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Il finanziamento dei partiti politici
Tuttavia, il 67% dei finanziamenti resta di natura pubblica ed è riconducibile ai contributi ai gruppi parlamentari da parte di Camera e Senato e alle donazioni tramite 2 per mille: si tratta di circa 73 milioni l’anno. La legge intendeva contrastare i fenomeni di corruzione, dato che, in assenza di tali contributi, i partiti avrebbero dovuto contare solo su finanziamenti da privati, i quali si sarebbero quindi trovati a poter esercitare pressioni da posizioni di favore. Nel 2022 si trattava di 53 milioni di euro (31 milioni per la Camera e 22 milioni per il Senato); [5] la destinazione volontaria del 2 per mille dell’imposta sul reddito (Irpef), alla quale possono accedere partiti che abbiano conseguito almeno un eletto nell’ultima elezione per Senato, Camera o Parlamento europeo. Nel 2023 l’importo versato ai partiti da questa fonte è stato di circa 24 milioni (Tav. 1), grazie alla decisone presa da 1,7 milioni di contribuenti (il 4,2% del totale), in crescita rispetto ai circa 20 milioni del 2022. I contributi dei privati ai partiti Come in altri Paesi, i partiti possono ricevere anche donazioni da privati, purché rispettino requisiti di trasparenza e democraticità, tra cui la redazione di un bilancio certificato dall’esterno e sottoposto al controllo di un’apposita commissione. Lo “ Short Money ” è un finanziamento pubblico destinato ai partiti di opposizione per sostenere le loro attività parlamentari nella Camera dei Comuni, mentre il “ Cranborne Money ” è un fondo simile per i partiti di opposizione nella Camera dei Lord. L’ammontare di finanziamento pubblico per il Labour Party nel 2022 fu di 7,3 milioni di sterline (a fronte di 39,9 milioni di fondi non pubblici) e il totale per tutti i partiti ammontava a 12 milioni (contro più di 86 milioni di sterline di fondi non pubblici).
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Conti pubblici, il rischio Italia nel contesto globale
Le previsioni su deficit e debito A livello globale, così come per i principali Paesi, il debito pubblico è salito enormemente nell’anno del Covid; poi è sceso, per via dell’inflazione, nel 2021-2022 ed è tornato a crescere nel 2023. Il principale elemento di novità che emerge da questa tavola riguarda la Grecia: attualmente questo Paese ha il debito più alto di tutta l’UE (168,8 per cento nel 2023), ma la previsione è di una fortissima caduta (ben 30 punti di Pil) entro il 2029. In particolare, il FMI ritiene che la crescita del Pil sarà più bassa di quella prevista dal governo (con un gap di quasi un punto nel 2026), il che sembra riflettere l’opinione degli analisti del FMI che l’Italia non abbia superato i suoi vincoli strutturali alla crescita del potenziale produttivo. Al momento la situazione che si presenta alla Commissione è rappresentata nella Fig. 1, che mostra come si sono collocati i Paesi europei nel 2023 rispetto all’asse del debito (con la nota soglia del 60 per cento) e del deficit (con la soglia del 3 per cento). Il primo è che più della metà dei Paesi UE ha registrato nell’anno appena trascorso un debito al di sotto del 60 per cento del Pil; diversi sono anche i Paesi che hanno un debito/Pil al di sotto del 90 per cento. Il secondo fatto di rilievo è che tra i Paesi che superano la soglia del 60 per cento di debito, solo 6 (Italia, Ungheria, Francia, Belgio, Spagna e Slovenia) hanno un deficit che supera il 3 per cento. Per l’Italia ciò ha comportato una riduzione dei titoli di Stato detenuti dalle banche centrali dal picco di 739,3 miliardi raggiunto a luglio 2022 (circa il 37,7 per cento del Pil) ai 688,9 miliardi di marzo 2024 (31,9 per cento del Pil).
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“Eravamo trentaquattro quelli della terza E”: il mito delle classi pollaio in Italia
Nel corso degli ultimi decenni, l’aumento del numero di insegnanti da un lato e la riduzione della popolazione studentesca dall’altro ha portato l’Italia a posizionarsi sotto la media OCSE sia per numero di studenti per classe che per numero di studenti per insegnante. In quest’ultimo periodo l’aumento è stato particolarmente forte per gli insegnanti di sostegno (+80,5% rispetto all’anno scolastico 2014/2015) e il numero di studenti con disabilità per insegnante di sostegno è sceso ormai sotto la soglia fissata come obiettivo nel 2007. Questa nota (1) aggiorna le informazioni sul numero degli insegnanti nella scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado e (2) analizza l’andamento negli anni del numero delle diverse tipologie di insegnanti. Nella prima, che comprende gli anni Settanta, gli anni Ottanta e la prima parte degli anni Novanta, il numero degli insegnanti è cresciuto nonostante la riduzione del numero degli studenti dovuta al calo demografico. Nella seconda, dalla metà degli anni Novanta all’inizio degli anni Dieci di questo secolo, il numero di insegnanti e studenti resta più o meno costante, stabilizzandone il rapporto, anche se con una leggera flessione negli ultimi anni del periodo. Nella terza, dall’a.s. 2014/2015 a oggi, il numero degli insegnanti è però cresciuto di 155.374 unità, con un corrispondente forte aumento del rapporto tra numero di insegnanti e di studenti. L’aumento del numero degli insegnanti di sostegno va incontro all’esigenza di seguire più da vicino gli studenti che hanno particolari esigenze: nel 2022/2023 il numero di studenti per insegnanti di sostegno era sceso a 1,6, meglio dell’obiettivo di 2 previsto dalla legge 244/2007.
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Sussidi alle imprese: pro o contro?
Transizione che – ancor più della “guerra dei chip” nel cruciale settore ad alta intensità di capitale della componentistica microelettronica – sconvolge gli scenari previsivi dell’occupazione (e di conseguenza della sostenibilità del welfare state) nei Paesi ricchi. Pochi sono i Paesi avanzati privi di qualche impianto di autoveicoli (la Svizzera, Singapore, ormai anche l’Australia, che nel 2017 ha chiuso la sua ultima fabbrica Holden con 955 dipendenti, sensibilmente meno dei 50.000 di quando anni fa operavano fabbriche in partnership con USA, Giappone e Regno Unito). Il medesimo lavoro suggerisce inoltre che l’effetto pro-trade dei sussidi non sembra produrre sensibili cambiamenti nel modello di specializzazione settoriale e geografica dei Paesi interessati: il che non conforta i sostenitori dei sussidi come arma per modificare in profondità i vantaggi comparati del Paese nell’arena internazionale. Per quanto riguarda le imprese a controllo di capitale pubblico, è da attendersi che, nel rispetto delle regole europee e nazionali della concorrenza, esse facciano scelte di investimento con le suddette linee-guida del governo. Almeno in linea di principio, incentivi e sussidi non sono disegnati dal governo in funzione degli interessi di singole imprese o gruppi di imprese (“pick the winner”) ma unicamente in funzione degli obiettivi di sviluppo e crescita della produttività. Conclusioni In un contesto di rivalità oligopolistica, la politica industriale si caratterizza crescentemente per una sua dimensione “geostrategica”, in cui obiettivi di sviluppo economico e tecnologico si intrecciano alla politica di difesa e sicurezza (anche alimentare), energia, salute, trasformazione digitale della società. Finora più di 100 aziende europee della filiera degli EV hanno annunciato investimenti prossimi negli Stati Uniti mentre la VW attende il benestare dalla Commissione europea per un impianto di batterie in Europa orientale che si candiderebbe a ricevere dagli USA 10 miliardi di euro di incentivi previsti dall’IRA.
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L’autonomia differenziata nella “tutela della salute”
della Costituzione è datato 2001, il percorso della sua attuazione è iniziato solo nel 2017, quando l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto (la prima su mandato del Consiglio regionale, le altre su mandato popolare dopo un referendum consultivo) hanno intavolato un negoziato con il governo Gentiloni. Ma con la fine del governo Conte I e l’arrivo del nuovo governo Conte II, il confronto tra l’esecutivo e le Regioni si è fatto più acceso, anche perché stabilire quali funzioni possano essere effettivamente devolute alle Regioni nell’ambito di 23 materie molto diverse è estremamente complicato. Il tentativo di responsabilizzare le Regioni dal lato del finanziamento, come suggerito dalla letteratura economica sul federalismo fiscale, è stata la soluzione pensata quegli anni per risolvere il problema delle aspettative di ripiano dei disavanzi che aveva caratterizzato la sanità regionale degli anni Ottanta. Le nuove richieste delle Regioni Nel quadro che abbiamo delineato, la legge 86/2024 apre alle Regioni la possibilità di chiedere ulteriori funzioni anche in materia di “tutela della salute”. Per esempio, in assenza di specifici finanziamenti, si può argomentare che la possibilità di rimuovere alcuni dei vincoli di spesa collegati al personale, al momento sottoposti alla normativa statale, avrebbe dovuto comunque sottostare al vincolo di bilancio che dipende da una allocazione delle risorse con criteri definiti dallo Stato. Queste diseguaglianze nei LEA e negli outcome di salute si osservano nonostante le risorse siano distribuite in modo relativamente omogeneo tra le Regioni, grazie alla funzione di perequazione rispetto alla disponibilità di risorse svolta proprio dallo Stato centrale. Quello che è mancato finora, ed è illustrativo di quello che potrà accadere anche con i LEP, è l’adozione di politiche che favoriscano davvero la convergenza verso standard di servizio comuni.
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Defense expenditure in EU countries
La versione IEP@BU è disponibile online: Policy Brief: Defense Expenditure in EU Countries | IEP@BU . Un articolo di Carlo Cottarelli, Leoluca Virgadamo Download scarica il pdf.
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Il voto dei mercati al voto francese
In particolare è possibile, vista la situazione, che la Commissione conceda qualche spazio di flessibilità in più alla Francia sull’aggiustamento dei conti, benché il Paese, come l’Italia e il Belgio, sia stato appena messo in procedura di infrazione. La crisi è rientrata solo a seguito della famosa dichiarazione del “ Whatever it takes ” di Mario Draghi nel 2012, seguita dall’introduzione di strumenti sia fiscali (il Mes) che monetari (le Outright Monetary Transactions , OMT) che concretizzavano l’impegno assunto dalle istituzioni europee. A detta di molti, l’annuncio di Draghi ha di fatto cambiato la natura della BCE, che ha assunto pienamente la sua funzione di “ lender of last resources ”, cioè della sua abilità di intervenire per stabilizzare le aspettative dei mercati in presenza di situazioni di panico finanziario. Inoltre, benché la Francia abbia una situazione di bilancio difficile (vedi più avanti), certificata dalla decisione della Commissione a giugno di porre il Paese sotto procedura di infrazione per deficit eccessivi, il programma di RN prevede un forte aumento del deficit. A riprova, le tavole che seguono riportano gli indici di correlazione tra gli spread dei vari Paesi con quello francese, prima delle elezioni europee (cioè, tra marzo e maggio 2024) (Tav. 2), e successivamente, cioè a partire dall’8 giugno (Tav. 3), [8] l’inizio del periodo elettorale francese. Una seconda possibilità è che si riesca invece a formare un governo politico; di necessità, dovrebbe trattarsi di un governo di coalizione tra moderati, centristi e (parte della) sinistra che ha ottenuto la maggioranza relativa. In entrambi i casi, alla luce delle piattaforme elettorali dei vari partiti, sembra improbabile che governi del genere possano varare una seria politica di risanamento dei conti, come la situazione francese richiederebbe e come le regole europee e la procedura di infrazione appena aperta imporrebbero.
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Autonomia differenziata e conti pubblici: qualche simulazione
Se dunque le regioni del Nord si coalizzassero per ridurre l’ammontare dei trasferimenti verso il Mezzogiorno avrebbero un pool di risorse molto scarso a cui attingere, a meno di ipotizzare dei veri e propri disastri nel sistema di welfare delle regioni meridionali. La cosiddetta legge Calderoli sull’autonomia differenziata trae origine dall’intenzione di alcune regioni del Nord Italia di trattenere all’interno del proprio territorio una quota maggiore di risorse tributarie e contributive che da quello stesso territorio hanno avuto origine. Nella legge Calderoli il concetto è espresso nel modo seguente: “L’intesa di cui all’articolo 2 [quella che definisce l’accordo preliminare tra lo stato e ogni singola regione] individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale… (art. c. 2 della legge, relativo al monitoraggio, che stabilisce che ogni anno la Commissione paritetica fra lo Stato e la singola regione provveda alla “ricognizione dell’allineamento fra i fabbisogni di spesa già definiti [in teoria, sulla base dei Lep] e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati. Qualora la suddetta ricognizione evidenzi uno scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi, anche alla luce delle variazioni del ciclo economico, il Ministro dell’Economia e delle Finanze adotta [...] su proposta della Commissione paritetica, le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione […]”. La regione che ha versato di più allo Stato è la Lombardia che ha un avanzo di bilancio di ben 56,8 miliardi di euro, quasi il 60% del residuo del Centro-Nord e il 90% del residuo fiscale – positivo – del Mezzogiorno. Qualora lo Stato cercasse di ovviare a questa diminuzione di risorse penalizzando il Mezzogiorno, la riduzione della spesa per il Sud sarebbe pari al 6,2% del suo Pil. La semplice aritmetica che spiega questo risultato è, essenzialmente, che il Pil del Centro-Nord è il 78% del Pil nazionale e 78/22=3,5.
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Dati e divergenze: il confronto regionale nei servizi pubblici
Già ora le differenze regionali nei servizi sono evidenti, con il Nord che ottiene risultati migliori rispetto al Sud in quasi tutti gli indicatori considerati (LEA per sanità, posti-km per il trasporto pubblico locale, Invalsi per istruzione e posti asili nido). L’analisi dei servizi gestiti da diversi livelli di governo mostra inoltre una correlazione positiva tra reddito, capitale sociale e qualità dei servizi. L’esistenza di diseguaglianze tra diverse aree del Paese emerge chiaramente anche dalle opinioni dei cittadini raccolte attraverso una indagine recente condotta dall’Istituto Demopolis per la “Fondazione con il Sud”. A livello regionale, l’analisi si concentra sulla sanità e le diseguaglianze verranno misurate sul punteggio ottenuto nei monitoraggi dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), un indicatore chiave per valutare la qualità e l’efficacia dei servizi sanitari offerti nelle diverse Regioni. e 4 vengono mostrati i punteggi LEA, ovvero i punteggi ottenuti dalle amministrazioni regionali nel monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza, che sono tutte le prestazioni e i servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini. Le Regioni del Nord, generalmente più ricche e con un capitale sociale più sviluppato, sono infatti quelle che presentano un tasso di copertura dei posti asili nido più ampio rispetto alle Regioni del Sud, dove tali indicatori sono inferiori. Infine, anche in ambito di competenze locali, come i servizi degli asili-nido e del trasporto pubblico locale, le Regioni del Sud incontrano notevoli difficoltà nel raggiungere i livelli di servizio delle Regioni del Centro-Nord.
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Cosa prevede davvero la legge sull’autonomia differenziata e perché è tanto controversa
Alla fine, le scelte cruciali (federalismo responsabile o centralizzazione delle risorse; Stato arlecchino o omogeneità di funzioni; peso relativo delle funzioni dello Stato e delle regioni) sono rimandate. Quello che si può dire è che la legge non esclude che possano prevalere scenari assai preoccupanti sia per il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni sia per i conti pubblici. della Costituzione e cioè tutte le venti materie che attualmente sono definite “concorrenti”, ossia sulle quali vi è una competenza condivisa fra lo Stato e le RSO, più tre materie (giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, ambiente e beni culturali) che attualmente sono di competenza esclusiva dello Stato. Ricordiamo che per le materie concorrenti la Costituzione prevede che spetti “alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Esso recita infatti: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. Forse questa è l’unica finestra rimasta che potrebbe consentire alle regioni che crescono di più o fanno un uso più oculato delle risorse di trattenere le risorse sul proprio territorio. Vi è anche il rischio di duplicazioni di costi fra lo Stato centrale e le regioni, se solo alcune regioni chiedono l’attribuzione di una determinata materia, e del venir meno di economia di scala e di scopo.
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BCE, curva per scadenze e spesa per interessi sul debito pubblico
Queste tendenze (aumenti dei tassi nel 2022-2023 e riduzioni nel 2024) sono comuni a quasi tutti i Paesi avanzati (con la rilevante eccezione del Giappone), perché quasi ovunque l’inflazione è salita nel 2022 e nel 2023 e si è fortemente ridimensionata nel 2024. Ci sono state però notevoli riduzioni dei tassi a breve-medio termine, fino alla scadenza dei tre anni, nei giorni precedenti e successivi alle decisioni; sono rimasti invece pressoché invariati i tassi sui titoli con tripla A sulle scadenze più lunghe. Nel seguito di questa nota osserviamo cosa è successo effettivamente ai tassi di interesse a breve e lungo termine in seguito alle due decisioni della BCE (12 giugno e 12 settembre) di ridurre i tassi di policy. Qualche ipotesi tecnica per semplificare il problema La via maestra per calcolare gli effetti di variazione dei tassi di interesse sul costo del debito è quella di impiegare un modello che consideri tutti i principali titoli del debito pubblico e incorpori tutte le informazioni sulle loro scadenze. In genere, l’ipotesi di lavoro è che la banca centrale non cambi mai più i tassi, per cui l’intera curva per scadenze (prima o poi) si muoverà nella stessa misura dei tassi di policy. Questo ovviamente significa che le riduzioni dei tassi spot oltre i 4 anni sono molto modeste e non sono dovute a una riduzione delle aspettative di inflazione, ma solo alle riduzioni attese dei tassi di policy nei prossimi mesi. Come per l’Euribor i tassi a 12 mesi sono scesi di più dei tassi a 6 e 3 mesi, perché vi sono aspettative di riduzione dei tassi anche per il 2025.
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I residui fiscali: più trasparenza migliorerebbe il dibattito sulle autonomie
I trasferimenti sono dovuti al fatto che i redditi dei residenti del Sud sono più bassi, ed è quindi più basso il contributo che essi danno alle entrate delle pubbliche amministrazioni. E per le regioni per cui è vera è importante notare che ciò non è dovuto a un eccesso di spesa a favore del Mezzogiorno, ma al fatto che i redditi nel Sud sono più bassi; quindi, il loro contributo fiscale è minore. A parità di reddito, un cittadino veneto e uno campano dovrebbero ricevere gli stessi servizi e pagare le stesse imposte; e dato che in Campania i redditi sono mediamente più bassi che in Veneto, la Campania è una regione che beneficia di trasferimenti netti dal resto del Paese. La Lombardia è stata la regione che ha contribuito di più allo Stato, con un avanzo di bilancio di 56,8 miliardi di euro, pari quasi al 60% del residuo fiscale del Centro-Nord e al 90% del residuo fiscale positivo del Sud. Sebbene, come mostriamo nel seguito di questa nota, questi dati non siano il frutto di un eccesso di spesa nel Mezzogiorno, è comprensibile che una redistribuzione così significativa di risorse, che è avvenuta costantemente dal dopoguerra a oggi, [3] possa suscitare obiezioni. La distribuzione della spesa Secondo i dati originali della Banca d’Italia, il Mezzogiorno risulta svantaggiato in termini di ripartizione della spesa rispetto al Centro-Nord: nel 2019 la spesa primaria pro capite della PA è stata di 12.401 euro al Sud contro 13.959 euro del Centro-Nord, una differenza di quasi 1.600 euro (Tav. 2). Riassumendo, la nostra analisi mostra che i trasferimenti dal Nord al Sud non sono dovuti a eccessi di spesa al Sud, ma al fatto che i redditi dei residenti del Sud sono più bassi e quindi sono più basse le tasse e i contributi pagati dai residenti del Sud.
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Quanto dovrebbero essere aumentati gli stipendi dei dipendenti pubblici?
Con la sigla, il 22 febbraio scorso, dell’usuale accordo che definisce i comparti dei dipendenti della Pubblica Amministrazione (PA) a cui si riferiranno i contratti collettivi nazionali, è iniziata la negoziazione degli aumenti salariali (e degli altri aspetti contrattuali) dei dipendenti della PA per il periodo 2022-2024. Secondo il ministro della Pubblica Amministrazione Zangrillo, le trattative daranno priorità ai comparti delle Funzioni Locali, della Sanità e al settore “Difesa e Sicurezza”, che include il personale in regime di diritto pubblico impiegato nella Polizia, nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di finanza e nelle Forze armate. Si tratta infatti di un’importante voce di spesa per i conti pubblici: il monte salari nel 2023 era di 186,5 miliardi, quasi il 9% del Pil. Gli aumenti salariali nel 2022-2024 [2] Cominciamo considerando gli aumenti che si sono già verificati nel triennio 2022-2024 in assenza di contratti (Tav. 1), in particolare per il settore statale. La legge di bilancio per il 2023 ha stanziato poi 1 miliardo come misura “una tantum” per l’anno stesso, che si è tradotto, insieme ai 500 milioni di risorse dell’IVC, in un aumento del l’1,6% delle retribuzioni del settore statale, sempre rispetto al 2021. Dopo una sostanziale stabilità nella seconda parte degli anni Dieci, e un aumento nel 2020 (in presenza di una discesa dei prezzi al consumo), le retribuzioni reali sono scese tra il 2020 e il 2023 del 12% per il settore pubblico e di poco meno dell’11% per il settore privato. In quest’ultimo negli ultimi trimestri le retribuzioni contrattuali sono già aumentate più rapidamente dei prezzi (3,5% contro 1,1% nel primo trimestre del 2024 rispetto allo stesso trimestre del 2023) ed è probabile che la tendenza continui via via che i contrati triennali privati vengono rinegoziati. Negli ultimi anni, la compressione dei salari pubblici dovuta all’inflazione ha reso disponibili risorse per alimentare nuove spese o tagli di tasse: il monte salari è sceso dal 9,7% del Pil nel 2021 a una stima del 9,1% del Pil nel 2024.
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Europa, le tre verità sul Mes
L'offerta di una linea di credito precauzionale del Mes specificamente dedicata all'attuale emergenza sanitaria dovuta al Covid 19 ha acceso un dibattito vivace. La scelta, alla fine, spetta a chi ha la responsabilità di governo ma, nell'interesse della democrazia, deve avvenire in maniera trasparente, sulla base di una nitida visione delle implicazioni legislative ed economiche. Il Consiglio europeo ha confermato che la condizione sarebbe una, standard per ogni Stato dell'area dell'euro: la destinazione di queste risorse al sostegno di spese necessarie per affrontare i costi, diretti e indiretti, dell'emergenza sanitaria. Ne usufruiscono gli organi decisionali del Mes e la Commissione europea quando negoziano il formale "accordo sul dispositivo di assistenza" con lo Stato che l'abbia chiesto e che deve firmarlo (vedi articolo 13 trattato Mes). A questo non si sfugge, ma cosa implica? Di sicuro non comporta automaticamente il "programma di aggiustamento macroeconomico": è contemplato all'articolo 7, ma escluso (vedi paragrafo 12) proprio per l'assistenza finanziaria precauzionale, come quella di cui parliamo. Sulla base di recenti dichiarazioni di alti dirigenti del Mes non è irrealistico ipotizzare un tasso di interesse di mezzo punto percentuale per un prestito settennale. Poiché il nostro tasso di interesse di mercato per tale scadenza è attualmente di circa un punto e mezzo, il risparmio sarebbe di un punto percentuale l'anno che significherebbe un risparmio cumulato di due miliardi e mezzo (un po' meno al netto della tassazione degli interessi sul debito).
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Don’t worry about another debt crisis
This year the ECB, through its new Pandemic Emergency Purchase Programme and other programs, will buy eurozone securities amounting to 1.1 trillion. Of that, some 940 billion are likely to go into government securities (assuming the share of total purchases going into government securities remains broadly in line with past ECB policies). Net purchases of Italian government paper by the ECB are likely to amount to some 10 percent of Italy’s GDP. This is enough to cover the 8.3 percent deficit projected this year by the IMF, while leaving the ECB room to buy up outstanding debt currently held by financial markets. When it comes to assessing the risk of a possible default, the fact that the public debt of countries like Italy will be in the hands of the ECB rather than the financial markets is an important distinction. Central banks, even independent ones like the ECB, are public institutions. (In the case of the eurozone, governments that borrow from the ECB receive the profits from the loans back, as payments from the ECB to national banks). Higher inflation can actually help reduce public debt ratios through the erosion of public debt in circulation, as happened in the 1970s, thus improving public debt sustainability.
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«Mes, nessuna trappola. Però all’Italia non basta: serviranno 500 miliardi»
C’è chi fa riferimento a un articolo del regolamento del cosiddetto “two pack” per sostenere che la condizionalità sul deficit può essere introdotta anche successivamente. A me non sembra, ma è una questione che può essere facilmente accertata prima di richiedere il prestito. Se si fosse seguita questa logica, non ci sarebbero stati né il quantitative easing della Bce, né il programma Omt. Il punto è che le istituzioni evolvono e molte scelte che in Europa sembravano impossibili poi sono state fatte». Che differenza c’è con gli eurobond? «Eurobond è solo un nome, inventato una decina di anni fa per comprendere un insieme di proposte finalizzate a mutualizzare il debito pubblico degli Stati membri attraverso l’emissione di titoli. E i recovery bond? «La cosa di cui si sta parlando è diversa: si tratta di emettere titoli in comune che vanno a finanziare una spesa che si decide in comune. Ma questi rischi sono attenutati dal fatto che una parte del debito, almeno un quarto, sarà detenuto da Bce, cioè da Banca d’Italia, che certo non si mettono a speculare contro l’Italia. La prima sono le discussioni italiane sul Mes. La seconda è che pian piano i mercati si stanno rendendo conto che il finanziamento garantito dalla Bce non è tutto quello che abbiamo bisogno.
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Il vero scudo anti spread
Il tasso di interesse sui BTP decennali è salito di una decina di punti base per poi scendere vicino ai valori precedenti il declassamento. Forse anche più importante di questo è il programma di massicci acquisti di titoli di stato deciso della BCE. Quest’anno la BCE, tramite la Banca d’Italia, acquisterà circa 220 miliardi di titoli di stato, alleviando di molto il peso degli acquisti da parte degli operatori finanziari privati. Il declassamento deciso da Fitch è giustificato? Fitch dice che il declassamento è dovuto all’impatto che la crisi avrà sull’economia italiana e soprattutto sul debito pubblico che è previsto salire dal 135 al 156 per cento del Pil entro la fine dell’anno, stabilizzandosi poi a questo livello elevatissimo negli anni seguenti. Il debito detenuto dal mercato aumenterà rispetto al Pil, vista la discesa di quest’ultimo, dal 113 al 119 per cento, ma il rapporto risulterà comunque molto più basso che nel 2014 (129 per cento), prima che iniziassero le operazioni di quantitaive easing decise dalla BCE di Mario Draghi. Visto che la BCE non intraprenderà certo operazioni speculative contro i nostri titoli di stato, la sua detenzione di una quota elevata dei nostri titoli di stato è un elemento di stabilità. Finché la Banca d’Italia deterrà i titoli di stato nel proprio bilancio, il rischio di una crisi di fiducia nella solvibilità del nostro stato risulterà attenuato. Quali sono allora i rischi? Il principale è che, per effetto dell’immissione massiccia di liquidità e di tassi di interesse molto bassi, più in là nel tempo, una volta superata la crisi del coronavirus, l’inflazione, ora inesistente, aumenti.
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L’ennesimo condono fiscale vero difetto del piano Colao
Certo, “è la politica che deve decidere” (che scoperta!), ma dopo aver chiesto un parere a tecnici indipendenti, sarebbe anche giusto se la politica spiegasse perché certi consigli non sono stati accettati. Insomma, mi coglie un senso di déjà-vu… Ma non è di questo che voglio parlarvi, né della difficoltà di capire perché il Presidente del Consiglio, prima ancora che venisse finalizzato il piano Colao (da lui stesso nominato), abbia deciso di convocare gli “Stati Generali dell’Economia”. Certo, ci sono i finanziamenti europei del piano Next Generation EU, che saranno proprio volti a realizzare iniziative di rafforzamento strutturale dei paesi UE. Ma è impossibile valutare del tutto la validità e la fattibilità di un piano, anche rispetto a possibili alternative, senza conoscerne il costo. A pagina 10 di quest’ultimo si dice che la riforma della giustizia “con l’obiettivo di ridurre i tempi e aumentare la certezza della giustizia civile, è imprescindibile per un Paese che intenda attrarre gli investimenti esteri e aumentare quelli domestici”. Il problema è che l’efficacia di tante altre riforme proposte da Colao possono funzionare bene solo se riusciremo a far funzionare bene anche la giustizia, e non solo quella civile, ma anche quella penale e amministrativa. Fra l’altro, l’idea che “il 40%/60%” dei fondi debbano essere investiti in strumenti che supportino il rilancio del Paese non è molto convincente: i fondi potrebbero essere investiti anche in società di proprietà dell’evasore stesso, cosa che magari sarebbe avvenuta lo stesso utilizzando altre risorse detenute in Italia. Un vero peccato che un rapporto che contiene tante ottime proposte di ammodernamento ne contenga anche una così legata alle peggiori tradizioni della nostra economia.
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Eurozona, la sola BCE non basta
È il nome, non proprio facile da pronunciare, della Corte Costituzionale tedesca che martedì scorso ha pubblicato una sentenza di non poco conto per il futuro dell’Unione Europea. La sentenza riguarda le operazioni di Quantitative Easing (QE), ossia gli acquisti di titoli, soprattutto pubblici, da parte della BCE. Questi acquisti sono intrapresi per stimolare l’economia: quando la BCE compra titoli dalle banche, la liquidità di queste ultime aumenta, il che permette un aumento dei prestiti. Il problema è che la BCE ha di recente eliminato o attenuato tali vincoli rispetto agli acquisti di titoli lanciati quest’anno in risposta alla pandemia. In sostanza la Corte tedesca dice che il volume e la durata delle operazioni di QE intraprese a partire dal 2015 (2500 miliardi in pochi anni) sono tali da avere implicazioni che vanno ben al di là delle attività di politica monetaria. Non entro nel merito di queste argomentazioni, anche se mi sembra davvero curioso che la corte tedesca si accorga che la politica monetaria, influenzando i tassi di interesse, abbia effetto su diversi aspetti del funzionamento dell’economia (è quello che gli economisti chiamano il “meccanismo di trasmissione della politica monetaria”). Sulla base di queste argomentazioni la Corte tedesca chiede alla BCE di spiegare perché ritenga che gli obiettivi monetari del QE siano “proporzionati” rispetto agli effetti economici e fiscali che causano. La BCE, tramite la Banca d’Italia, continuerebbe gli acquisti di titoli di stato italiani, che è quello che per noi conta.
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Le detrazioni fiscali per spese sanitarie
L’Irpef rimane l’imposta con il maggior numero di agevolazioni (deduzioni, detrazioni e altri regimi di favore) pari a circa 200 voci complessive, di cui le detrazioni sanitarie rappresentano circa i due terzi (3,8 miliardi di euro). Questo nonostante solo una parte della spesa sanitaria privata venga effettivamente recuperata: a fronte di una spesa privata di circa 41 miliardi di euro nel 2023, solo 21,7 miliardi di spesa sono stati effettivamente portati in detrazione dai contribuenti. Tra il 2018 e il 2024, il numero delle agevolazioni è cresciuto addirittura di un terzo, passando da 466 a 625, mentre la perdita complessiva di gettito è raddoppiata, passando da 54 a 105 miliardi di euro. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel 2021 (ultimi dati disponibili), oltre la metà dei contribuenti (il 54%, pari a 22,6 milioni di persone) ha beneficiato di circa 6,3 miliardi di euro in detrazioni. Quali spese sanitarie si possono detrarre Nell’ottica di una revisione della normativa in senso restrittivo, l’importanza delle detrazioni relative alla sanità richiede quindi di entrare nel dettaglio delle categorie di spese per le quali, secondo l’Agenzia delle Entrate, si ha diritto alla detrazione Irpef pari al 19%. Infine, i rimanenti 7,5 miliardi di euro vengono suddivisi tra servizi di Long Term Care (4,4 miliardi di euro), servizi ausiliari (3,1 miliardi di euro) e servizi per la prevenzione delle malattie (67 milioni di euro). Dall’ultima colonna della Tav. 1 si nota infine come la percentuale di detrazioni sanitarie sul totale delle detrazioni è più elevata per i contribuenti con reddito più basso (69% per la prima classe, rispetto al 58% per l’ultima classe), sottolineando l’importanza di queste spese per i contribuenti relativamente più poveri.
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The ECB can ease Italian debt worries without risking inflation
Indeed, as long as public debt stays idle in the ECB portfolio, rollover risks are correspondingly reduced. But what if inflation were to climb? Constrained by its mandate to keep price rises below 2 per cent, the ECB would have to tighten monetary policy. While its total public debt-to-GDP ratio had hovered at some 135 per cent since 2014, its public debt held outside the ECB fell rapidly from 129 per cent to 112 per cent of GDP in 2018, as the central bank’s purchases of Italian securities exceeded its cumulative deficit. This year, on current policies, the ECB is likely to raise its holdings of Italian government paper by 170bn, over 10 per cent of GDP. That would fully finance Rome’s deficit, which is projected at 8.3 per cent of GDP by the IMF and at 10.4 per cent by the government. After all, one could argue, it is the outlook for inflation that will determine whether the ECB keeps rolling over the securities purchased through QE. Economic history tells us that when central banks print a lot of money, especially to finance governments, inflation eventually rises. What does this imply for the future? If inflation which is still very low, and shows few signs of rising eventually goes up, then the ECB would have at least three options to tighten monetary policy, all of them with different impacts on public debt sustainability. However, its de facto monetary financing by the ECB is reducing immediate rollover risks, and giving governments time for a gradual reduction in their debt ratios.
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Stati generali, il tempo è scaduto
Da un lato l’apertura degli Stati generali dell’Economia, con interventi da parte dei vertici delle istituzioni europee, del FMI e della Banca d’Italia, che, come prevedibile, hanno ripetuto quello che da anni dicono che l’Italia dovrebbe fare. Dall’altro la notizia dell’ancora incompleto pagamento della cassa integrazione a tanti lavoratori, come segnalato ieri su queste colonne, nonostante le promesse di “saldare tutto entro venerdì”, cosa che, fra l’altro, avrebbe comportato un ritardo comunque inaccettabile. Forse si può sperare ancora che dagli Stati generali emerga una forza decisionale per rinnovare l’Italia che è finora mancata in chi ci ha governato e, diciamo la verità, nell’opinione pubblica che ha scelto i nostri governanti. Nonostante le opposizioni dei paesi “frugali” e di alcuni paesi est-europei, credo proprio che alla fine il “Next Generation EU” (l’ex-Recovery Fund), il piano di sostegno europeo di 750 miliardi finanziato da prestiti contratti in comune dall’Europa, sarà approvato in forma non troppo diversa da quella attuale. Il regolamento dice che i piani di spesa devono essere presentati entro l’aprile del 2021, ma è possibile accelerare i tempi presentando già quest’anno una bozza di piano in modo da facilitare l’accordo. Il compito principale di Conte, quindi, in conclusione di questi Stati generali deve essere quello di distinguere le cose prioritarie da quelle che non sono tali. L’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno è un elenco infinito di promesse di azioni e di frasi roboanti su quanto l’Italia sia bella, un lungo discorso volto a far contenti tutti.
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Tanta spesa ma pochi investimenti
Non resta, per ora, che affidarsi alle bozze che, come di consueto, sono circolate prima del consiglio dei ministri di mercoledì scorso. È il numero dei provvedimenti inclusi nel decreto Rilancio che impressiona: sulla base di un calcolo approssimato, si tratta di circa 600 diverse misure, tante con effetti finanziari, tante senza, ma che comunque comportano azioni che, in linea di principio, devono essere realizzate dalla pubblica amministrazione. Già questo ci dà un’idea del differente approccio: meno misure, ma di maggior impatto negli USA, tante, più piccole, spesso settoriali, da noi. Questa maggiore complessità dovrà essere gestita dalla nostra pubblica amministrazione, col rischio di ritardi nell’implementazione. Ma per una ripartenza serve una spinta esogena sulla domanda di beni e servizi in una situazione in cui le famiglie e le imprese, per la grande incertezza in cui versano, tenderanno naturalmente a essere prudenti nelle loro spese. Questo è ovviamente collegato alla natura emergenziale e difensiva delle misure prese, ma resta il fatto che la nostra capacità produttiva non beneficerà molto delle misure prese. Servirà un piano massiccio di investimenti pubblici, anche perché questi avrebbero probabilmente un impatto più forte sull’attività economica di quanto avrebbero trasferimenti a pioggia a famiglie e imprese (data l’attuale fase di incertezza, c’è il rischio che trasferimenti siano in parte risparmiati). Ma con la probabile necessità di dover procedere a ulteriori consistenti interventi, e con una caduta del Pil che potrebbe eccedere quella prevista nel DEF, sembra chiaro che deficit e debito risulteranno sostanzialmente più elevati.
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La Bce e l'esempio di Einaudi
L’idea, in sostanza, è di aumentare il coefficiente della riserva obbligatoria, oggi all’1%, al fine di ottenere il grado di restrizione desiderato della politica monetaria. Nell’Eurozona il moltiplicatore monetario (definito come rapporto fra lo stock di moneta M3 e base monetaria) è così sceso oggi a 4,2; era oltre 10 nel 2007. La base monetaria non è dunque entrata in circolo e staziona presso le banche che la depositano presso la Bce, anche se la remunerazione è negativa (oggi -0,50%). Alcuni temono che questa liquidità in eccesso prima o poi possa entrare in circolo e alimentare un processo inflazionistico. Queste vendite genererebbero una pressione al rialzo sui tassi di interesse, con conseguenze negative per i paesi ad alto debito. L’alternativa è quella di congelare la liquidità in eccesso, aumentando il coefficiente di riserva obbligatoria nella misura necessaria. In questo modo, rimarrebbero congelati per un lungo periodo di tempo anche i titoli all’attivo, ma nessuno potrebbe dire che si è attentato all’indipendenza della Bce. In Italia, la manovra della riserva obbligatoria è quella che fece Luigi Einaudi nel settembre del 1947 e si dimostrò molto efficace.
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Le tre strade per la ripartenza
Quale è il miglior modo di spendere risorse che non sono certo infinite? Sì, perché, anche se i finanziamenti all’Italia, grazie all’azione della BCE e delle istituzioni europee, quest’anno e il prossimo non mancano (per ora), non sono comunque senza limiti. Il deficit pubblico quest’anno salirà ben oltre quanto indicato nel Documento di Economia e Finanza di aprile (10,4 per cento del PIL) e il debito pubblico raggiungerà il 160 per cento del PIL. Occorre quindi scegliere bene tra i diversi modi di utilizzare risorse che saranno comunque limitate. Una possibilità, sarebbe quella di avere tagli selettivi, per i settori più colpiti come il turismo, in modo da poter apportare tagli più “visibili”. Anche in questo caso, poi, ci sarebbe la difficoltà politica di riportare l’IVA al suo livello corrente, per la paura che questo possa portare a un crollo dei consumi. Il grande vantaggio di questi interventi è di avere un impatto certo sulla domanda: le risorse verrebbero spese, non risparmiate. C’è un estremo bisogno di investimenti pubblici e non solo di grandi opere: c’è una marea di piccole opere di ristrutturazione, manutenzione, miglioramento ecologico su cui si dovrebbe intervenire in modo prioritario. E quindi? La cosa migliore sarebbe puntare su un’accelerazione degli investimenti pubblici e altra spesa diretta da parte della pubblica amministrazione, perché questo avrebbe un impatto più sicuro sulla domanda.