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Il PNRR, l’estensione del tempo pieno e le mense scolastiche nelle scuole primarie
Per ovviare a queste lacune il PNRR ha stanziato circa 31 miliardi di euro, di cui 960 milioni destinati all’estensione del tempo pieno nelle scuole primarie: di questo ammontare, 400 milioni serviranno unicamente alla costruzione di mense. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) stanzia il 16 per cento delle risorse – circa 31 miliardi di euro – per investimenti in ambito di Istruzione e Ricerca, con circa i due terzi del totale destinati al “potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione". Sebbene la percentuale di giovani che lasciano precocemente l'istruzione e la formazione sia calata di oltre 5 punti dal 2010 al 2020 – passando dal 18,6 al 13,1 per cento – i dati italiani rimangono di gran lunga peggiori rispetto alla media europea, che nel 2020 si è attestata al 9,9 per cento (Fig. 1). Inoltre, una recente indagine di Save the Children – basata sulla consultazione diretta di oltre mille docenti di scuole primarie e secondarie di primo grado – suggerisce che il tasso di abbandono scolastico sia aumentato dall’inizio della pandemia. Questa scelta è giustificata – oltre che da ragioni di equità – dal fatto che in queste regioni si registrano tassi di abbandono scolastico superiori alla media nazionale: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia sono le 4 regioni con il maggior tasso di dispersione scolastica (Fig. 2). Sebbene questa relazione sia fortemente influenzata da altre variabili e dal paese di riferimento in cui viene stimata, un recente studio quantifica che ogni anno di accesso al tempo pieno (rispetto al tempo normale) è associato a un aumento di reddito di circa 5 punti percentuali. Relativamente alla diffusione delle mense, esistono informazioni sia sulla percentuale di scuole con la mensa in una certa area, sia sulla percentuale di studenti che effettivamente utilizzano la mensa rispetto al totale degli studenti di una certa area.
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Il Piano Asili Nido nel PNRR
Qui a sinistra potete scaricare la presentazione in PDF. Un articolo di Osservatorio Conti Pubblici Italiani Download SCARICA IL PDF.
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La ricerca e l’innovazione tecnologica in Italia
Anche escludendo gli Stati Uniti e i paesi asiatici, nel 2021 risulta all’undicesimo posto per domande di brevetti da registrare all’Ufficio Europeo dei Brevetti rispetto alla popolazione, essendo superata, tra gli altri, da Francia, Germania e Regno Unito. Tuttavia, il ruolo dell’Italia è marginale negli altri principali micro-settori tecnologici; in particolare nei settori ad alto tasso di conoscenza (computer, semiconduttori, biotecnologie, farmaceutico) il peso sul totale delle domande va dallo 0,7 al 2,1 per cento. Tale valore è superiore a quello della Spagna (1 per cento), ma più basso di quello della Francia (5,6 per cento) e molto inferiore rispetto alla Germania (13,8 per cento). Tale tasso è in linea con i paesi con un minore numero di brevetti, e molto più alto di Francia e Germania che presentavano un numero relativamente elevato di brevetti già nel 2012. La composizione dei brevetti italiani è più orientata verso l’ingegneria meccanica (es. macchinari e trasporti) rispetto sia alla media dei paesi che presentano brevetti all’EPO sia ai principali paesi europei (Fig. 5). Tuttavia, il peso dell’Italia rispetto all’estero è basso anche nel campo dell’ingegneria meccanica: 1.884 brevetti (5 per cento delle domande complessive), contro i 2.751 della Francia (7 per cento) e i 7.781 della Germania (21 per cento). Infine, l’Italia ha un ruolo marginale nei settori ad alto tasso di conoscenza, che svolgono un ruolo cruciale nella competizione tecnologica globale: computer (0,7 per cento), semiconduttori (1,4 per cento), biotecnologie (1,5 per cento) farmaceutico (2,1 per cento).
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Cosa prevede il PNRR per la transizione digitale
La quota di spesa gestita dal settore privato è limitata alle misure per la “Digitalizzazione delle imprese” e parte degli investimenti in “Ricerca e Sviluppo” ed è quindi limitata a meno di un terzo del totale. Tra questi 26 comprendono misure che sono relative alla digitalizzazione con coefficienti, rappresentanti l’apporto delle singole misure alla transizione digitale, del 100 o del 40 per cento (Tav. A1 in appendice). A causa di questa parziale considerazione di alcune misure, ai 48,1 miliardi qualificanti come digitali corrispondono 56,5 miliardi di spese totali. Infrastrutture pubbliche – Altre infrastrutture : Ulteriori 5 miliardi di euro sono stanziati per lo sviluppo di infrastrutture informatiche di varia natura: l’investimento più ingente (1,6 miliardi) è rappresentato dalla realizzazione di un sistema integrato di strutture di ricerca e innovazione del MIUR. Il potenziamento di centri di ricerca e la creazione di "campioni nazionali di R&;S" viene invece finanziata con 240 milioni, mentre ulteriori attività di ricerca vengono finanziate col progetto “Orizzonte Europa” (80 milioni). Da questa classificazione, è chiaro che il grosso della spesa per digitalizzazione sarà gestita dal settore pubblico, o per la diretta digitalizzazione della gestione e della fornitura di servizi pubblici (macrocategorie 2 e 3 e parte del 6) o per infrastrutture pubbliche (macrocategorie 4 e 5). Le smart grid sono l’insieme di reti di informazione e di distribuzione di energia elettrica “intelligenti”, ovvero in grado di minimizzare sovraccarichi di energia o variazioni di tensione elettrica.
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LED: una soluzione per l’illuminazione pubblica in Italia?
giugno 2022 Intermedio In Italia, il consumo e la spesa di energia elettrica pro-capite per l'illuminazione pubblica sono largamente superiori rispetto agli altri paesi europei. Benché le sorgenti a LED (quasi sempre bianche) siano la tecnologia più efficiente, la loro diffusione non solo non è stata associata a una significativa riduzione dei consumi ma ha anche contribuito ad aumentare l’inquinamento luminoso nel nostro Paese. Il consumo e la spesa per l’illuminazione pubblica Il consumo di energia elettrica per illuminazione pubblica in Italia tra il 2010 e il 2019 è stato relativamente stabile intorno ai 6.000 GWh, mentre è crollato a 5.146 GWh nel 2020, probabilmente a seguito della crisi pandemica (Fig.1). Una delle principali spiegazioni dietro l’elevata spesa e consumo di illuminazione pubblica italiana è l’eccessivo numero di punti luce e potenza installato rispetto, ad esempio, alla Germania. Sono i LED una soluzione? Una soluzione per ridurre il consumo di illuminazione pubblica adottata da circa il 60 per cento dei comuni italiani negli ultimi anni è stata quella di sostituire i lampioni con luce al sodio con lampadine a Light Emitting Diodes (LED). I LED sono considerati come le sorgenti più efficienti in quanto sono in grado di convertire oltre il 50 per cento in più di potenza elettrica (watt) in luce (lumen) rispetto alle lampade al sodio, abbassando quindi notevolmente sia il costo sia il consumo di energia elettrica. Quest’utilizzo “intelligente” di illuminazione permetterebbe di ridurre ulteriormente la quantità di luce in funzione dell’effettiva necessità di fruizione della stessa.
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Quali imposte dipendono da valori e rendite catastali e che gettito danno?
In ogni caso, le imposte che dipendono da valori e rendite catastali sono poche e il loro gettito è contenuto (nel 2018 circa 23 miliardi, il 5 per cento del gettito tributario). Il loro gettito complessivo è relativamente modesto – lo stimiamo intorno a 23 miliardi nel 2018 – ovvero, circa il 5 percento del totale delle entrate tributarie, di cui l’85 per cento è costituito dal gettito IMU (vedi sotto i dettagli per le singole imposte). L’imposta di successione e l’imposta di donazione L’imposta di successione (e in modo uguale quella di donazione) si applica ai beni immobili soggetti a successione (donazione). Nel caso di vendita queste imposte non dipendono dai valori catastali, ma in caso di trasferimento di un immobile per successione o donazione, il valore catastale costituisce la base imponibile per le imposte ipotecarie e catastali. L’aliquota è del 2 per cento e la base imponibile è il prezzo di vendita, ma è possibile richiedere l’applicazione del “meccanismo del prezzo – valore” sulla cessione di soli immobili abitativi a una persona fisica: in questo caso, l’imposta è calcolata sul valore catastale. Ad esempio, si supponga di acquistare una prima casa (applicando quindi un moltiplicatore di 110 e un coefficiente di rivalutazione di 1,05) con una rendita catastale di 1.000 euro e un prezzo di 250.000 euro. Acquisto di una casa (diversa dalla prima) da un privato o da un’impresa che vende immobili esenti da IVA. L’aliquota dell’imposta di registro è del 9 per cento e la base imponibile è il prezzo di vendita.
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Gli importi dei ticket sanitari nei paesi europei
I ticket in Italia in media sono più bassi di quelli degli altri paesi UE qui considerati, tranne che nel caso delle visite specialistiche ambulatoriali dove, soprattutto per spese di un importo relativamente elevato, l’Italia è vicino alla media. Questa compartecipazione può essere: (i) una quota fissa indipendente dal costo del servizio (spesso chiamato co-payment ) e/o (ii) una percentuale del costo del servizio fino a un certo importo massimo annuale (spesso chiamato co-insurance ). In base ai dati della Tav. 1 si può calcolare una “classifica” dei paesi per livello di costo della compartecipazione sia in termine di co-payment che di co-insurance. Nel dettaglio: Per le visite presso il medico di base consideriamo la classifica per una spesa di 100 euro e per una di 20 euro (Fig.1). Per confrontare l’entità dei ticket farmaceutici, sulla base dei dati presentati in Tav.2, consideriamo due ipotesi di spesa: (i) l’acquisto di 20 farmaci di tipo generico al costo di 10 euro l’uno e (ii) l’acquisto di 10 farmaci a 50 euro l’uno (Fig.4). I paesi che prevedono entrambe le modalità di condivisione dei costi e con una co-insurance particolarmente elevata sono penalizzati quando il prezzo del farmaco è più alto (Belgio e Portogallo); invece quelli con solo il co-payment guadagnano posti in classifica all’aumentare del numero di farmaci acquistati (Austria, Germania, Italia). Un altro determinante nella classifica è il tetto massimo di rimborso: ad esempio per i Paesi Bassi, la soglia è di 385 euro quindi, nel primo scenario lo stato pagherà l’intero importo, mentre nel secondo ci sarà un cost-sharing di 115 euro.
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L’impatto dell’inflazione sui conti pubblici: lo stato ci guadagna (per ora)
In seguito a questi aumenti, stimiamo una tassa di inflazione più alta di 43 miliardi, a fronte di un aumento della spesa per interessi di circa 8 miliardi (nell’arco di dodici mesi); quindi un effetto netto sul rapporto debito/Pil nel 2022 di 35 miliardi. Col passare del tempo e col progressivo rinnovo dei titoli a tassi di interesse che riflettono a pieno (o anche più) l’aumento dell’inflazione, l’effetto netto della tassa di inflazione su rapporto debito/Pil tende a esaurirsi. L’erosione del valore reale del debito pubblico – la cosiddetta tassa da inflazione – è calcolata (ex-post) come il prodotto tra il tasso di inflazione e lo stock di debito pubblico all’inizio del periodo considerato (escludendo i titoli di stato indicizzati). Di seguito, quantifichiamo l’impatto dell’aumento del tasso di inflazione e dei tassi di interesse sulla tassa di inflazione e sulla spesa per interessi, rispetto al quadro macroeconomico nella NADEF di settembre (Tav. 1 e 2). Nella NADEF era previsto un tasso di inflazione (la variazione del deflatore del Pil, ossia l’inflazione che conta per il rapporto debito/Pil) dell’1,6 per cento per il 2022 e il tasso di interesse sui titoli decennali era dell’1 per cento. Rispetto al quadro NADEF, si ottiene una tassa di inflazione più alta di 43 miliardi (2,3 per cento del Pil) e una maggiore spesa per interessi di 8 miliardi (0,4 per cento del Pil) con un effetto netto di 35 miliardi (1,9 per cento del Pil). In conclusione, anche a seguito di aumenti simili del tasso di inflazione e dei tassi di interesse, nell’arco di un anno l’effetto della tassa di inflazione è molto più ampio rispetto all’aumento della spesa per interessi.
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La spesa per ticket sanitari nelle diverse regioni d’Italia
Questa diminuzione è dovuta principalmente alle minori entrate legate alla specialistica ambulatoriale, a seguito del minor numero di visite ed esami specialistici durante la pandemia e dell’abolizione del Superticket nell’ultimo trimestre dell’anno. La compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria pubblica [1] Il valore della compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria pubblica in Italia (il valore dei “ticket”) è stato nel 2020 di circa 2,7 miliardi. Negli ultimi anni l’andamento è stato piuttosto costante (Tav. 1), ma la spesa per i ticket è calata di 682 milioni nel 2020, principalmente per i minori proventi (566 milioni) legati alla specialistica ambulatoriale (visite specialistiche, esami strumentali, esami di laboratorio, prestazioni terapeutiche e di riabilitazione effettuate in ambulatorio). Il restante calo della spesa (116 milioni) è legato all’emergenza Covid che, incidendo sulla mobilità, ha portato a minori consumi di farmaci (-95 milioni), al rallentamento degli ingressi in codice bianco in Pronto Soccorso (-18 milioni di euro) e ad altre minori spese (-3 milioni). Rispetto al 2019 tutte le regioni hanno subito un calo della spesa per ticket, ma il decremento maggiore è avvenuto in Piemonte e PA di Trento [4] (rispettivamente -30 e -36 per cento) a causa delle modifiche apportate dalla normativa regionale sulla quota fissa della farmaceutica convenzionata e ambulatoriale. La maggior parte delle regioni del Sud ha invece una spesa più sbilanciata verso i prodotti farmaceutici, con il caso limite della Campania che ha registrato il valore più elevato in termini di spesa pro-capite per ticket farmaceutici (circa 35 euro per i farmaci e 6,5 euro per i servizi sanitari). Per quanto riguarda la PA di Trento, a partire dal 1 gennaio 2020 sia la quota fissa di 3 euro sulle ricette per le prestazioni di specialistica ambulatoriale sia la quota fissa di 1 euro sulle ricette per la farmaceutica convenzionata sono state abolite.
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L’andamento delle pensioni di invalidità e delle indennità di accompagnamento in Italia
La differenza su base regionale delle prestazioni agli invalidi suggerisce però che la loro erogazione rifletta possibili logiche clientelari e non le effettive necessità da parte dell’utente. In Italia vi erano 5.382 prestazioni di invalidità ogni 100.000 abitanti a fine 2021, un aumento del 7 percento dalla fine del 2016 (5.051 prestazioni di invalidità). (Fig.1) Le spese per le prestazioni di invalidità vigenti che hanno ottenuto un rinnovo di pagamento, invece, sono salite del 16 per cento da dicembre 2016 a dicembre 2021 (da 15,8 a 18,3 miliardi) (Fig. 2). Questo è avvenuto anche per l’aumento, nel novembre 2020, dell’importo di a) pensioni di invalidità di invalidi civili totali, ciechi assoluti e sordi e b) pensioni di inabilità per gli utenti che non superano determinate soglie reddituali. (Fig. 3) Il numero delle prestazioni di invalidità liquidate ogni 100 mila abitanti per le diverse regioni italiane è riassunto in Fig. 4. Il divario tra regioni nel numero di prestazioni di invalidità può suggerire che molte di queste siano erogate in assenza di requisiti di grave necessità da parte dell’utente richiedente. Contatti con la Guardia di Finanza hanno infatti confermato che, nel periodo 1° gennaio 2020 – agosto 2021, sono state accertate frodi nel settore previdenziale (assegni sociali, pensioni di guerra, invalidità civile e altre) per quasi 48 milioni di euro.
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Le retribuzioni e i profitti in Italia e nell’Eurozona
La causa principale di questo cattivo andamento non è però l’aumento dei profitti: infatti, sempre negli ultimi decenni, l’Italia è al penultimo posto nella classifica dei profitti delle imprese per dipendente, sempre in termini reali. Al contrario, in Francia e Germania, dove la produttività è cresciuta, sono aumentati sia le retribuzioni sia i profitti delle imprese. In questa nota estendiamo l’analisi ai profitti delle imprese, confrontando: (i) la retribuzione (lorda) dei dipendenti e (ii) il Reddito Operativo Lordo (ROL) delle imprese, che utilizziamo come misura dei profitti (questo è dato dalla differenza tra i ricavi e i costi operativi, incluso il personale). La classifica dei profitti dell’Eurozona rispecchia quella delle retribuzioni, con le principali eccezioni di Portogallo, Irlanda e Spagna dove i profitti sono cresciuti molto di più delle retribuzioni (Fig. 3). Cosa ci dice il confronto tra i principali paesi europei? Le retribuzioni e i profitti delle imprese, in rapporto ai dipendenti, sono aumentati in Francia e Germania, dove la produttività del lavoro (Pil per lavoratore dipendente) è cresciuta nel tempo (Fig. 4). La Spagna rappresenta un caso particolare a partire dal 2008-09: la produttività è aumentata, seppur in maniera lieve, dalla crisi finanziaria, ma nello stesso periodo i profitti delle imprese sono aumentati in maniera sostenuta, mentre le retribuzioni sono calate. Anche cambiando anno base, tuttavia, vi è un forte aumento dei profitti dal 2007: ciò è spiegato sia da un sostenuto aumento dei profitti, sia da un effetto “denominatore” in quanto il numero dei lavoratori dipendenti scende con la crisi finanziaria.
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La riforma del sistema di reclutamento dei docenti
Grazie all’introduzione di requisiti più stringenti per la formazione iniziale e all’obbligatorietà della formazione continua, la riforma avvicina l’Italia ai meccanismi di formazione più diffusi negli altri paesi europei. Tuttavia, la riforma potrebbe non garantire sufficienti incentivi per attrarre nuove professionalità: la mancata definizione di un vero e proprio sistema di carriera interno al mondo della scuola connesso ai percorsi di formazione continua potrebbe rappresentare un limite al processo di rinnovamento della didattica della scuola dell’obbligo. Tra i 45 traguardi e obiettivi del PNRR del primo semestre del 2022, vi era anche l’approvazione parlamentare della “Riforma del sistema di reclutamento dei docenti” che modifica il processo di immissione in ruolo degli insegnanti e istituisce nuovi strumenti per la loro formazione iniziale e continua. Il reclutamento dei docenti Prima della riforma, le immissioni in ruolo dei docenti erano regolate da un decreto legislativo del 1994 (d.lgs. (Fig.1) Riguardo la formazione dopo l’assunzione dell’incarico, la riforma introduce l’obbligo di formazione e aggiornamento permanete rivolto ai docenti di ogni ordine e grado, che sarà articolato in percorsi triennali a partire dall’anno scolastico 2023/24. I programmi di formazione permanente saranno decisi e coordinati dalla “Scuola di alta formazione del sistema nazionale pubblico di istruzione” , la cui creazione è un obiettivo del PNRR da raggiungere entro fine 2022. Specifiche attività dovranno far parte dei percorsi triennali per formare, tra cui: le competenze digitali e l’uso critico e responsabile degli strumenti digitali; attività di “tutoraggio, […] guida allo sviluppo delle potenzialità degli studenti, volte a favorire il raggiungimento di obiettivi scolastici specifici; attività di sperimentazione di nuove modalità didattiche”.
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Il disegno di Legge di Bilancio 2023: un commento
Quasi il 60 per cento delle misure espansive è destinato ad interventi per contrastare il caro energia (20,2 miliardi) ed un altro 12 per cento circa (4,2 miliardi) a finanziare, anche per il 2023, il taglio del cuneo fiscale introdotto dal governo precedente. Il quadro macroeconomico e di finanza pubblica in cui si inserisce il disegno di Legge di Bilancio (DDL) e quello delineato il 24 novembre nel Documento Programmatico di Bilancio (DPB). L' indebitamento netto (o deficit) è stimato al 5,6 per cento per quest'anno, per poi scendere al 4,5 per cento nel 2023, rendendo disponibili rispetto al deficit tendenziale 21,9 miliardi di euro per le misure della manovra. La manovra per il 2023 La manovra di finanza pubblica delineata dal DDL di Bilancio per il 2023 prevede misure espansive che ammontano a 41,7 miliardi, con coperture pari a 18,2 miliardi e un maggiore indebitamento netto, rispetto al quadro a legislazione vigente, di 21,1 miliardi (Tav. 1). Le misure espansive Le misure espansive più significative solo elencate di seguito in ordine decrescente in termini di spesa: Misure in materia di energia elettrica, gas naturale e carburanti per un totale di 20,2 miliardi . Misure in materia di lavoro, famiglia e politiche sociali per un totale (al netto delle maggiori entrate fiscali generate dalle misure stesse e al netto di minori spese) di 3,6 miliardi . Sempre nel settore pensionistico quasi 2 miliardi nel 2023 (3,7 miliardi nel 2024) vengono computate dalla Ragioneria come “minori entrate” perché si tratta delle imposte sul reddito che non verranno incassate a causa della revisione del meccanismo di indicizzazione discusso più avanti nel testo.
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Le attuali Regioni a statuto speciale: un modello per l’autonomia differenziata?
Il disegno di legge sull’“autonomia differenziata” recentemente approvato dal CdM sembra far riferimento al modello delle RSS nel disegnare il percorso di attuazione dell’autonomia regionale per le RSO. Ma è una buona idea? Un’analisi della esperienza storica delle RSS suggerisce una risposta negativa, per due ordini di ragioni. della Costituzione, l’attribuzione di risorse e competenze a ciascuna RSS è governata dal proprio statuto , che ha valenza costituzionale, e dalle norme di attuazione dello stesso che nel corso del tempo sono state più volte riviste, in una dialettica costante con lo Stato nazionale. Più che di regime “speciale” per le RSS si dovrebbe perciò più correttamente parlare di “specialità nella specialità”, nel senso che in realtà ogni RSS è diversa da ogni altra, non solo per le diverse attribuzioni previste dallo statuto, ma anche per le funzioni effettivamente svolte. Quello che sorprende caso mai è che la spesa delle amministrazioni centrali in questi territori è sì mediamente un po’ più bassa (in termini pro capite) che nelle RSO, ma in misura limitata e non tale da compensare per la più elevata spesa locale. Nei tre territori sopra menzionati la spesa pro capite è attorno ai 1.400 euro contro i poco più di 800 euro delle RSO, che è simile alla spesa registrata dalle RSS che non gestiscono l’istruzione. di Bolzano), ma resta una chiara impressione di vantaggio per le RSS. Infine, il fatto che la spesa delle amministrazioni centrali per il personale resti nel complesso elevata anche nelle RSS può anche essere un’indicazione di una sovrapposizione di uffici amministrativi tra Stato e Regioni (o P.A.). Specificamente, nel caso delle RSS sono state prima stabilite delle quote di compartecipazioni ai tributi erariali e poi a seconda di come le risorse derivanti da queste quote si sono evolute si è deciso, attraverso una contrattazione con lo Stato, quali funzioni queste risorse dovevano coprire.
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Salario minimo: coinvolti almeno 3 milioni di lavoratori
Primo, si renderebbero validi erga omnes gli accordi stipulati dalle associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale relativi alla retribuzione complessiva (costituita dal trattamento economico minimo, dagli scatti di anzianità, dalle varie mensilità aggiuntive e altre componenti). Cosa propone esattamente il ddl in questione? Il primo articolo afferma che i datori di lavoro devono corrispondere “una retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”. Tuttavia il TEM relativo a un certo contratto può essere ricavato dividendo la retribuzione minima tabellare per il numero di ore, che nel caso del contratto dei metalmeccanici, per esempio, è pari a 173 ore. È questa voce della retribuzione che dovrà essere di almeno 9 euro lordi. La platea e l’impatto del salario minimo Quanti lavoratori riceverebbero una retribuzione più elevata se il ddl fosse approvato? Questa platea non coincide con quella dei “lavoratori poveri”, cioè quelli che hanno una retribuzione bassa, spesso identificata con un trattamento inferiore al 60 per cento del reddito mediano nazionale. Infatti questi lavoratori potrebbero avere una retribuzione bassa non perché hanno un salario orario basso, ma perché lavorano poche ore. Occorre quindi andare a identificare i lavoratori che sono poveri perché hanno una retribuzione oraria (intesa come minimo tabellare per ora) bassa, ossia inferiore a 9 euro lordi all’ora. È quindi probabile che il numero di lavoratori con un TEM inferiore a 9 euro l’ora, quelli che sarebbero coinvolti dalla legislazione sul salario minimo, sia significativamente superiore a 3 milioni, anche se non è chiaro di quanto. Ci potrebbero essere anche casi di altri lavoratori con rapporti di lavoro atipici, ossia da lavori caratterizzati da un’elevata flessibilità e che spesso non offrono al lavoratore gli stessi diritti del contratto di lavoro standard.
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BCE: gli acquisti di titoli italiani e i nuovi interventi annunciati
Tenendo conto dell’impegno a rinnovare i titoli che giungono in scadenza, si può stimare che la quota di debito pubblico detenuta dalla BCE e dalle istituzioni europee passerà dal 22,5 per cento del Pil nel 2019 al 42,1 per cento a fine 2022. A questa valutazione andranno aggiunti gli eventuali acquisti che verranno effettuati con i nuovi strumenti annunciati di recente, con lo scopo di limitare aumenti asimmetrici dei tassi di interesse sui titoli sovrani che mettono a rischio l’ordinata trasmissione della politica monetaria. A disposizione dalla BCE ci sarà poi un nuovo strumento, il Transmission Protection Instrument (TPI), che prevede acquisti di titoli del debito pubblico, senza limiti definiti ex-ante, al fine di limitare aumenti dei tassi di interesse che non siano giustificati dai fondamentali economici del paese. L’attivazione degli acquisti del TPI sarà ad ampia discrezione del Consiglio direttivo della BCE e richiederà che siano soddisfatte importanti condizioni, tra cui il rispetto delle indicazioni del semestre europeo sulle riforme e sui bilanci pubblici nonché la puntuale attuazione del PNRR. Inoltre, ha continuato a rinnovare i titoli detenuti che giungevano in scadenza: stimiamo che nel biennio 2020-2021 abbia rinnovato titoli italiani per 120 miliardi e che ne rinnoverà altri 88 miliardi entro la fine del 2022. Qual è l’ordine di grandezza dei reinvestimenti che la BCE potrà usare in maniera flessibile? La BCE non pubblica i dati sui titoli in scadenza del PEPP, ma rende noto l’importo aggregato dei titoli in scadenza del PSPP ogni mese sino a giugno 2023. Anzi, è verosimile (anche se non è stato per ora confermato) che l’attivazione del TPI sarò oggetto di un annuncio; il che segnalerebbe al mercato che la prima linea di difesa (gli acquisti flessibili del PEPP) non è stata considerata sufficiente.
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Il Meccanismo europeo di stabilità
Avendo adottato questa narrativa, è ovvio che il governo Meloni abbia difficoltà ad approvare la riforma, non nascondendo anche il proposito di utilizzare la propria approvazione come merce di scambio per ottenere migliori condizioni su altri dossier europei, a cominciare dalla riforma del Patto di Stabilità ora in discussione. Tale fenomeno era sostenuto dall’idea che l’incapacità di rispondere alla crisi e l’incremento dei tassi di interesse avrebbero alla fine spinto i Paesi al di fuori dell’aria monetaria al fine di recuperare competitività tramite una forte svalutazione della moneta nazionale. I mercati finanziari sono naturalmente in grado di anticipare questi effetti, creando le premesse, in presenza di uno shock improvviso, per una crisi di fiducia che può mettere in discussione la stessa capacità di sopravvivenza dell’Unione monetaria. Per evitare questi effetti e rafforzare la stabilità dell’area, un’alternativa è quella di costituire un Fondo, finanziato da tutti i Paesi appartenenti all’Unione, che in caso di difficoltà sia pronto a elargire prestiti a tassi di favore al Paese in questione. Il Mes è dunque una sorta di co-assicurazione tra i Paesi dell’area dell’euro, particolarmente a vantaggio di quelli finanziariamente più fragili e che garantisce, nel caso di un’improvvisa crisi di fiducia e della perdita di accesso ai mercati finanziari, che un Paese non verrà lasciato solo dai suoi partner. In dettaglio, il Mes viene istituito nel 2012 come un organismo permanente in sostituzione di due strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), introdotti nel 2010. La condizionalità varia a seconda della natura dello strumento utilizzato, configurandosi come un programma di aggiustamento macroeconomico nel caso dei prestiti, mentre è meno stringente nel caso delle linee di credito precauzionali destinate ai Paesi colpiti da shock avversi pur essendo in condizioni economiche e finanziarie sane.
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L’aumento dei tassi e i rischi per lo scenario internazionale: il caso del Pakistan
Il tentativo dei governi di rimettere ordine nei conti pubblici è oggi ostacolato dall’aumento dei tassi di interesse dei Paesi avanzati. In particolare, le preoccupazioni riguardano gli aumenti dei tassi americani, dato il ruolo preminente del dollaro sia nella fissazione dei prezzi delle materie prime sia nei debiti esteri dei Paesi in via di sviluppo. All’origine vi è il fatto che la pandemia e i successivi rincari energetici e dei beni alimentari hanno peggiorato la situazione finanziaria di molti Paesi in quanto hanno indotto i governi ad aumentare il debito pubblico a livelli insostenibili, specie in quei Paesi a medio o basso reddito. Si noti però che il problema è generalizzato: sui 19 Paesi considerati, ben 17 hanno visto aumentare la quotazione dei propri CDS. Inoltre, l’aumento medio sul totale dei Paesi considerati è stato pari a 1.300 punti base. Il primo è che il debito non è detenuto solo da banche americane o europee, ma anche da operatori residenti, il che pone problemi di consenso interno e di stabilità del sistema bancario. La Cina non è disposta a coordinarsi con il Club di Parigi (organizzazione che raggruppa i 22 Paesi più ricchi del mondo eccetto Cina e India) per alleviare il debito dei Paesi in via di sviluppo. È però evidente che in molti casi il problema non è la liquidità, bensì la solvibilità, e questa non può essere risolta se non da ristrutturazioni di debiti che, a differenza dei FIMA Repo, comportano perdite per il conto economico delle banche e di altri operatori internazionali.
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Cuneo fiscale per il lavoro dipendente: un confronto internazionale e gli effetti della legge di bilancio 2022
Nel 2021 l’Italia aveva il quinto cuneo fiscale più alto sia fra i paesi Ocse e sia fra quelli dell’area euro: per un lavoratore dipendente con uno stipendio lordo medio, il cuneo era del 46,5 per cento, contro una media del 41,4 per cento nell’area euro. In particolare, è passato dal 41,2 per cento al 38,6 per i lavoratori con il 67 per cento del reddito medio, dal 37,9 al 35,4 per le famiglie con un solo reddito pari al reddito medio e dal 40,9 al 39,2 per cento per le famiglie con due redditi, uno medio e uno medio-basso. Salvo poche eccezioni (per paesi che non prevedono imposte sul reddito o contributi previdenziali in busta paga), le componenti delle trattenute che formano il cuneo fiscale sono dunque tre: Imposte personali sul reddito a carico del lavoratore, incassate dallo stato centrale o dalle amministrazioni locali. Riguardo la diversa allocazione del cuneo fiscale nei paesi dell’eurozona, la porzione del cuneo fiscale a carico dei lavoratori è in media del 61 per cento, mentre per il 39 per cento è a carico dei datori di lavoro. Il cuneo fiscale per altre tipologie di lavoratori Oltre al caso di un lavoratore single senza figli con uno stipendio medio, l’Ocse fornisce dati sul cuneo fiscale di lavoratori dipendenti di altre tipologie, in relazione allo stipendio e alla composizione del nucleo familiare. La parte a carico dei lavoratori è calcolata come [(Imposta sul reddito + contributi a carico dei lavoratori) /cuneo fiscale], mentre la parte a carico del datore di lavoro è (contributi a carico del datore di lavoro/cuneo fiscale). Escludendo l’Italia, La media pesata dei paesi dell’eurozona per Pil pro capite in termini reali è 61 per cento (percentuale del cuneo fiscale a carico dei lavoratori) e 39 per cento (percentuale del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro).
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Il trattamento dei Rifiuti Urbani in Italia ed Europa
Occorrerà quindi un intervento infrastrutturale deciso nel trattamento dei rifiuti, soprattutto per ridurre quanto finisce in discarica: gli obiettivi europei per il 2035 sono, infatti, di contenere entro il 10 per cento lo smaltimento in discarica (siamo al 20,9 per cento). Gli obiettivi europei sul trattamento dei rifiuti urbani (RU) sono due: [1] Almeno 60 per cento di recupero di materia entro il 2030 (65 per cento entro il 2035). In termini pro capite siamo in linea con la media europea (501 kg) e lo siamo anche tenendo conto del nostro livello di reddito: i paesi a reddito più alto tendono a produrre più rifiuti e l’Italia è in linea con quanto dovremmo produrre in base al nostro reddito (Fig. 1). Come evidenziato dalla Fig. 3, pur avendo la sesta percentuale più alta di rifiuti urbani avviati a riciclo dell’Unione Europea, rispetto a paesi dell’Europa Occidentale abbiamo una percentuale troppo elevata di smaltimento in discarica (la media dell’Europa Occidentale è del 17,6 per cento). Un’analisi di Utilitalia stima che per lo scambio complessivo di rifiuti si percorrono 62 milioni km e l’emissione di 40 mila tonnellate di CO2 l’anno, con un costo di 75 milioni di euro. Per qualificarli come urbani, i rifiuti devono essere stati generati in ambito domestico, commerciale (compresi rifiuti di uffici e prodotti da piccole aziende) e istituzionale (quest’ultimo ambito include rifiuti prodotti sia da uffici governativi che da altre strutture/ambienti pubblici come scuole, ospedali e parchi). La marginale differenza con i valori del 2019 riportati per l’obiettivo europeo è dovuta al fatto che gli obiettivi sono definiti sul totale dei rifiuti generati, mentre queste percentuali sono definite sul totale dei rifiuti trattati in un anno.
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Cosa insegna l’esperienza dei LEA per l’autonomia differenziata
della Costituzione, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 2 febbraio 2023, la concessione di ulteriori forme di autonomia alle Regioni a statuto ordinario viene ufficialmente subordinata alla determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). A contemperare questa spinta verso l’efficienza, gli spazi di autonomia si devono accompagnare alla definizione di eguali opportunità, che lo Stato è tenuto a garantire tramite un livello appropriato di finanziamento (in base all’art. Seppur mai esplicitamente menzionati in tal senso nel testo del disegno di legge, è opinione diffusa che i LEP nell’ambito della funzione di “tutela della salute”, già ampiamente decentrata a livello regionale e locale, siano largamente sovrapponibili ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). I LEA sono infatti definiti dal Ministero della Salute come “le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse)”. inaugurò l’impiego dei LEA come indicatori di monitoraggio, rispondendo alla necessità di avere una valutazione sistematica della qualità e della quantità delle prestazioni da erogare in ambito sanitario. La valutazione dell’attività regionale è effettuata tramite un sottoinsieme di 34 dei 100 indicatori inizialmente individuati, per ognuno dei quali erano stati definiti dei pesi specifici per il calcolo del “punteggio complessivo”, di fatto un voto del compito svolto da ciascuna Regione. Per quanto riguarda le Regioni non sottoposte a PdR si verifica, invece, un andamento sincrono (in particolare dal 2016 in poi), con un punteggio LEA che migliora nel tempo, arrivando nel 2019 a una valutazione del 40 per cento circa più alta della soglia di sufficienza per il gruppo delle Regioni migliori.
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Il Documento Programmatico di Bilancio: una guida alla lettura
Il 24 novembre è stato pubblicato il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) che è il documento chiave che viene trasmesso per una valutazione alla Commissione Europea. In questa nota, spieghiamo cosa contiene il documento, alla luce del fatto che esso è di difficilissima lettura in assenza di una chiave interpretativa. La prima è che gli aiuti a fronte dei rincari coprono solo il primo trimestre del 2023, nella speranza che poi la situazione si normalizzi, cosa che è del tutto incerta. Guardando la Tav. 1 (in milioni di euro) saltano all’occhio le considerazioni seguenti: Fra le coperture ci sono due voci, per un totale di ben 13,3 miliardi, che sono classificate semplicemente come “altre entrate” (per 6,3 miliardi) e “altre spese” (per 7,0 miliardi). Ciò significa che per ora non sono esplicitate le coperture per tutta la parte di manovra che non è finanziata in deficit, anche se sono fatti degli annunci relativi ad una maggiorazione della tassa sugli extra profitti. La ragione è che l’esonero del 2 per cento dei contributi a carico del dipendente con redditi fino a 35 mila euro e del 3 per cento per i dipendenti con reddito fino a 20 mila euro vale solo per i “periodi di paga del 2023”. La spesa aumenta di 17,97 miliardi che sono quasi per intero spiegati dalla voce “sussidi”, ossia gli aiuti contro i rincari energetici, cui si aggiungono 2,2 miliardi per i consumi intermedi (in gran parte, acquisti della sanità) e 2,1 miliardi di maggiori trasferimenti in conto capitale.
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Riforme e dinamica della spesa previdenziale: quanto costerebbe Quota 103?
Cumulativamente, l’introduzione permanente di Quota 103 – che è solo una deroga temporanea alla legge Fornero – porterebbe a una maggiore incidenza della spesa pensionistica su Pil di 8,4 punti percentuali nel periodo 2024-2070. Dinamica della spesa pensionistica e riforme Nel giugno scorso, la Ragioneria Generale dello Stato (RGS) ha aggiornato le previsioni sull’evoluzione nel medio-lungo periodo della spesa previdenziale. Il rallentamento della crescita della spesa negli anni successivi è imputabile ai primi effetti dei provvedimenti introdotti con la riforma Amato del 1992, che ha inaugurato la stagione delle riforme che hanno interessato la previdenza pubblica a intervalli di pochi anni l’una dall’altra. Ai lavoratori più giovani (meno di 18 anni di anzianità contributiva) viene invece applicato il metodo di calcolo pro rata (una media ponderata del vecchio retributivo e del nuovo contributivo), mentre solo a coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1996 viene applicato un sistema di calcolo interamente contributivo. Previsioni di spesa future e analisi di scenario Se le “quote” rappresentano deroghe temporanee alla riforma Monti-Fornero del 2011, la tendenza di lungo periodo della dinamica della spesa pensionistica è guidata ancora dalle regole disegnate da questa riforma. Secondo la RGS, che analizza gli effetti dei due scenari fino al 2070, prima in maniera esclusiva e poi congiuntamente, rendere permanente Quota 103 produrrebbe già nel primo ventennio di previsione un aumento dell’incidenza della spesa su Pil di 0,3 punti percentuali l’anno in media (Fig. 3). Inoltre, vale la pena ricordare che un incremento del tasso di fecondità non mostrerebbe alcun effetto positivo sulla spesa pensionistica prima di vent’anni, il che fa dell’immigrazione per scopi lavorativi uno tra i principali rimedi alla crescita della spesa per pensioni.
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Deglobalizzazione o slowbalisation?
Tuttavia, queste statistiche non sono in grado di catturare le fragilità dovute all’iperglobalizzazione: il conflitto tra Russia e Ucraina è solo l’ultimo esempio di perturbazioni che hanno creato forti disagi lungo le Global Value Chains evidenziandone la scarsa resilienza di fronte agli shock. La seconda ragione è infatti costituita dal crescente ricorso a misure restrittive agli scambi che sono state introdotte – sotto forma di tariffe e di barriere non tariffarie – in violazione dello spirito alla base del funzionamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Non casualmente autorevoli commentatori come Richard Baldwin parlano di great trade collapse , in conseguenza del crollo conosciuto dall’import/export di numerose categorie di beni che lascia immaginare come la globalizzazione abbia ormai raggiunto e oltrepassato il suo punto di massimo sviluppo. Una tradizionale misura della globalizzazione reale è costituita dalla dimensione delle esportazioni mondiali come quota del Pil. Dalla Fig. 1 emerge che a livello mondiale queste abbiano raggiunto il punto di picco nel 2008 (24,7 per cento) per poi ridursi progressivamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale. Ciò che le stesse statistiche non sono in grado di catturare è invece il senso di debolezza e fragilità vissuto dal mondo globalizzato all’indomani dei tre grandi shock che lo hanno recentemente colpito: la crisi finanziaria del 2008, la pandemia nel 2020-2021 e l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. Il manifestarsi di uno shock determina una serie di effetti a cascata sull’intera catena produttiva, con possibili conseguenze negative che vanno dalla mancata disponibilità di input (che impedisce il proseguimento del ciclo produttivo) alla mancanza di beni finali per i consumatori. Per il futuro prossimo venturo lo scenario più probabile è quello di una slowbalisation , in cui l’interconnessione crescerà più lentamente di prima, ove l’esasperata ricerca dell’efficienza produttiva sarà sacrificata nel tentativo di realizzare delle GVCs che siano (almeno relativamente) più corte, robuste e resilienti.
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Il Comma 22 del debito europeo
La decisione, presa nel Consiglio europeo di luglio 2020, di emettere debito europeo per finanziare un ampio piano fiscale (il Next Generation EU, NGEU) è stata unanimemente salutata come un passaggio fondamentale (addirittura un “ Hamilton moment ”, secondo alcuni [1] ) verso una maggiore integrazione tra i Paesi europei. Come illustrato nei prossimi paragrafi, dopo un inizio brillante, il debito europeo viene ora collocato sul mercato a tassi di interesse più elevati di quelli richiesti per finanziare il debito di molti Paesi europei. Paradossalmente, questo succede malgrado il debito europeo sia considerato dalle agenzie di rating internazionali come meno rischioso del debito di questi Paesi, che pure riescono a finanziarsi a tassi inferiori. La differenza sta piuttosto nella dimensione del nuovo debito europeo, come evidenziato nella Fig. 1, dove è evidente la crescita delle emissioni di titoli della Unione a partire dal 2020, quando sono stati emessi i titoli SURE, per poi aumentare ancora nel 2021, con le prime emissioni di titoli NGEU. Per la relativa novità di emissioni di debito europeo per volumi così importanti, la Commissione ha preferito allocare circa la metà dei nuovi titoli UE tramite sindacati di banche piuttosto che tramite aste competitive, che è invece la pratica comune degli emittenti nazionali. Una volta che l’Unione europea diventasse un emittente consolidato, alla pari dei grandi Paesi europei, i problemi transitori, di fatto tutti legati a un insufficiente spessore del mercato dei titoli europei e di meccanismi istituzionali di pricing del debito europeo non sufficientemente sviluppati, verrebbero gradualmente risolti. I loro titoli di debito sono garantiti dai Paesi sovrani, ma sono scambiati in mercati diversi, più ristretti, e hanno un meccanismo di pricing differente, generalmente meno favorevole, di quello dei titoli di Stato nazionali.