa la metà di questi ultimi fondi non costituiscano “vera” spesa europea ma prestiti agevolati ai Paesi, che dovranno essere poi restituiti direttamente dai beneficiari. Si osserva che il bilancio europeo, oltre a essere di dimensioni molto limitate, si è andato riducendo nel corso del tempo, dall’1,2 per cento del reddito complessivo dell’Unione del 1993-1999 all’1 per cento del 2014-2020. Si osserva che la quota di spesa del bilancio europeo a sostegno dell’agricoltura (la PAC), che nel 1988-1993 raggiungeva quasi il 60 per cento del totale, si è andata progressivamente riducendo a favore di altri programmi, in particolare le spese per coesione e sviluppo. La mid-term review Il complesso meccanismo di determinazione del bilancio europeo pluriannuale riassunto in precedenza presenta due ovvi difetti: la lunga durata del periodo di programmazione e la rigidità delle macrocategorie di spesa che consentono solo variazioni molto limitate nell’esecuzione del bilancio. Per queste ragioni, nel contesto europeo, ha assunto particolare rilievo la revisione di medio termine del bilancio pluriannuale, la quale può almeno in linea di principio riallocare le risorse tra le varie macrocategorie di spesa e, se necessario, anche richiedere ulteriori risorse ai Paesi.

  • Il trasporto su binari in Italia: un prodotto della questione meridionale

    Il divario fra Nord e Sud è evidente anche dallo stato della rete e dall’età del parco treni: al meridione, infatti, quasi il 70 per cento dei treni ha più di 15 anni. Di conseguenza, di fondamentale importanza sono i fondi stanziati tramite il PNRR, i quali potranno garantire, se investiti correttamente, un servizio pubblico locale più efficiente, soprattutto al Sud. La velocità delle tratte regionali italiane La metodologia è invariata: calcoleremo la Velocità di Percorrenza Effettiva (VPE) per ogni regione nei collegamenti tra capoluoghi di provincia, calcolata come il rapporto tra la distanza tra due capoluoghi e il tempo richiesto per arrivare da una città all’altra. L’eccezione è la Puglia che ha la VPE più alta d’Italia, grazie al fatto che nei viaggi tra suoi principali capoluoghi di provincia è spesso possibile utilizzare i Frecciarossa. Rilevante è anche il caso dell’Abruzzo, dove la media regionale è abbassata dalla tratta Aquila-Teramo dove, nella fascia delle 8:00-9:00, la durata complessiva del viaggio disponibile è di 4 ore e 41 minuti (sempre per la mancanza di collegamenti diretti tra due capoluoghi, distanti solo 44 km). La Valle d’Aosta è esclusa dall’analisi della velocità, dato che la regione ha un solo capoluogo di provincia, viene però considerata per quanto riguarda gli altri indicatori riportati nel seguito della nota. Puntualizziamo, come nella precedente nota, che la VPE dipende dalla combinazione di vari fattori, ossia la velocità su binario dei treni, lo sviluppo della rete (ossia quanto è diretto il percorso che congiunge due città) e i tempi di attesa.

  • Osservazioni sul Documento Programmatico di Bilancio 2024

    Il DPB è carente perché non dice nulla su quasi 9 miliardi di coperture nel 2024, è estremamente vago su voci importanti come la riforma delle pensioni, conferma che molte misure (cuneo contributivo, riforma Irpef, sostegni alle imprese) sono finanziate solo per un anno. La riduzione del cuneo fiscale (o, più precisamente, la conferma dei tagli già effettuati negli ultimi due anni) vale 10,5 miliardi di euro, le misure annunciate per il sostegno alle imprese valgono 2,3 miliardi, il taglio dell’Irpef circa 4 miliardi. Inoltre, i dati riportati nel DPB per il 2024 (2,3 miliardi) sono inferiori a quelli annunciati dal governo nella conferenza stampa successiva al Consiglio dei Ministri che ha approvato il documento, il che dice della scarsa leggibilità del documento. Quello che emerge dal DPB è che l’insieme di queste misure (cui va aggiunto l’abolizione del limite di 1,5 volte la pensione minima per i pensionandi con il regime contributivo) avrebbe effetti modestissimi sul bilancio: meno di 300 milioni a regime (nel 2025 e 2026). Si tratta quindi di un insieme di misure potenzialmente importanti, in cui dovrebbero esser compresi gli incentivi a chi assume (citati nel testo del DPB a pag. 13) e quelli a chi investe (di cui però non vi è traccia né nelle tabelle né nel testo del DPB). Nel testo del DPB si afferma che il finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard è incrementato di 3 miliardi nel 2024, di cui 2,5 vincolati ai rinnovi contrattuali di medici e infermieri del Servizio Sanitario Nazionale (SSN); il finanziamento aumenta poi rispettivamente di 4 e 4,2 miliardi nel 2025 e nel 2026. Guardando al 2024, l’unica variazione degna di nota è la riduzione dei contributi sociali (-0,6 punti di Pil), che tuttavia è in realtà una politica invariata, nel senso che non cambia nulla rispetto alla situazione attuale.

  • Conti pubblici a confronto: Italia, Francia e Germania

    In compenso, la Francia sta seguendo una politica più rigorosa dell’Italia per quanto riguarda le spese; queste aumentano di 2,2 punti di Pil in Italia (sempre nel confronto fra 2024 e 2019) e solo di 0,5 punti in Francia. In particolare, come è ben noto, la Germania ha registrato avanzi di bilancio in tutto il decennio precedente al 2020 e nel 2024 raggiunge un deficit pari a 2,0 per cento, a fronte del 4,4 per cento della Francia e del 4,3 per cento dell’Italia. Mentre in Italia aumentano sia i sussidi correnti (+0,2 per cento) che i trasferimenti in conto capitale (+0,3 per cento), in Francia si riscontra una riduzione dei sussidi correnti, forse perché questi partono da livelli molto più alti che in Germania e in Italia. Si osserva anche che i livelli di questa variabile sono assai diversi fra Paesi: nel 2024 i redditi da lavoro si collocano attorno all’8 del Pil in Germania, al 12 per cento in Francia e al 9 per cento in Italia. Gli investimenti pubblici aumentano in tutti i tre Paesi, verosimilmente sospinti anche dal piano Next Generation EU. L’aumento è maggiore in Italia (+0,9 per cento) che in Germania (+0,6 per cento) e in Francia (+0,2 per cento). In Germania, l’aumento è di soli 0,2 punti di Pil. Queste dinamiche sono evidentemente riconducibili all'aumento dei tassi di interesse della BCE, a fronte di dimensioni assai diverse dei debiti pubblici: 141,7 per cento, 111,8 per cento e 66,1 per cento rispettivamente in Italia, Francia e Germania alla fine del 2022. Dalla Fig. 1 si vede anche che il peggioramento del bilancio nel 2020 rispetto al 2019 è molto più marcato in Italia (-8,1 per cento del Pil) che in Francia (-5,9 per cento) e in Germania (-5,8 per cento).

  • Raschiando il fondo del barile? La dinamica recente della tesoreria dello Stato

    Questo basso livello può riflettere il tentativo di contenere nell’immediato la crescita del debito pubblico, ma espone al rischio di dover ricorrere, in presenza di shock avversi, a emissioni di titoli concentrate nel tempo, con ripercussioni sul costo del debito. Il conto corrente di tesoreria, denominato ufficialmente “Conto disponibilità del Tesoro”, è il deposito a vista presso la Banca d’Italia tramite il quale la Pubblica Amministrazione incassa o esegue pagamenti. Nel corso del 2023 la liquidità disponibile sul conto di tesoreria è stata piuttosto bassa rispetto al passato, suggerendo una situazione di ristrettezza nei flussi di cassa dello Stato dopo l’esaurirsi degli acquisti di titoli da parte della BCE (Fig. 1). In proposito, la Fig. 2 mostra il rapporto fra il conto corrente di tesoreria nel mese di luglio di ogni anno e il livello di spesa dell’anno corrispondente. Inoltre, la quantità di risorse in conto corrente del 2023 è bassa anche mettendo a confronto la media della disponibilità dei primi sette mesi di ogni anno, come mostrato dalla Fig. 3. In generale, la scarsa disponibilità dei depositi potrebbe riflettere la necessità del governo di contenere la crescita del debito pubblico pur in presenza di un andamento relativamente debole dei conti pubblici. La minore liquidità pubblica ha però effetti indesiderabili: espone al rischio di dover ricorrere, in presenza di shock avversi, a emissioni di titoli concentrate nel tempo e quindi a un improvviso aumento dei tassi di interesse.

  • Nadef, il problema è il debito

    Un maggior declino del rapporto tra debito pubblico e Pil è impedito dall’ancor debole saldo del bilancio primario (ancora in deficit nel 2024) e dal fatto che il debito sarà alimentato anche dall’impatto di cassa dei bonus edilizi (il cui effetto sul deficit è contabilmente registrato soprattutto nel periodo 2020-2023). Tuttavia, anche solo per raggiungere lo 0,8 per cento in media annua occorre che, dopo il calo del secondo trimestre (-0,4 per cento), il Pil registri un discreto rimbalzo nella seconda parte dell’anno (ad esempio, +0,2 per cento e +0,3 per cento nel terzo e quarto trimestre rispettivamente). Per arrivare ai tassi di crescita previsti dal governo nel 2024-25 sarebbe necessario mantenere, dopo il rimbalzo ipotizzato sopra per il 2023, una crescita trimestrale dello 0,3-0,4 per cento nel corso del biennio, a tassi quindi un po’ più alti di quelli considerati nella stessa Nadef come crescita del Pil potenziale dell’Italia. L’inflazione è una variabile chiave per i conti pubblici in quanto è una componente del Pil nominale che sta al denominatore del rapporto debito/Pil e perché il Pil nominale è la variabile cruciale da cui dipende il gettito fiscale. Un divario fra i due deflatori può essere giustificato dal fatto che nel 2024 viene ipotizzata una caduta (ulteriore rispetto a quella del 2023) dei prezzi all’import (-0,2 per cento a fronte di -5,4 per cento nel 2023), per via di una graduale stabilizzazione dei mercati energetici. Per esempio, se il deflatore del Pil avesse lo stesso andamento del deflatore dei consumi, il Pil nominale crescerebbe del 3,5 per cento, invece del previsto 4,1 per cento, il che sarebbe da solo sufficiente a determinare una crescita del debito/Pil, anziché la leggerissima discesa prevista dalla Nadef. In sostanza fra il Def e la Nadef, il deficit (di cassa) è aumentato di ben 16 miliardi (0,8 per cento del Pil) nel 2024 e 18 miliardi (0,9 per cento del Pil) nel 2025, per un totale di maggior debito di ben 34 miliardi.

  • Una gara al ribasso: cosa cambia per i nidi nel nuovo PNRR

    Di conseguenza, la copertura prevista a fine progetto scenderebbe da 46 posti a 39 posti ogni cento bambini di 0-2 anni di età. Gli ultimi dati disponibili (per l’anno scolastico 2021/2022) indicano una copertura del 28 per cento, in aumento tendenziale rispetto al passato ma principalmente per il calo del numero di bambini e non per l’aumento dei posti. La situazione è dunque lievemente migliorata, ma solo per effetto del calo del numero dei bambini che è sceso più del numero dei posti disponibili (Tav. 1). La distribuzione dei posti è squilibrata sul territorio nazionale: nel Sud, senza alcun progresso negli ultimi due anni, la copertura nel 2021/2022 è stata del 16 per cento, contro il 33 per cento al Nord e il 37 per cento al Centro. Peraltro il calo della copertura è “mitigato” dalla diminuzione delle stime sulla popolazione di 0-2 anni nel 2026 (da 1.220.114 a 1.194.320 bambini; Tav. 2), dovuta al più rapido calo demografico: se usassimo le stime precedenti, l’obiettivo di copertura scenderebbe al 37,7 per cento, un punto in meno. Si vedano le nostre precedenti note: “ Un aggiornamento sulla situazione degli asili nido in Italia ”, 7 maggio 2022; “ Quanto aumenta la disponibilità degli asili nido con il PNRR ”, 5 novembre 2021; “ La questione degli asili nido del PNRR ”, 14 maggio 2021; “ Asili nido: a che punto siamo e quante risorse servirebbero per potenziarli ”, 8 luglio 2020. Questa stima è basata sull’ipotesi che il taglio di 114.000 posti tra asili nido e scuole dell’infanzia sia ripartito proporzionalmente rispetto all’originale ripartizione dei 264.489 posti tra i due tipi di istituto.

  • Inflazione, tassi di interesse nominali, tassi reali e mutui a tasso variabile

    In una semplice formula: r i - infl Il tasso di interesse reale ( r ) è quasi uguale () al tasso di interesse nominale ( i ) meno il tasso di inflazione ( infl ). Il che significa che negli ultimi tre anni il tasso di interesse reale (della BCE) è stato negativo in una misura che non ha precedenti nella storia dell’Unione Monetaria. Chi ci guadagna e chi ci perde? La considerazione fondamentale che si può fare riguardo a situazioni in cui il tasso di interesse reale è negativo è che ci guadagnano i debitori e ci perdono i creditori. Aritmeticamente, la ragione per cui con inflazione più alta la rata è più pesante all’inizio è che la quota interessi è più alta perché in questo caso si ha l’11,1 per cento di 100.000 e nell’altro il 4 per cento di 100.000. Appendice: i tassi di interesse nei modelli econometrici In quasi tutti i modelli econometrici il tasso di interesse che rileva nelle equazioni dell’economia reale (consumi, investimenti, rapporto desirato fra capitale e lavoro ecc.) è il tasso di interesse reale. Occorre usare la formula che definisce il tasso di interesse reale, ossia: (1+i)/(1+infl) dove – ricordiamo – i è il tasso di interesse nominale e infl è il tasso di inflazione. Dato che in questo caso non ha importanza se il mutuo è tasso variabile o a tasso fisso (perché il tasso di interesse non varia), la formula utilizzata per l’ammortamento è quella standard per un mutuo a tasso fisso.

  • Quasi azzerato l’import di gas russo

    Questo ha riflesso un calo nel consumo di energia per unità di prodotto, una sostituzione al gas di altre fonti di energia (i consumi di gas sono scesi dal 2019 del 17 per cento) e, soprattutto, lo spostamento verso altri Paesi delle fonti di approvvigionamento di gas. Le importazioni dalla Russia sono così scese da 30 miliardi di metri cubi nel 2019 (il 40 per cento del consumo di gas di quell’anno), a 2,9 miliardi (circa il 5 per cento dei consumi del 2023). L’intensità energetica, ossia l’energia consumata (misurata in tonnellate equivalenti di petrolio greggio, TEP) per unità di Pil a prezzi costanti si è ridotta dell’8 per cento nel 2022, raggiungendo il livello più basso degli ultimi anni (Tav. 1). Ma il forte calo osservato nei consumi di gas (-10,1 per cento) e dei derivati del petrolio (-1,5 per cento), compensati solo da un piccolo aumento nei consumi di carbone (3 per cento), suggeriscono che l’intensità energetica si sia ridotta ulteriormente nel 2023. Già nel 2022 la quota del gas sui consumi totali di energia è scesa di circa due punti e mezzo (una diminuzione di sette miliardi e mezzo di metri cubi, il 10 per cento in meno del 2021). La quota russa delle importazioni di gas dell’Italia è scesa da oltre il 40 per cento degli anni precedenti il 2022 (più di 30 miliardi di metri cubi l’anno) a meno del 5 per cento nel 2023 (2,9 miliardi). Tenendo conto del GNL, l’Algeria ora rappresenta di gran lunga il maggior fornitore di gas naturale per l’Italia: la sua quota (41 per cento dei consumi nel 2023) è simile a quella che aveva la Russia prima del 2022.

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