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  • Gli effetti del Fiscal Drag nell’ultimo biennio

    Data l’inflazione annua del 2022 pari all’8,1 per cento, un lavoratore con un reddito imponibile annuo di 27.950 euro nel 2021 (rientrante quindi nei primi due scaglioni Irpef) nel 2022 guadagnerà 30.214 euro – 27.9501+8,1% – passando quindi allo scaglione successivo per redditi compresi tra i 28.001 e i 50.000 euro. Invece, per i redditi da lavoro autonomo, ipotizziamo che siano aumentati di due punti percentuali in meno rispetto all’inflazione nel 2022 e in linea con l’inflazione nel 2023, quindi in misura maggiore rispetto ai redditi dei lavoratori dipendenti. Il gettito extra derivante dal Fiscal Drag è di circa 360 milioni per l’inflazione del 2022 e di circa 810 milioni per l’inflazione cumulata nel biennio 2022-2023 (Fig. 1). Chiaramente, se l’inflazione continuasse a rimanere elevata (e in assenza di cambiamenti ai regimi di tassazione), l’impatto sul gettito aumenterebbe di anno in anno visto che, via via, un maggiore numero di contribuenti si sposterebbe nelle fasce più alte di tassazione. Di questi 310 milioni, il 65 per cento deriva da coloro che sono passati dal secondo al terzo scaglione, dato l’elevato numero di contribuenti che sono stati coinvolti nel “salto” (1,4 milioni) e la forte progressività dell’aliquota, che aumenta di 10 punti percentuali tra il secondo e il terzo scaglione. Di conseguenza l’effetto del Fiscal Drag, che riguarda solo gli autonomi che passano dal terzo (da 28.001 a 50.000 euro) al quarto scaglione (oltre i 50.000 euro), ammonta a 8 milioni per l’inflazione nel biennio 2022-2023. Questa stima non tiene però conto del fatto che questo effetto potrebbe essere notevolmente ridotto (nonostante l’inflazione) dall’incentivo per gli autonomi a rientrare nella soglia di fatturato di 85.000 euro tramite la riduzione dei servizi prestati (o beni venduti) o il ricorso all’evasione fiscale.

  • Il PNRR e le riforme

    La nostra valutazione è che la maggior parte delle riforme siano ancora sulla carta, nel senso che mancano ancora i decreti attuativi o gli atti amministrativi necessari a rendere effettivi i cambiamenti. Per esempio, la riforma del pubblico impiego, la riforma della giustizia, la riforma della carriera degli insegnanti e la riduzione dell’evasione fiscale sono obiettivi che hanno enormi potenzialità dal punto di vista del cambiamento strutturale del sistema Paese. È evidente che su questo punto il termine “conseguito” che viene utilizzato sul sito “Italia Domani” è quantomeno opinabile dal momento che, con il dl 13 del 24 febbraio, il governo ha appena varato una riforma profonda della struttura della governance del PNRR. La riforma della giustizia Per quanto riguarda la giustizia, il documento del Consiglio UE ricorda che “il sistema della giustizia italiana funziona molto a rilento rispetto ad altri Stati membri in termini di tempi processuali” e si propone l’obiettivo di ridurre drasticamente questo divario. Probabilmente questa definizione è corretta dal punto di vista di come stanno effettivamente le cose, ma ci si chiede come sia possibile conseguire questi obiettivi se la riduzione delle cause pendenti e dei tempi dei procedimenti è considerata “da avviare” e non è già in corso. Le altre riforme Tra le altre riforme previste sono considerate conseguite l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti e dei contratti pubblici, il pacchetto di misure per la transizione energetica (utilizzo dell’idrogeno, semplificazione del processo di autorizzazione per le fonti rinnovabili, gestione del rischio idrogeologico). Per esempio, la riforma del pubblico impiego, la riforma della carriera degli insegnanti o la riduzione dell’evasione fiscale sono tutti obiettivi che hanno enormi potenzialità dal punto di vista del cambiamento strutturale del sistema Paese.

  • Gli effetti del Covid-19 sull’apprendimento

    Le prove Invalsi 2022, se confrontate con il periodo pre-pandemico, segnalano una notevole perdita di competenze tra gli studenti, con effetti eterogenei per tipologia di scuola, territorio e background socio-economico e con potenziali effetti avversi nel lungo periodo in termini di minor crescita economica. La chiusura prolungata delle scuole durante la pandemia ha infatti ridotto gli spazi di socialità con effetti negativi sull’apprendimento e, più in generale, sul desiderio degli studenti di investire in sé stessi per un futuro migliore. A questo si aggiungono ampi divari tra le diverse tipologie di scuola: gli studenti dei licei ottengono punteggi molto elevati rispetto ai coetanei che frequentano istituti tecnici, professionali e centri di formazione (Tav. 2). Inoltre, la percentuale di coloro che raggiungono il livello minimo di matematica al quinto anno in Italia è pari all’80 per cento nel caso di licei scientifici, 49,8 per cento nel caso di istituti tecnici, 17,8 per cento nel caso di istituti professionali e 43,2 per cento nel caso di altri licei. Questo può essere dovuto a vari fattori: il primo motivazionale, in quanto la scelta di intraprendere un percorso di studi universitario non è obbligatoria, ma deriva da una decisione personale che può spingere lo studente a impegnarsi di più per recuperare gli svantaggi indotti dalla pandemia. Per esempio, un programma di tutoraggio online lanciato da alcune università italiane durante la pandemia a favore degli studenti svantaggiati delle scuole medie, valutato rigorosamente dai ricercatori, si è mostrato capace di migliorare sensibilmente sia le prestazioni degli studenti che la loro generale condizione psicologica. Per maggiori informazioni sulle prove Invalsi vedasi: https://www.invalsiopen.it/ [10] Tutti gli studenti delle classi interessate svolgono la prova di italiano e quella di matematica, mentre la prova di inglese non è affrontata dagli studenti della seconda elementare e del secondo anno della scuola secondaria di secondo grado.

  • Quantitative Tightening: quanto rapidamente scenderà la detenzione di BTP da parte della BCE?

    A questo ritmo di riduzione, coinvolgendo alla fine anche i titoli acquistati tramite il PEPP, la consistenza di BTP detenuti nell’Eurosistema sarebbe tornata ai livelli del 2019 nel 2036, mentre sarebbero serviti altri 13 anni (si sarebbe andati al 2049) per tornare ai livelli di fine 2014. Tuttavia, nella riunione del 27 luglio la BCE ha deciso di interrompere completamente il rinnovo di titoli di Stato acquistati tramite il PSPP, compresi i BTP italiani. A questo ritmo, coinvolgendo alla fine anche i titoli PEPP, la detenzione di BTP da parte dell’Eurosistema tornerebbe sui livelli del 2019 nel 2030 e su quelli di fine 2014 nel 2042. A questi programmi di acquisto di titoli la BCE ha aggiunto, nel marzo 2020, (per sostenere i Paesi dell’Eurozona durante la pandemia da Covid-19) il pandemic emergency purchase programme (PEPP), che attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati ha immesso nell’economia un ulteriore notevole quantitativo di liquidità. A titolo di riferimento è utile ricordare che nel QT della Federal Reserve (la banca centrale americana) ripreso nel 2022, dopo la breve parentesi del 2017-2019, la riduzione nella detenzione di titoli statunitensi procede a un ritmo di circa 60 miliardi al mese. In pratica, la riduzione della detenzione di titoli per 15 miliardi al mese è stata realizzata non attraverso vendite di titoli sul mercato ma semplicemente non rinnovando interamente i titoli in scadenza acquisiti attraverso i programmi APP (per ora i titoli acquisiti nel programma PEPP sono stati interamente rinnovati). Servirebbero poi altri 13 anni (si sarebbe andati al 2049) per tornare ai livelli di fine 2014, ossia prima dell’inizio del QE. Tuttavia, il 27 luglio la BCE ha deciso di interrompere completamente il rinnovo di titoli di Stato (compresi i BTP) del programma PSPP, mantenendo invece il rinnovo completo di quelli PEPP.

  • Come viene rilasciata la cittadinanza in Italia e nell’Unione Europea

    Nel 2019 l’Italia, sui 27 paesi dell’Unione Europea, si posizionava al quattordicesimo posto per facilità nel rilascio della cittadinanza. Come si può ottenere ora la cittadinanza? Attualmente, la cittadinanza italiana può essere acquisita nei seguenti modi: Alla nascita , se almeno un genitore è italiano (c.d. Richiesta a seguito di matrimonio : il coniuge straniero di cittadino italiano può ottenere la cittadinanza quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni Italia (la media nell’UE è di 3,6 anni). Per naturalizzazione dopo dieci anni di residenza legale in Italia (media UE 6,8 anni), ridotti a cinque anni per coloro ai quali è stato riconosciuto lo status di apolide o di rifugiato e a quattro anni per i cittadini di paesi appartenenti all’Unione Europea (media UE 6,2 anni). In questo caso sono richieste altre condizioni minori quali il certificato di attestazione della lingua italiana, il pagamento di contributi amministrativi, la dimostrazione di avere redditi sufficienti al sostentamento e non avere precedenti penali. Il Migrant Integration Policy Index è un indice redatto dal CIDOB e dal Migration Policy Group che misura le politiche per l'integrazione di 56 paesi nei paesi (compresi tutti gli stati membri dell'UE) dal 2007 al 2019. Dal 20 dicembre 2020, tutte le nuove domande di cittadinanza hanno una durata massima di 24 mesi, prorogabile a 36 mesi in caso di comprovati motivi oggettivi che impediscano di pronunciarsi nel termine di due anni.

  • Le sanzioni stanno danneggiando l’economia russa

    Pil reale : il sito dell’Agenzia Federale Russa per le Statistiche ha pubblicato il livello reale del Pil destagionalizzato fino al primo trimestre del 2022: il tasso di crescita sul trimestre precedente è dello 0,5 per cento, in calo rispetto a quello del quarto trimestre del 2021 (1,4 per cento), ma ancor positivo. Ipotizzando che il tasso di crescita tendenziale per giugno sia uguale alla media di aprile e maggio, il tasso di crescita del Pil reale del secondo trimestre sul trimestre precedente sarebbe di -5,4 per cento. Ipotizziamo che nel terzo e quarto trimestre il calo del Pil prosegua, anche se con ritmi meno intensi di quelli osservati nel secondo trimestre (quando l’impatto può aver spiazzato in modo più immediato l’attività produttiva). Il tasso di crescita del quarto trimestre 2022 sul quarto trimestre 2021 sarebbe però del -11 per cento (Fig. 1). Nel primo trimestre (per cui sono disponibili dati disaggregati), il valore delle esportazioni è aumentato di quasi il 60 per cento rispetto al primo trimestre dello scorso anno; tuttavia, anche le importazioni hanno mostrato un aumento (+12 per cento). Il tasso di crescita tendenziale ad aprile è di -2,8 per cento, mentre è del -4,3 per cento a maggio. Più specificatamente si ipotizza che il calo nel terzo e quarto trimestre avvenga a un passo del 3,25 per cento, il 60 per cento del tasso di decrescita nel secondo trimestre.

  • Il PNRR e la spending review

    Una specifica riforma del PNRR riguarda la revisione della spesa ( “spending review” ) e ha l’obiettivo di “migliorarne l’efficacia, anche rafforzando il ruolo del Ministero dell'Economia e delle Finanze (MEF) e il processo la valutazione ex-post dei risultati.”. Il primo è stato conseguito il 27 ottobre 2021, con l’istituzione del Comitato scientifico per le attività inerenti alla revisione della spesa presso il MEF, che avrà il compito di rafforzare gli strumenti di analisi e monitoraggio della spesa pubblica e dei processi di revisione e valutazione della spesa. Il Comitato è presieduto dal Ragioniere Generale dello Stato (che peraltro era comunque già coinvolto nelle operazioni di revisione della spesa) e comprende un componente della segreteria tecnica Mef, e rappresentanti istituzionali di Bankitalia, Istat e Corte dei conti. Gli obiettivi sono stati fissati in 0,8 miliardi nel 2023 (che equivale a 0,082 per cento della spesa primaria), 1,2 miliardi nel 2024 (0,123 per cento) e 1,5 miliardi nel 2025 (0,152 per cento). Va comunque notato che l’importo medio di riduzione della spesa per il triennio 2023-2025, pari a 1,16 miliardi, non solo è basso rispetto al totale della spesa primaria, ma è anche inferiore all’importo medio del triennio 2018-2020 (1,38 miliardi). I traguardi successivi sono: Entro fine 2022 deve essere redatta dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato una relazione sull'efficacia delle pratiche utilizzate dalle amministrazioni per valutare l'elaborazione e l'attuazione dei piani di risparmio: si tratta di un atto amministrativo che non dovrebbe incontrare particolari difficoltà. Per il triennio 2018-2020, in sede di formulazione del disegno di legge di bilancio sono state decise riduzioni degli stanziamenti di bilancio per 1.483 milioni di euro nel 2018, 1.325 milioni nel 2019 e circa 1.340 milioni per il 2020 in termini di saldo netto da finanziare.

  • Quanto costerebbe adeguare lo stipendio degli insegnanti al livello medio europeo?

    Considerando gli stipendi dei docenti a prezzi correnti la retribuzione media degli insegnanti italiani è di 30.784 euro mentre quella dell’Eurozona è di 44.408 euro. Il costo della riforma Nei programmi elettorali di molti partiti politici (PD, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e Lega), sotto la sezione ‘’Istruzione’’ o ‘’Scuola’’, si legge, in modo generico, la volontà di allineare gli stipendi dei docenti della scuola pubblica italiana alla media europea. In base ai dati Eurydice per l’anno scolastico 2020-2021, [1] in Italia lo stipendio medio lordo contrattuale di un docente è di 30.784 euro. Tenendo conto che per l’anno scolastico 2020/2021 il numero dei docenti delle scuole pubbliche italiane (di ruolo e non, inclusi quelli di sostegno) è stato di circa 851.393 [3] , per eguagliare gli stipendi a prezzi correnti di tutti gli insegnanti alla media dell’Eurozona occorrono 11,6 miliardi di euro l’anno. Ma qui ci sono delle sorprese perché negli altri paesi gli stipendi degli insegnanti in rapporto al Pil pro-capite sono più alti che in Italia, ma il Pil pro capite dell’Italia è molto più basso di quello dell’Eurozona (-19,3 per cento). Quindi per portare lo stipendio degli insegnanti allo stesso rapporto con il Pil pro-capite che prevale negli altri paesi bisognerebbe portare lo stipendio medio a 37.211 euro, ossia il 23,9 per cento in più del Pil pro-capite dell’Italia. Si noti che comunque lo stipendio medio dell’Italia rimarrebbe molto al di sotto di quello medio dell’Eurozona e il motivo è che il Pil pro-capite dell’Eurozona è più alto di quello dell’Italia.

  • Gli stipendi differenziati del personale delle PA

    La discussione deve tuttavia tener conto anche di altri aspetti nella determinazione dei salari della PA quali, ad esempio, le difficoltà del contesto (legate anche alla posizione geografica in termini di accessibilità ai servizi essenziali, c.d. Nel recente passato alcune misure governative hanno già riconosciuto, tramite incentivi e indennizzi, salari nominali diversi: vale, ad esempio, per chi decide di lavorare nelle aree di montagna o nel Pronto Soccorso degli ospedali. Tuttavia, un qualsiasi tentativo più sistematico di differenziazione dei salari nominali dovrà tener conto degli stringenti vincoli di bilancio pubblico e del calo, previsto dalla NADEF 2022, della spesa per i dipendenti della PA nei prossimi due anni. Al momento è garantita l’uguaglianza dei salari nominali ; ma le differenze nel costo della vita tra diverse aree del paese, impediscono l’uguaglianza dei salari reali , che è il tema posto dal Ministro. Guardando ai valori assoluti relativi alla soglia di povertà assoluta per macro-area (Nord, Centro e Mezzogiorno) nel 2021, si evince facilmente come il costo della vita sia maggiore nelle regioni del Nord e del Centro rispetto al Sud (Tav.1). Ci sono chiare evidenze da tempo sulle difficoltà di reclutamento del personale delle PA in queste aree e pertanto sono state già intraprese alcune misure volte a differenziare i salari nominali, tramite incentivi e indennizzi, per coloro che hanno deciso di trasferircisi, senza particolari reazioni da parte sindacale. Tra le varie misure sono state infatti riconosciute agevolazioni a favore di coloro che intendono prestare servizio in strutture socio-sanitarie e nelle scuole dei comuni montani (60 per cento di credito di imposta su locazioni e mutui a scopo residenziale e un bonus di ammontare massimo pari a 2.500 euro annui).

  • La transizione verso le nuove regole fiscali europee

    L’obiettivo della riforma consiste nel definire un percorso più adeguato e credibile di riduzione del debito per gli Stati membri e di garantire che il quadro della governance economica europea incentivi o perlomeno non penalizzi una crescita sostenibile. Per quanto riguarda l’Italia, le nuove regole offrono la possibilità di seguire un percorso di riduzione del debito meno stringente del passato, particolarmente se il Paese si vincola a un piano credibile di riforme e investimenti. Le novità introdotte dalla proposta della Commissione rispondono alle numerose critiche rivolte al corrente quadro di regole fiscali e sono mosse dalla necessità di definire un quadro più semplice ed efficace, attribuendo anche ai Paesi una maggiore titolarità ( ownership ) per il percorso di riduzione del debito. Come si osserva nella Tav. 2, benché la metodologia tenga conto di più fattori (quali, per esempio, lo spazio di manovra sul piano tributario), nei fatti finisce con l’assegnare i livelli di rischio sulla base del rapporto debito/Pil di ciascun Paese. Né in effetti poteva essere diversamente, visto che l’elevato debito rispetto alla capacità di ripagarlo (misurata dal reddito, un indicatore onnicomprensivo della capacità fiscale di un Paese) rappresenta la fonte principale di rischiosità. Inoltre, mentre non è chiaro se la regola del 3% dovrebbe essere valida solo dopo la conclusione del Piano o anche durante il suo percorso, è probabile che una procedura di deficit eccessivo non verrebbe comunque attivata a fronte di un percorso previsto di rientro in termini rapidi dal disavanzo. Positivo è anche il fatto che il percorso sia meno stringente di quanto imposto dalle regole correnti e che offra un premio esplicito ai Paesi (la dilazione del piano di aggiustamento in 7 anni anziché i precedenti 4) che si vincolano a un piano credibile di riforme e investimenti.

  • Debito pubblico. Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli

    Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli Conti pubblici Debito pubblico. Come ci siamo arrivati e come sopravvivergli 03 ottobre 2022 Intermedio Dopo due anni di pandemia, l’Italia si ritrova con un debito pubblico di oltre 2.700 miliardi di euro, il 155% del PIL, il livello più alto in perio­do di pace mai accumulato dal Paese. Come ci siamo arrivati? Che conseguenze ha un debito così alto sul funzionamento dell’economia? Dobbiamo preoccuparcene? E soprattutto, come possiamo uscirne? Per rispondere bisogna anzitutto capire cos’è davvero il debito pubblico, a cosa serve, cosa ne garantisce la sostenibilità nel tempo. E per far­lo occorre anche chiarire come siamo arrivati a questo punto, tra la visione corta dei governan­ti e la furbizia sciocca dei governati, aggravate dalle inefficienti dinamiche politico-istituzionali. Perché se è vero che il mostro è brutto, non è però imbatti­bile. Questo offre la possibilità di ridurre significativamente il peso del debito italiano a costi limitati. Ma va ritrovata la strada della crescita, sfruttando gli spazi offerti dalle nuove politiche europee e avviando la realizza­zione delle molte riforme di cui il Paese necessita da tempo.

  • Gli effetti del superbonus 110% sull’economia e sul bilancio pubblico

    Nel seguito si mostra che, nella migliore delle ipotesi, il superbonus ha contribuito ad incrementare la crescita del Pil dello 0,5 per cento nel 2021 (su una crescita totale del 7 per cento) e dello 0,9 per cento nel 2022 (su una crescita totale del 3,7 per cento). Si tratta di cifre considerevoli alla luce del fatto che, in base ai dati Istat pubblicati il 1° marzo, il totale degli investimenti in abitazioni da inizio 2021 a fine 2022 è stato di 204,8 miliardi. Nel dibattito pubblico, questi dati sono utilizzati per sostenere che il superbonus 110% abbia sorretto l’economia in questi anni; alcuni hanno addirittura argomentato che l’impulso all’economia sarebbe stato tanto forte da generare un gettito fiscale dello stesso ordine di grandezza della spesa sostenuta dallo Stato. Occorre ricordare che, oltre agli interventi cosiddetti trainanti (come, ad esempio, il cappotto termico), il bonus consente di finanziare anche interventi di altro genere (come sostituzione di caldaie o infissi e installazione di pannelli solari) che, in generale, vengono svolti in via ordinaria. Si vede chiaramente che questa ipotesi è poco plausibile perché implicherebbe che, in assenza del superbonus, ci sarebbe stata una recessione degli investimenti a partire dal 2021 con un crollo del 25 per cento nel 2022 rispetto al 2019. Nel seguito utilizziamo la stima di Banca d’Italia considerandola un’ipotesi massima in merito agli effetti aggiuntivi del superbonus sugli investimenti; un’ipotesi che è quindi favorevole a chi sostiene che il bonus è stata una misura utile. Il motivo per cui il modello dei commercialisti produce un’aliquota implicita del 43,3 per cento (e non 38%) dipende dal fatto che, usando le tavole delle interdipendenze strutturali, essi ottengono una base imponibile indotta dalla maggiore spesa di 32.036 miliardi nel 2021 che è maggiore della spesa indotta dal superbonus (28.280 miliardi).

  • Il Fondo di Solidarietà Comunale: obiettivi e criticità

    Questo Fondo ha caratteristiche potenzialmente interessanti come modello perequativo anche per altri livelli territoriali di governo, in particolare per il passaggio graduale dei meccanismi di riparto dalla spesa storica a indicatori di costi e fabbisogni standard. Questo richiede di accompagnare i processi di decentramento e di rafforzamento dell’autonomia locale con schemi perequativi che tuttavia, come stabilito dalla principale legge interpretativa delle norme costituzionali (Legge delega 42/2009), non possono limitarsi a finanziare l’esistente, ma devono essere basati su criteri oggettivi. Il modello perequativo che più ha cercato di attuare questi principi è sicuramente il Fondo di Solidarietà Comunale (FSC) che redistribuisce le risorse ai Comuni. Le origini del Fondo di Solidarietà Comunale Il Fondo di Solidarietà Comunale è stato introdotto con la Legge di Stabilità per il 2013 in sostituzione del Fondo sperimentale di riequilibrio comunale introdotto l’anno prima. Il primo, che scomparirà gradualmente entro il 2030, è destinato al riequilibrio delle risorse storiche e viene assegnato sulla base di criteri di tipo compensativo e, per i soli Comuni delle Regioni a Statuto Ordinario, di tipo perequativo. Ma naturalmente, una cosa è aumentare la capacità di gestione autonoma delle proprie risorse da parte degli enti locali, un’altra è eliminare del tutto la possibilità di usare uno strumento anche quando questo è utile. Si prenda per esempio il caso degli asili nido: avere una dotazione uniforme di asili nido in rapporto all’utenza sul territorio italiano è un obiettivo di politica nazionale che risponde a esigenze di maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro e di rilancio della maternità.

  • Cos’è veramente successo nel Regno Unito

    L’annuncio del piano aveva anche lo scopo di superare una lunga fase di frustrazione da parte dei sostenitori della Brexit in quanto sino a oggi quasi nulla è cambiato nel Regno Unito e la crescita non è stata maggiore di prima. Il senso, dunque, era anche quello di mostrare che, liberatosi dai lacci di Bruxelles, il Regno Unito era in grado di migliorare la propria economia e il benessere dei cittadini. L’aumento può essere attribuito in parte alla decisione della Bank of England di aumentare i tassi a breve di 50 punti base, in seguito alla decisione delle FED di aumentarli di 75 punti base, e in parte ai timori dei mercati circa gli orientamenti del nuovo governo [1] . Profilandosi il rischio di un avvitamento verso il basso dei mercati, e per contenere i danni, il 28 settembre la Banca d’Inghilterra è intervenuta annunciando un programma temporaneo di acquisto di gilts dal valore totale massimo di 65 miliardi di sterline. Perché la crisi è stata tanto forte In termini dimensioni, le spese che sono state annuncite dal governo inglese non sono molto diverse da quelle del governo tedesco (fino a un massimo di 200 miliardi di euro al 2024): 2,1 per cento di Pil le misure inglesi, 2,7 per cento le misure tedesche. L’errore di politica economica del Regno Unito è stato tanto evidente che è stato oggetto di una dura critica in una nota del Fondo Monetario Internazionale, cosa che avviene solo in casi rarissimi. Anche questa è in qualche modo una novità, dal momento che il mandato del Fondo Monetario riguarda la stabilità del sistema finanziario internazionale; questo intervento riflette probabilmente la percezione che il governo inglese non avesse chiare le priorità della società inglese di fronte ai rincari dell’energia e all’alta inflazione.

  • Un aggiornamento sui tempi di pagamento della PA

    I pagamenti delle fatture da parte della PA sono regolati dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2011/7/UE che fissa il termine di pagamento a 30 giorni, con alcune eccezioni legate al comparto sanitario e altri casi particolari. Per quanto riguarda i dati disponibili, è bene ricordare che sono due le fonti che consentono di effettuare confronti tra Paesi europei: i dati Eurostat sui crediti commerciali; i dati dell’European Payment Report realizzato da Intrum, una società europea di gestione e recupero crediti. Per analizzare i dati italiani, in particolare le variazioni nel tempo, vi sono invece tre fonti: i dati MEF che fanno riferimento alle sole fatture correnti, ossia emesse nel trimestre o anno a cui si riferisce l’analisi; l’indicatore di tempestività dei pagamenti (ITP) previsto dal d.lgs. Dall’insieme di questi dati emerge un miglioramento notevole negli ultimi anni (dal 2015), ma vi sono ancora molte amministrazioni che non riescono ancora a rispettare i tempi di pagamento previsti dalla direttiva europea. In ogni caso, i dati MEF sono utili per vedere come si sono ridotti negli ultimi anni i tempi medi di pagamento (dalla data di emissione della fattura al pagamento) e i ritardi medi (dalla data di scadenza indicata in fattura al pagamento) sulle fatture più recenti. Come si è detto, per avere una stima dei tempi effettivi di pagamento (inclusivi dei pagamenti delle fatture emesse negli anni precedenti), si deve considerare l’indicatore di tempestività dei pagamenti, che è rintracciabile sul sito di ogni amministrazione alla voce “Amministrazione trasparente”. Per esempio, i tempi di ritardo del 2021 indicati nel sito del MEF sono calcolati per le fatture ricevute e pagate nel solo anno 2021, mentre l’indicatore di tempestività dei pagamenti si riferisce a pagamenti di fatture ricevute sia nel 2021 sia in anni precedenti.

  • L’evasione fiscale e contributiva in Italia

    Infine, gli studi MEF suggeriscono che l’introduzione della flat tax al 15 per cento nel 2019 per le partite IVA al di sotto dei 65 mila euro di fatturato abbia rappresentato un incentivo alla sotto-fatturazione per rientrare nel sistema forfettario. Il tax gap è calato in misura marcata nel 2019, raggiungendo la cifra di 99,2 miliardi di euro, corrispondente ad una propensione all’evasione pari al 18,3 per cento (Fig. 1). L’IVA mostra la riduzione più significativa, passando dal 26,6 nel 2015 al 19,3 per cento nel 2020, seguita dall’IRAP (23,7 per cento nel 2020) e dalle Locazioni (6,3 per cento nel 2020). Le seconde, misurate mediante una prima fase di determinazione dell’input di lavoro irregolare e una fase successiva di definizione del contributo al valore aggiunto generato da ciascuna posizione lavorativa irregolare, si caratterizzano per una tendenza decrescente meno significativa e si attestano intorno ai 77 miliardi di euro nel 2019. Dal punto di vista empirico, il fenomeno dei falsi minimi è stato indagato dal MEF studiando la distribuzione dei ricavi e dei compensi dichiarati dai contribuenti italiani intorno alla soglia dei 65 mila euro annui. L’idea di fondo è che senza la flat tax non si dovrebbero osservare discontinuità, cioè dei “salti”, nella distribuzione; se invece si trovano delle discontinuità, è probabile che queste siano da attribuirsi alla politica che identifica la soglia. Tuttavia, la Relazione mostra come un ritorno alla tassazione ordinaria (ovvero includendo le entrate da affitto nei redditi soggetti all’aliquota marginale IRPEF), ipotizzando al contempo lo stesso livello di evasione che avevamo in passato, generebbe un incremento di gettito di 600 milioni di euro rispetto alla situazione odierna.

  • Solo auto elettriche dal 2035? Un approfondimento sulla proposta di revisione sugli standard di emissione di CO2

    Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni in Italia, il testo adottato sinora non prevede che tutti i veicoli dovranno necessariamente essere elettrici dopo il 2035, anzi lascia libertà di scelta rispetto alla tecnologia da utilizzare purché siano garantiti gli obiettivi di zero emissioni. La proposta prevede di ridurre del 100 per cento (ossia di proibire) la produzione e vendita di nuove auto e i nuovi Veicoli Commerciali Leggeri (LCV) nell'UE che emettono CO 2 a partire dal 2035. Infatti, dopo il via libera della Commissione ENVI, alcuni hanno sostenuto che il testo fosse eccessivamente ‘’dogmatico’’ perché puntava tutto sull'elettrico piuttosto che consentire la vendita di veicoli a emissione zero anche se non elettrici. In realtà, nella proposta della Commissione Europea, si prevede solo «un obiettivo di riduzione del 100 per cento rispetto ai livelli del 2021 sulle emissioni medie del parco di autovetture e Veicoli Commerciali Leggeri nuovi» [5] , senza specificare lo strumento con cui questo target dovrà essere raggiunto . emendamento ‘’Salva Motor Valley’’): la Commissione ENVI ha esteso al 2036 (invece che al 2030 come proposto dalla Commissione Europea) la possibilità di negoziare limiti di riduzione di emissioni "ad hoc" per i piccoli produttori di nuove auto (da 1.000 a 10 mila nuove unità l’anno) e furgoni (da 1.000 e 22mila nuove unità l’anno). Per i secondi (che hanno pesato per circa il 27 per cento delle emissioni sul totale nel 2019) valgono i target di riduzione sulle emissioni dei nuovi veicoli del 15 per cento nel 2025 e del 30 per cento nel 2030 rispetto ai livelli del periodo di riferimento (1 luglio 2019-30 giugno 2020) (Regolamento UE 2019/1242). Dato che dal 2030 questo incentivo verrà soppresso, il meccanismo ZLEV si applicherà dal 2025 al 2029 adeguando l'obiettivo specifico per le emissioni di un costruttore sulla base della quota del 15 per cento di veicoli a zero e a basse emissioni all'interno del proprio parco veicoli.

  • Perché in Italia le spending review non funzionano

    Il tema della revisione e dell’efficientamento della spesa pubblica è centrale in Italia e la prima Commissione tecnica con queste finalità è stata introdotta fin dal lontano 1981, per essere poi seguita da numerosi altri tentativi, incluse le (modeste) misure previste dal PNRR. In particolare, l’obiettivo della spending review è quello di utilizzare l’approccio noto in campo aziendale come “bilancio a base zero”, superando quindi l’approccio incrementale, che si concentra principalmente sulle nuove iniziative di spesa invece che sulle analisi di efficienza e efficacia della spesa già esistente. Si tratta, in sintesi, di “riqualificare” la spesa pubblica già esistente, spendendo meglio le risorse con processi interni alle amministrazioni, riconoscendo che è una decisione politica quella sull’ammontare complessivo di spesa pubblica da erogare in un determinato anno. Dopo qualche anno dalla soppressione della CTSP, nel 2007, venne istituita la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (CTFP), sempre incardinata presso il MEF e formata da esperti esterni, che stese il primo rapporto sulla revisione della spesa di cinque ministeri individuando criticità e opzioni di riallocazione delle risorse. Uno dei principali problemi emersi è che entrambi i Ministeri hanno adottato un approccio di riduzione alla spesa tramite tagli, facendo leva su riduzioni di spese di finanziamento delle strutture amministrative e su riduzioni di stanziamenti per interventi specifici. Il Ministero della Salute, invece, ha agito de-finanziando integralmente una serie di interventi tramite l’azzeramento di alcuni capitoli di spesa per un solo anno, come nel caso delle risorse per il monitoraggio delle cure palliative e dei fondi regionali per le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Alle attività di revisione della spesa in questo periodo ha collaborato anche il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, che ha prodotto un documento di analisi di alcuni settori di spesa pubblica .

  • Tutti gli interventi contro i rincari energetici del 2022

    Di queste misure, la maggior parte è volto a mitigare gli effetti negativi su famiglie e imprese dei rincari energetici. Nel corso del 2022 il governo ha adottato varie misure di sostegno all’economia, in particolare per mitigare gli effetti negativi dei rincari energetici. Le misure adottate da settembre 2021 a giugno 2022 valgono 35 miliardi (di cui 29 miliardi per misure legate ai rincari energetici). Misure di contrasto alla povertà energetica Rafforzamento ed estensione della platea di beneficiari dei bonus sociali volti a ridurre la spesa per l’energia elettrica e per il gas delle famiglie in condizioni di disagio economico o fisico. Secondo le relazioni tecniche dei provvedimenti, 3 milioni di famiglie avrebbero beneficiato del bonus elettrico e 2 milioni del bonus gas. Indennità “anti-inflazione” Riconoscimento di un’indennità una tantum di 200 euro a lavoratori dipendenti, pensionati e altri soggetti (es. lavoratori domestici, percettori del Reddito di Cittadinanza, NASPI, DIS-COLL), con reddito inferiore a 35.000 euro, per sostenere il loro potere d’acquisto (6,3 miliardi). Per le misure dei primi sette mesi del 2022, vedi il dossier del Parlamento: “Effetti finanziari delle misure adottate nel 2022 contro il “caro energia” (1° gennaio – 29 luglio 2022): https://temi.camera.it/leg18/dossier/OCD18-17104/effetti-finanziari-misure-adottate-nel-2022-contro-caro-energia-1-gennaio-29-luglio-2022.html Un articolo di Salvatore Liaci Download SCARICA IL PDF.

  • Sri Lanka: un paese in crisi

    Tuttavia, ci sono ingredienti che sono comuni a tanti paesi emergenti e forse anche sviluppati che meritano attenzione perché possono rendere il caso specifico emblematico di tendenze più generali. A questi fattori, si sono aggiunte varie decisioni sbagliate, fra le quali quella presa nel 2019 di ridurre le tasse (per circa 1,7 per cento del Pil) nella convinzione che ciò potesse contribuire a rilanciare l’economia e il passaggio improvviso all’agricoltura biologica nel 2021. La situazione economica e sociale è diventata insostenibile e il 18 maggio 2022 (al termine del cosiddetto periodo di grazia) il governo ha annunciato di non essere in grado di ripagare i 78 milioni di dollari di interessi sul debito pubblico che erano scaduti il 18 aprile, dichiarando di fatto il default. In particolare, hanno pesato: Un debito pubblico elevato che è aumentato per via del Covid, ma anche della decisione, presa nel 2019, di ridurre la pressione fiscale nella convinzione che ciò potesse servire a rilanciare l’economia. L’elevata componente del debito denominata in dollari , pari al 64,6 per cento del totale; Un elevato e prolungato deficit della bilancia dei pagamenti , che assieme all’aumento dei tassi in dollari, ha determinato una fortissima svalutazione della moneta nazionale; la decisione del 2021 di vietare l’uso dei fertilizzanti chimici. Secondo le stime della Banca Centrale del paese, la riforma fiscale ha comportato minori entrate annuali per 1,4 miliardi di euro, pari a circa l’1,7 per cento del Pil. [2] Un fattore che ha aggravato la crisi è il prolungato squilibrio della bilancia commerciale dal 2000 ad oggi. A fronte di forti cadute di reddito e della necessità di sostenere l’economia, tutti i paesi, Sri Lanka incluso, si sono indebitati fortemente, approfittando anche della lunga stagione di tassi molti bassi, soprattutto in valute forti come il dollaro.

  • I dilemmi del Servizio Sanitario Nazionale presente e futuro

    Se ne è parlato molto nel 2020, durante le fasi iniziali e più drammatiche della pandemia che hanno posto in luce la necessità di costruire una “sanità del territorio”, ancora largamente assente in molti contesti regionali. Poi, paradossalmente, nonostante il varo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le riforme del SSN sono sparite dalla discussione pubblica per restare confinate in seminari di addetti ai lavori. Paradossalmente, proprio perché la Missione 6 del PNRR in realtà ridisegna il SSN del futuro, per esempio introducendo Case e Ospedali della Comunità proprio allo scopo di costruire la sanità territoriale , quindi il tema dovrebbe ritornare all’attenzione del dibattito. Tuttavia, prima di rivolgere lo sguardo al futuro, per capire i problemi di oggi e per identificare le scelte che dovremmo fare, è opportuno ricostruire le ragioni di alcune scelte che sono state fatte in passato e di altre che sono sempre state rimandate. Indagine realizzata presso un campione di 3000 casi di cittadini italiani tra i 18 e i 64 anni. Il campione è rappresentativo della popolazione di riferimento per genere, età, area geografica, titolo di studio e condizione occupazionale. Un articolo di Massimo Bordignon, Gilberto Turati Download SCARICA IL PDF.

  • Crisi energetica e rischio di spiazzamento dell’industria europea

    Il secondo caveat è che l’industria europea non può non soffrire anche nel medio termine a fronte di differenziali tanto rilevanti nel costo del gas e quindi dell’energia elettrica, rispetto agli Stati Uniti. Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo in quanto, secondo gli ultimi dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI), già nel 2021 gli Stati Uniti erano diventati la principale destinazione mondiale degli investimenti diretti esteri, con afflussi lordi di quasi 5.000 miliardi. L’obiettivo principale del piano è la transizione energetica, uno dei cavalli di battaglia del partito democratico americano, ma il timore è che possa favorire l’industria americana o comunque localizzata negli Stati Uniti a danno dell’industria europea e di altre aree. Al fine di ridurre le emissioni di CO2 del 40 per cento entro il 2030 rispetto al 2005, il governo statunitense ha stanziato una quantità senza precedenti di incentivi fiscali (sovvenzioni, prestiti e crediti d’imposta) per le imprese che realizzino progetti legati alle energie rinnovabili. Questo può essere un processo relativamente indolore (si produce un diverso tipo di prodotto all’interno degli stessi settori), ma può anche essere un processo molto doloroso che comporta la chiusura di interi settori industriali e il declino dei territori di insediamento. Questi concetti ci aiutano a descrivere quello che sta accadendo all’industria europea: l'input da sostituire è legato all'energia, ma data la struttura di alcuni settori, quali il ferro e l’acciaio, nel breve termine è complicato trovare una fonte alternativa al gas. Questa circostanza, ovvero la perdita di competitività di alcuni comparti industriali, e i forti vantaggi competitivi che stanno acquisendo altri paesi a causa del minore prezzo di gas ed elettricità potrebbero comportare conseguenze negative per l’economia europea nel breve e anche nel lungo termine.

  • Enti locali in dissesto e predissesto finanziario: la normativa e la situazione attuale

    Nel 2021 si è raggiunto il secondo numero più alto di enti locali che hanno fatto ricorso alle procedure per gli enti in difficoltà finanziaria: in totale, quasi il 5 per cento degli enti locali italiani risulta in dissesto o predissesto, con una netta prevalenza degli enti del Mezzogiorno. La regolamentazione emerse per via dell’ammontare dei debiti fuori bilancio di province e comuni (nel 1986 era di mille miliardi di lire) venuto alla luce da un’indagine della Corte dei Conti e che continuava a proliferare. Le disposizioni in materia si sono poi evolute negli ultimi trent’anni, sia in termini di procedure di risanamento, che di sanzioni per gli amministratori e di contributi dello Stato. Il dissesto Per quanto la procedura di dissesto abbia subìto modifiche nel tempo, l’accesso di un ente a questo istituto giuridico è sempre rimasto di natura volontaria, eccetto nel caso in cui l’ente non riesca a svolgere le sue funzioni essenziali, compresa la retribuzione del personale. Ad esempio, l’ultima legge di bilancio ha anche previsto l’istituzione di un fondo di 2.670 milioni di euro per il ventennio 2022-2042 a favore dei comuni sede di capoluogo di città metropolitana che hanno un disavanzo pro-capite superiore a 700 euro. Ad esempio, i trasferimenti dallo stato centrale sono stati spesso oggetto di tagli in sede di leggi di bilancio (in particolare fra il 2006 e il 2012), ed è stato diminuito lo spazio di manovra dei comuni nel reperire risorse proprie (in particolare con l’eliminazione dell’imposta sulla prima casa, ex IMU). Ad avviso della Corte, la nuova normativa introduceva un "meccanismo di manipolazione del deficit" che consentiva di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l'accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, conseguentemente, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del preteso riequilibrio, il risultato di amministrazione.

  • L’evoluzione dell’imposta sulle successioni in Italia e un confronto a livello europeo

    Esistono argomentazioni a favore e contro un suo rafforzamento: da un lato l’imposta può essere uno strumento di equità sociale meno distorsivo delle imposte sui redditi, dall’altro si tassa la ricchezza che è frutto di un risparmio che deriva da un reddito già tassato. L’esempio dei Paesi europei a noi più simili suggerisce però che aumentare il gettito derivante da questo tipo di imposta è possibile. Come è cambiata nel tempo in Italia l’imposta di successione Prima della Seconda guerra mondiale i trasferimenti mortis causa erano soggetti solo all’imposta di registro. Dopo questo primo ridimensionamento, l’imposta fu poi completamente abolita nel 2001 dal governo Berlusconi e infine, nel 2006, il governo Prodi la reintrodusse sul modello di quella in vigore prima dell’abolizione (aliquote tra il 4 e l’8 per cento e franchigie individuali elevate), con una struttura rimasta finora invariata. Confronto a livello europeo La struttura della ISD italiana attuale è piuttosto “generosa” rispetto a quella di altri Paesi europei perché ha aliquote più basse, meno progressive e franchigie più elevate (Tav. 3). Questo anche grazie a una struttura dell’imposta diversa da quella della ISD italiana: tutti e quattro i Paesi hanno infatti aliquote molto più elevate rispetto a quelle in vigore in Italia (anche superiori al 50 per cento in Francia) e franchigie significativamente più basse. L’aliquota unica del 4 per cento si applica ai coniugi e ai parenti in linea retta; l’aliquota unica del 6 per cento si applica ai parenti fino al quarto grado; l’aliquota unica dell’8 per cento si applica agli altri soggetti.

  • Autonomia differenziata senza autonomia fiscale?

    Negli anni Novanta, proprio per incentivare la responsabilità fiscale delle Regioni ed evitare i finanziamenti ex post a carico del bilancio pubblico, il sistema di finanziamento regionale era stato riformato, riducendo i trasferimenti ed introducendo nuovi tributi regionali, soprattutto IRAP e addizionale IRPEF. Ma il primo tributo è già stato fortemente depotenziato ed è in fase di graduale abolizione ed il secondo ha perso le caratteristiche di un’imposta generale sui redditi per diventare di fatto un’imposta sui soli redditi da lavoro dipendente. La quota di spesa regionale finanziata con trasferimenti è diventata dunque sempre maggiore e rischia di diventare ancora più elevata con il nuovo processo di decentramento, con tutti i rischi connessi. C’è il rischio serio che, così facendo, l’autonomia differenziata si traduca in una forte crescita delle competenze di spesa delle Regioni, senza che si introducano contemporaneamente meccanismi che le incentivino a controllarne la dinamica, con risultati potenzialmente devastanti per le finanze pubbliche. In quegli anni, il tema fondamentale era quello di aumentare la responsabilità finanziaria delle Regioni nei confronti della propria spesa per evitare il sorgere di disavanzi e la susseguente necessità dello Stato di assumersene l’onere aumentando il debito pubblico, una costante di quel periodo. Lo “sbilanciamento verticale” è una misura della discrepanza fra le responsabilità di entrata e di spesa delle Regioni e viene normalmente calcolato rapportando il totale dei trasferimenti finanziari dallo Stato alla Regione al totale delle spese di competenza regionale. Come già ricordato, questo modello di finanziamento è stato causa di numerosi fenomeni di irresponsabilità finanziaria da parte delle Regioni nei decenni precedenti (e conseguente finanziamento ex post dei disavanzi da parte dello Stato centrale con emissioni di debito pubblico).

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