Lavoro

Come affrontare il problema del mismatch?

06 luglio 2023

Intermedio

Come affrontare il problema del mismatch?

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Il problema del mismatch presenta due facce: da un lato, il livello di istruzione della popolazione può non essere adatto alle richieste del mercato; dall’altro, anche le scelte formative in ambito universitario possono essere differenti dalla domanda. In Italia, come in altri contesti, mismatch verticale e orizzontale devono essere però contestualizzati rispetto al tessuto produttivo del Paese. Le qualifiche richieste dalle imprese riflettono infatti le caratteristiche del sistema produttivo dell’Italia, che non sembra essere specializzata su settori ad alta intensità tecnologica e ad alto valore aggiunto. In questo contesto, parte dei laureati (già in numero limitato) hanno poco mercato, mentre altri continuano a cercare impiego all’estero così da ottenere retribuzioni più soddisfacenti in base al titolo di studio conseguito. Riorientare il Paese verso una più alta produttività richiede politiche industriali capaci di indurre le imprese a fare scelte lungimiranti. Sul fronte dei lavoratori, invece, si potrebbe guardare all’istruzione tecnico-professionale in ambito universitario come punto di partenza per avvicinare offerta e domanda di lavoro nel mercato italiano.

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Mismatch orizzontale e verticale

Come già discusso in una precedente nota, il “mismatch” nel mercato del lavoro fa riferimento alla mancata corrispondenza tra domanda delle imprese e offerta dei lavoratori.[1] Questo concetto generale nasconde due fenomeni differenti, entrambi rilevanti in Italia. Il mismatch orizzontale si riferisce alla difficoltà per le imprese di reclutare laureati in specifiche discipline. Nella nota si era mostrato come nel nostro Paese ci sia una discrepanza rilevante tra le specializzazioni universitarie degli studenti e le richieste delle imprese. Si ha invece mismatch verticale quando il livello di istruzione richiesto dalle imprese non è adeguato alla posizione ricoperta nel mondo del lavoro. Il livello di istruzione può essere superiore (over-qualification) o inferiore (under-qualification) a quello richiesto dalle imprese. In Italia, la maggior parte del mismatch verticale si riscontra per lavori che richiedono competenze intermedie.[2]

Come mostrato in Fig. 1, l’Italia non è molto diversa dagli altri Paesi europei per quanto riguarda il dato generale sul mismatch verticale. Infatti, il tasso di qualification mismatch complessivo per il mercato italiano è del 38,5 per cento contro il 39,9 per cento in Germania, il 41 per cento in Spagna e il 34,4 per cento della media OCSE. A fronte di questo dato generale, tuttavia, la percentuale di lavoratori over-qualified (20,2 per cento) in Italia è quasi quattro punti percentuali più alto della media OCSE (16,5 per cento). Questa over-qualification si registra nonostante il numero di individui che entrano nel mercato del lavoro con un titolo di studio terziario sia tra i più bassi nell’UE e tra i Paesi OCSE.

La peculiarità italiana non si limita a un basso numero di laureati (un dato che ci pone al penultimo posto in UE, prima della Romania), ma si estende anche al mismatch orizzontale. Dalla Fig. 2 emerge che l’Italia presenta un mismatch molto elevato (37 per cento) a livello UE, secondo solo a quello della Grecia (41,7 per cento) e tra i più alti a livello OCSE (quarto posto). Qualche esempio aiuta a capire: in Italia, i laureati in ambito letterario-umanistico e politico-sociale erano il 9 per cento del totale nel 2021; le richieste nel 2022 da parte delle imprese per lavoratori con queste specializzazioni si fermavano al 5,8 per cento del totale delle posizioni programmate. Al contrario, quasi il 23 per cento dei posti programmati erano destinati agli ingegneri, ma solo il 12 per cento dei neolaureati hanno seguito un percorso di studi compatibile.

Istruzione terziaria e struttura dell’economia italiana

I dati precedenti mostrano almeno due peculiarità italiane: un mismatch verticale caratterizzato da over-qualification nonostante il numero relativamente ridotto di laureati; un mismatch orizzontale guidato da un eccesso di offerta di lavoratori con competenze umanistiche e un eccesso di domanda di lavoratori con competenze tecniche. Proviamo quindi ad analizzare meglio il lato della domanda di lavoro. Nella Fig. 3 sono riportate le percentuali di professioni ad alta specializzazione sul totale delle posizioni lavorative.[3] La figura rende evidente come il nostro Paese, nei quindici anni appena trascorsi, non sia riuscito a creare posti di lavoro ad alta specializzazione. La percentuale di questo tipo di lavori è rimasta pressoché stabile in Italia (18,1 per cento nel 2008 contro il 18,4 per cento del 2022). Al contrario, tutti gli altri Paesi presi in esame hanno aumentato la percentuale di professioni ad alto grado di specializzazione, con conseguente aumento del numero di mansioni ad alto valore aggiunto, anche partendo da valori simili a quello italiano, come nel caso della Germania (20,5 per cento nel 2008 contro il 26,3 del 2022). Nel 2022, il numero di professionisti specializzati nel loro settore è molto più alto nei Paesi Bassi (36,7 per cento) che non in Italia, che registra un dato inferiore anche alla media dell’Eurozona (26,6 per cento).

Questi numeri possono essere facilmente contestualizzati rispetto al sistema produttivo italiano. I principali settori industriali in Italia sono caratterizzati da una media intensità tecnologica. Ciò si riflette a sua volta nei pochi investimenti in innovazione, come dimostrato dalla bassa spesa in Ricerca e Sviluppo in rapporto al Pil (Fig. 4): l’Italia investe l’1,48 per cento del Pil in R&S, contro una media OCSE del 2,71 e una media dell’UE a 27 del 2,11 per cento (dati 2021).

Si tratta dunque di un problema strutturale che ha radici molto profonde: i settori più rilevanti per l’economia nazionale non richiedono figure altamente specializzate né un maggior livello di investimenti in R&S. Ciò comporta una bassa domanda di laureati e anche un’allocazione inefficiente di questo capitale umano. Infatti, i pochi laureati presenti sul mercato italiano vengono assunti per svolgere mansioni con un livello di specializzazione medio-basso. Questo si riflette a sua volta in una scarsa produttività e in un basso valore aggiunto generato dal singolo lavoratore.

Scarsa produttività e basso valore aggiunto per addetto si riflettono ovviamente sui livelli retributivi. I dati relativi ai salari medi netti riportati in Fig. 5 sottolineano che l’Italia si trova sotto la media dell’UE a 27, dietro a Francia, Germania e Paesi Bassi.

Anche il premio salariale derivante da un maggior livello d’istruzione appare relativamente contenuto. Un lavoratore con titolo di studio universitario in Italia guadagna in media il 38 per cento in più di uno con diploma secondario di secondo livello o superiore (almeno il diploma di scuola superiore di secondo grado), contro un premio medio a livello UE del 52 per cento e a livello OCSE del 59 per cento (Fig. 6).

Il dato sui salari combinato con quello sul premio salariale suggerisce come, per i laureati, il divario salariale con l’estero sia notevole. I laureati italiani occupati all’estero, infatti, vengono retribuiti circa il 40 per cento in più rispetto ai laureati impiegati in Italia già a un anno dal conseguimento del titolo, e il 47 per cento in più dopo 5 anni (Fig. 7). Tutto ciò contribuisce certamente a spiegare il fenomeno della cosiddetta “fuga di cervelli”, che l’Italia sta sperimentando da anni e che viene spesso citato come uno dei problemi principali da risolvere per risollevare la forza economica del Paese.

Il legame con la produttività

I bassi livelli salariali riflettono in larga misura la stagnazione della produttività del lavoro che caratterizza l’Italia nel confronto con le altre economie. Dal 2012 al 2022 la crescita media annua del Pil per ora lavorata in Italia è stata di soli 0,3 punti percentuali contro lo 0,9 registrato sia dall’UE a 27 che dall’OCSE. Il valore italiano è tra i più bassi fra i Paesi considerati; in particolare, il confronto con la Germania mostra un divario in costante aumento già dal 1990.

La presenza di mismatch contribuisce a frenare la produttività, poiché i lavoratori over-skilled producono meno di quanto potrebbero dato il loro titolo di studio, mentre i lavoratori horizontally mismatched si trovano occupati in settori per i quali non hanno una preparazione formale e dunque, almeno inizialmente, non sono in grado di realizzare appieno il proprio potenziale produttivo. La riduzione del mismatch (di ogni tipo) permetterebbe di rendere più efficiente la produzione del singolo lavoratore, aumentandone la produttività e la qualità dell’output. Alcune simulazioni, riportate in Fig. 8, mostrano come l’Italia beneficerebbe di un aumento del 10 per cento della produttività nello scenario in cui il mismatch delle competenze venisse portato al livello minimo in ogni macrosettore economico.[4]

Il ruolo dell’istruzione

I bassi premi salariali potrebbero peraltro generare disincentivi a proseguire gli studi per raggiungere un livello di istruzione universitario. Come noto, l’Italia ha una delle percentuali più basse di popolazione con istruzione terziaria tra i Paesi UE e OCSE. Nonostante ci sia stato un incremento di circa il 180 per cento dal 2000 al 2021 (Fig. 9), la percentuale di individui tra i 25 ed i 34 anni con istruzione terziaria (secondo la classificazione ISCED 2011) resta più alta solo di quella dell’Indonesia e del Messico, attestandosi al 28 per cento e discostandosi fortemente dai numeri dei principali Paesi europei, nonché dalla media OCSE (48 per cento).

Anche le carriere universitarie durano di più in Italia che altrove. Fra i pochi che si iscrivono all’università, la percentuale di studenti che concludono il percorso di studi entro il termine teoricamente previsto del programma è solo il 21 per cento: il 19 per cento per gli uomini e il 22 per cento per le donne. Sebbene la percentuale aumenti sensibilmente considerando anche i tre anni successivi al termine previsto (53 per cento), gli studenti che completano il ciclo di studi rappresentano ancora la percentuale più bassa tra i Paesi analizzati (Fig. 10).

Che fare?

Per rilanciare la produttività e mantenere una posizione di forza in un contesto internazionale sempre più competitivo nei settori a basso contenuto tecnologico, l’Italia dovrebbe puntare su un modello produttivo completamente diverso da quello attuale. Si tratta di un cambiamento importante, che richiede un nuovo posizionamento rispetto alla divisione internazionale del lavoro e con effetti sul lungo termine. Senza scelte lungimiranti, puntare a una maggiore offerta di laureati data la struttura attuale dell’economia italiana contribuirebbe probabilmente a esacerbare il problema del mismatch, almeno nel breve o medio periodo.

In questo contesto, un’altra opzione – che punta a dare risposta alla richiesta di figure tecnico-professionali con competenze intermedie da parte delle imprese – è quella di riformare il sistema di istruzione del Paese. L’Italia è infatti caratterizzata da un sistema formativo in cui il ciclo secondario separa un percorso generalista (licei) da uno più professionalizzante (istituti tecnici e professionali). Per quanto riguarda invece il ciclo terziario, non vi è una simile differenziazione, e l’offerta formativa si basa su un percorso di tipo unicamente generalista. La riforma dei cicli di istruzione terziaria degli anni Novanta (il cosiddetto “3+2”) aveva tra i propri obiettivi la creazione di figure che potessero entrare nel mercato del lavoro subito dopo il primo triennio. Tuttavia, il tipo di istruzione erogata nel primo triennio universitario è necessariamente generalista, dovendo fornire le basi per l’ingresso nelle lauree magistrali. Sembra mancare, quindi, un’opzione professionalizzante di alto livello, simile a quelle che sono le Fachhochschule in Germania. Nel sistema tedesco, infatti, questi istituti sono di livello paragonabile alle università o ai politecnici, ma permettono di formare individui con capacità specifiche che rispondono alle esigenze delle imprese compensando almeno in parte i problemi di over-qualification o under-qualification di cui si è detto.

In Italia l’unico tentativo di avvicinarsi alle Fachhochschule è stato quello degli Istituti di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (ITS e IFTS), che però sono pensati per arricchire la qualificazione degli studenti della scuola secondaria e non permettono di conseguire un titolo di istruzione di livello terziario, categorizzandosi solo come post-secondari.

Il passo in avanti fatto in Italia in questo contesto è stata l’istituzione del Sistema terziario di istruzione tecnologica superiore, di cui gli ITS fanno parte con la nuova denominazione di Istituti Tecnologici Superiori (ITS Academy).[5] La riforma è volta a promuovere l’occupazione giovanile tramite la copertura di figure richieste dall’industria italiana, che però avrebbero anche conoscenze tecniche specifiche e sarebbero dunque in grado di rispondere alle esigenze di innovazione e sviluppo dell’economia italiana. Questa opzione permetterebbe di aumentare anche il livello di istruzione della popolazione. L’ITS Academy dovrebbe rappresentare un’alternativa alle lauree triennali, configurando un segmento di istruzione terziaria professionalizzante che mira a offrire un percorso formativo anche a chi non si iscrive a un corso universitario o lo fa senza poi completare il ciclo di studi. Ciò dovrebbe rendere il percorso attrattivo per un numero di studenti decisamente maggiore rispetto alle poche migliaia finora coinvolti negli ITS e IFTS. L’elevata dotazione di risorse del PNRR destinata alle ITS Academy (1,5 miliardi di euro) è un presupposto fondamentale per l’avvio della riforma. La promozione di un efficace coordinamento degli attori coinvolti a livello locale (scuole, università, imprese, centri di formazione) sarà il fattore chiave per il suo successo.


[1] Si veda la nostra precedente nota: “Il mismatch nel mercato del lavoro”, OCPI, 20 giugno 2023.

[2] In Italia, infatti, la maggior parte delle difficoltà di reperimento sono relative alle qualifiche intermedie, come mostrato dalla Figura 6 del report “Skills for Jobs 2022” dell’OCSE. Tali professioni ricadono nelle categorie da 3 a 8 della classificazione “International Standard Classification of Occupations” (ISCO). Si tratta quindi di: professioni tecniche intermedie; impiegati d’ufficio; attività commerciali e servizi; personale specializzato addetto all’agricoltura; artigiani e operai specializzati e conduttori di impianti, macchinari e addetti al montaggio.

[3] Con “professioni ad alta specializzazione” si intendono tutte le professioni rientranti nella categoria manager e professionals riportate da Eurostat. Tali professioni rientrano nella classificazione internazionale ISCO alle categorie 1 e 2, che includono dirigenti, specialisti in scienze e ingegneria, educatori, medici ecc.

[4] Si veda M. Adalet McGowan, D. Andrews, “Labour Market Mismatch and Labour Productivity: Evidence from PIAAC Data”, OECD Economics Department Working Papers, No. 1209, Paris, OECD Publishing.

[5] Secondo la Legge 15 luglio 2022, n. 99.

Un articolo di

Lorenzo Cappellari, Ilaria Maroccia, Federico Neri, Gilberto Turati

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