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500 risultati trovati

  • Come migliorare il Reddito di cittadinanza

    C’è però una cosa che va difesa: chi è abile al lavoro deve perdere il sussidio se non accetta un certo numero di offerte. La distinzione è giusta in astratto, ma in concreto se si vuol dare un sussidio di ultima istanza anche a chi può lavorare sembra giusto condizionarlo all’accettazione di un lavoro. Ma hic rodus: occorre in qualche modo arrivare a distinguere, sapendo che ci saranno, come già oggi ci sono, una grande quantità di invalidi di comodo. Si obietta che in Germania gli uffici del lavoro hanno un personale che è dieci volte quello dell’Italia. Questo è vero, ma sarebbe sbagliato pensare di imitare la Germania immettendo altre migliaia di navigators nel sistema. Va piuttosto pensato un sistema di voucher a favore del beneficiario, il quale può decidere di spenderli anche presso un’agenzia per il lavoro privata. Ed è forse il caso di dire che se una persona è abile al lavoro, non dovrebbe beneficiare del sussidio per più di un certo numero di anni consecutivi.

  • Troppe speculazioni sul gas: il governo deve fermarle

    Il prezzo del gas in bolletta per gli utenti “a maggior tutela” (ancora la maggior parte) è un prezzo regolato, ossia un prezzo fissato da un’autorità pubblica, in questo caso l'Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA). La formula è complicata, ma un punto è chiaro (vedi pagina 4 della citata delibera): il costo della materia prima dipende dalle quotazioni del gas sul mercato TTF, un mercato internazionale dove, ogni giorno, il prezzo del gas varia in base alla domanda e all’offerta. Infatti, il costo del gas che noi importiamo è solo lontanamente legato al prezzo del mercato TTF. Nella figura la linea tratteggiata illustra l’andamento del prezzo del gas TTF, quella solida è invece il prezzo a cui effettivamente importiamo gas. Tra il quarto trimestre del 2020 e il quarto trimestre 2021 il prezzo del gas importato è salito notevolmente (58 per cento), ma solo un decimo dell’aumento del prezzo TTF. Perché questa divergenza? Il motivo è che il prezzo del gas importato è fissato da contratti pluridecennali (anche trentennali). Inoltre, fino al 2008 i contratti prevedevano un’indicizzazione del prezzo del gas non al prezzo di mercato del gas ma al prezzo di mercato del petrolio. La formula per determinare il prezzo del gas deve cambiare per tener conto del fatto che i prezzi a cui si sta importando gas in Italia sono cresciuti molto meno di quelli del TTF. Si potrà discutere come farlo. Ma prima dovrebbe assicurarsi che quei soldi (ci sono svariati miliardi in gioco) non vadano ad aumentare i profitti di imprese che hanno semplicemente la fortuna di operare in un mercato in cui il prezzo è regolato “a maggior tutela”, in questo caso a maggior tutela dei venditori.

  • Il contributo delle multinazionali all’economia italiana

    Innanzitutto, non è vero che in questi anni vi sia stato un processo di svendita all’estero delle imprese italiane. Secondo i dati della Banca Mondiale, gli investimenti diretti esteri in Italia, incluse le partecipazioni oltre la soglia del 10%, sono piuttosto modesti: nella media degli ultimi 10 anni, sono stati pari al 1,2% del Pil, assai meno che in Francia (2,1%), Germania (2,6%), Spagna (3,1%). In secondo luogo, non è vero che le multinazionali, fondi di investimento compresi, sono come le cosiddette locuste che “comprano, smembrano e scappano”. Le multinazionali – continua Istat - contribuiscono significativamente agli aggregati economici della nazione: esse rappresentano il 8,7% degli addetti dell’aggregato industria e servizi e il 16,3% del valore aggiunto. Le imprese estere in Italia sono 16mila e impiegano 1,5 milioni di persone; le imprese italiane all’estero sono quasi 25mila, sono presenti in 178 paesi e impiegano 1,8 milioni di persone. Ovviamente, ogni operazione va giudicata per i suoi meriti (o demeriti) specifici, ma non c’è dubbio che in generale le multinazionali sono portatrici di innovazione sotto il profilo delle tecnologie e delle culture manageriali e organizzative. Dunque discutiamo di KKR e Tim, ma, se possibile, con mente sgombra da giudizi affrettati e, soprattutto, rallegriamoci che qualcuno sia interessato all’Italia.

  • Cosa vuole davvero l’Italia?

    L’articolo sostiene che “L’Italia pretende di ricevere molti soldi … in ogni caso, non come credito, ma come contributo che non deve essere restituito”. Il governo italiano, e quelli degli altri paesi dell’UE, compreso il governo tedesco, hanno concordato di raccogliere risorse dai mercati finanziari per sostenere iniziative comuni volte a combattere gli effetti sanitari ed economici della pandemia del Coronavirus. Le iniziative sopra descritte comportano invece qualcosa di ben diverso: si tratta di risorse che vanno a finanziare future politiche per investimenti produttivi decise in comune ed è per questo che sono finanziate in comune. Quale sarebbe il costo per la Germania di tale solidarietà? Le agenzie europee che dovrebbero reperire risorse per finanziare le iniziative sopracitate si finanziano a tassi di interesse di pochi decimi di punto superiori a quelli della Germania. L’eventuale costo per la Germania di finanziare in comune queste iniziative, se volesse essa stessa beneficiare dei prestiti, sarebbe quindi limitato al pagamento di un tasso di interesse leggermente superiore a quello cui potrebbe prendere a prestito se si finanziasse da sola. Se si tratta di solidarietà, non è certo molto costosa! Per quanto riguarda gli acquisti di titoli da parte della BCE, si tratta di decisioni di politica monetaria prese indipendentemente da quest’ultima. Infine, visto che gli acquisti sono intrapresi dalle banche nazionali (per esempio, è la Banca d’Italia che acquista i titoli italiani), un eventuale rischio di mancato rimborso è sostenuto dalle stesse banche nazionali.

  • I margini sono stretti ma sarà dura fermare l’assalto alla diligenza

    La LdB si dovrà collocare entro il quadro definito dalla Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) del settembre scorso. La NADEF dice anche che, senza nuove misure, il deficit sarebbe stato di 83 miliardi. Come saranno utilizzate? Lo doveva indicare il Documento Programmatico di Bilancio da inviare a Bruxelles venerdì scorso (in preparazione della LdB da mandare in Parlamento entro il 20 ottobre), ma ancora non è stato approvato. Verranno però rinnovate altre e più consistenti misure introdotte di recente: l’aumento delle spese sanitarie, gli incentivi all’efficientamento energetico (alias il prolungamento del superbonus al 110 per cento), il fondo di garanzia per le PMI e gli incentivi agli investimenti innovativi. La NADEF nomina la riforma degli ammortizzatori sociali, che di per sé dovrebbe costare parecchi miliardi, e “un primo stadio della riforma fiscale”, visto che il disegno di legge delega sul fisco, di recente approvato dal governo, ha tempi parecchi lunghi. Si spera che rientrino in questa categoria, oltre agli investimenti pubblici, anche spese per la pubblica istruzione, altrimenti mancanti e molto più rilevanti di tante delle spese sopra elencate. Cosa non dovrebbe stare nella LdB (ma probabilmente ci sarà)? La pletora di mini misure (l’assalto alla diligenza) che ha sempre caratterizzato le nostre leggi di bilancio nonostante la legge sul bilancio dello stato del 2009 ne proibisca l’inclusione.

  • Inflazione e il dilemma delle banche centrali

    L’aumento dei prezzi è un fenomeno comune a tutte le economie avanzate e, anzi, in Italia è meno accentuato che in Usa (dove l’inflazione ha raggiunto il 6,2%) o in Germania (4,5%). I pessimisti fanno notare che il 3% è il valore più alto dal settembre 2012 e, soprattutto, che l’aumento mensile di 0,7 corrisponde a un’inflazione di 8,7% in ragione d’anno; in altre parole, se lo 0,7 si replicasse per 12 mesi, alla fine l’inflazione annua, quella a cui normalmente si guarda, arriverebbe a 8,7%. Il timore è che questi numeri si radichino nelle aspettative e inducano i sindacati a chiedere aumenti salariali rimettendo in moto quella spirale prezzi-salari che sembrava sopita da decenni. La prima è che l’inflazione media sui 24 mesi è solo all’1%; il concetto di inflazione a 24 mesi ha senso per tenere conto del fatto che durante i lockdown le imprese hanno compresso i margini in misura straordinaria e ora stanno tornando alla normalità. Gli ottimisti fanno anche notare che l’inflazione ‘core’, ossia al netto di energia e alimentari, è molto bassa. In tutto questo, il dilemma delle banche centrali, soprattutto della Bce, è che se mostrassero di preoccuparsi, come un po’ dovrebbero, non farebbero altro che confermare le aspettative dei pessimisti. Di qui l’assoluta stranezza di banche centrali che per tenere bassa l’inflazione sono costrette a dar mostra di essere colombe: il contrario di ciò che hanno sempre fatto.

  • Intervista di Milano Finanza a Carlo Cottarelli

    Per riuscire a raggiungere questo risultato la coalizione di governo dovrà ritrovare rapidamente l’unità dopo la spaccatura che si è venuta a creare per l’elezione del presidente della Repubblica. Anche la rielezione di Mattarella è un’ottima notizia per il Paese ma è arrivata alla fine di un processo travagliato che ha fatto emergere spaccature tra le coalizioni e all’interno degli stessi partiti. A prevalere sono stati personalismi ma ora la speranza è che prevalga invece il senso di responsabilità, con il Parlamento che nei prossimi mesi dovrà approvare riforme cruciali per il Paese e per avere accesso ai 50 miliardi di finanziamenti europei previsti per quest’anno. Sarebbe messa a rischio la crescita economica che in ogni caso, ad oggi, appare più un rimbalzo rispetto al crollo del 2020 provocato dalla pandemia che una vera ripresa stabile. Quali sono invece i rischi che l’inflazione freni la ripresa con la Fed e la BCE che sembrano pronte ad una stretta monetaria? Secondo l’interpretazione della Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, il fenomeno dell’inflazione non è transitorio, dovuto cioè ad un rimbalzo dell’economia post pandemia, ma è la conseguenza di politiche economiche che in passato sono state troppo espansive. La BCE potrebbe rivedere i propri piani di acquisto che per l’Italia, per il 2022, valgono 60 miliardi di titoli di Stato, ovvero il 60% del deficit pubblico.

  • Eurobond, l’opzione di Bruxelles

    Credo sia utile quindi riassumere quello che è stato deciso, quello che probabilmente verrà presto deciso e quello che invece manca. La prima è che le banche potranno prendere a prestito dalla BCE importi illimitati di risorse per prestare a piccole e medie imprese e potranno farlo a tassi di interesse negativi. La seconda è che i vincoli che condizionano l’erogazione del credito relativi al capitale proprio delle banche sono stati attenuati. Dato che una banca per prestare ha bisogno di due cose (liquidità e capitale proprio), queste decisioni rendono di fatto molto più facile l’erogazione del credito. Il comunicato nota che i paesi dell’area hanno già deciso l’introduzione di misure espansive quest’anno pari all’1 per cento del Pil (circa 120 miliardi di euro) e di garanzie e altri sostegni alla liquidità delle imprese (come ritardi nei pagamenti delle tasse) pari a dieci volte tanto. Segue poi la frase più importante: “L’eurogruppo accoglie con favore il fatto che la Commissione sia pronta ad attivare la clausola generale” che consente al deficit pubblico dei paesi membri di sforare il tetto del 3 per cento del Pil, la più “sacra” delle regole europee. E non poteva non farlo visto che l’armamentario a disposizione della BCE include dal 2012 uno strumento (le Outright Monetary Transactions, OMT) che consente proprio acquisti di titoli di stato di paesi sotto pressione, per importi praticamente illimitati, per calmierare gli spread.

  • La bolletta elettrica e la transizione energetica

    Si tratta di una cifra davvero considerevole, se si pensa che lo stanziamento copre solo il terzo trimestre dell’anno. Il Ministro Cingolani ha preannunciato aumenti nell’ordine del 40%, i ricercatori di Goldman Sachs dicono che le cose sono destinate a peggiorare ancora e le forze politiche, comprensibilmente, si preoccupano e chiedono un ulteriore intervento del governo. Il paradosso è che i governi (forse non solo quello italiano) reagiscono tagliando quella parte della bolletta che serve a finanziare le rinnovabili. Insomma, la sola prospettiva della transizione energetica fa aumentare i prezzi delle fonti tradizionali, che è la cosa giusta per realizzare davvero la transizione. A questo i governi pensano bene di reagire riducendo il costo delle fonti tradizionali (che compongono la gran parte della bolletta elettrica) e per di più lo fanno tagliando i finanziamenti delle energie rinnovabili. E questo mentre tutti gli esperti e le organizzazioni internazionali dicono che i prezzi dell’energia devono aumentare. Prima o poi, la transizione energetica deve uscire dai salotti (e anche dai centri studi) e diventare un’equazione costi/benefici di cui almeno i politici devono essere pienamente consapevoli.

  • Chi paga i costi dell'inflazione

    Spesso è stato il documento in cui obiettivi di risanamento dei conti pubblici venivano ridimensionati anche in presenza di un miglioramento delle condizioni economiche. Il secondo DEF di governo Draghi porta invece qualcosa di nuovo: inevitabilmente il quadro macroeconomico peggiora, almeno nel breve periodo, ma il quadro di finanza pubblica resta immutato, anzi, in certi aspetti migliora. In parte questo è dovuto alla prudenza con cui gli obiettivi erano stati fissati in passato, in parte ha a che fare con una nostra vecchia conoscenza, di recente riapparsa: l’inflazione. Il tasso di crescita del Pil reale è stato ridotto dal 4,7 per cento previsto nella legge di bilancio, al 3,1 per cento a causa dell’aumento del prezzo delle materie prime (una maggiore tassa che dobbiamo pagare ai produttori di materie prime) e dell’incertezza causata dalla guerra in Ucraina. Cosa comporta una crescita del 3,1 per cento? Anche con crescita zero durante l’anno, il Pil annuo sarebbe stato più alto di quello del 2021 del 2,3 per cento (era il cosiddetto “acquisito”). Attenzione però a una cosa: il deflatore del Pil, cioè il prezzo di beni e servizi prodotti all’interno aumenta molto meno (3 per cento), visto che, in buona parte, l’inflazione al consumo è importata. L’aumento delle entrate, dovuto soprattutto alla maggiore inflazione, e una prudenza nell’esecuzione della spesa ci fa finire il 2021 con un deficit del 7,2 per cento contro il 9,4 per cento previsto a ottobre.

  • «Per ripartire va ridotta la pressione fiscale di due punti, senza deficit»

    Il tema dovrebbe farsi largo nell'agenda di governo, ma per ora anima il dibattito fra economisti mentre continua a latitare nel confronto interno alla maggioranza, in vista di una verifica che per il momento rimane in stand by in attesa delle elezioni regionali. Da dove si deve ripartire? Prima di tutto bisogna mettersi d'accordo sulle ragioni per le quali l'Italia ha avuto un tasso di crescita inadeguato negli ultimi vent'anni. Questo impone di porsi la domanda su quale sia il fattore che porta crescita in un'economia di mercato: e questo fattore, indiscutibilmente, è rappresentato dagli investimenti delle imprese che sono troppo bassi e non per colpa loro. Nel programma di governo si parla di riduzione della pressione fiscale, ma per ora mancano i risultati perché quest'anno la pressione non diminuisce anche se è positivo che per lo meno non aumenti. E la risposta è nel fatto che negli anni di crescita migliore, fra il 1993 e il 2007, non abbiamo colto l'occasione di aggiustare i nostri conti pubblici. Dobbiamo al più presto riformare l'economia italiana per far riprendere la crescita su basi stabili, con una minore pressione fiscale finanziata da risparmi sul lato della spesa, un taglio drastico alla burocrazia e un efficientamento della pubblica amministrazione, a partire dalla giustizia. Ma il tempo che abbiamo sprecato ci impone di sperare anche nella fortuna, cioè che lo shock esterno non colpisca l’Italia prima che queste riforme siano attuate.

  • La via stretta del governo

    La misura più visibile e ingente è il taglio delle accise sui carburanti di 25 centesimi al litro (una misura, devo dire, non molto mirata: ne beneficeranno tutti, anche chi non ne avrebbe avuto bisogno). Primo, mentre i precedenti interventi erano stati possibili senza nuove tasse, contando esclusivamente sul migliore andamento delle entrate nel 2021 per la maggiore crescita e inflazione, i 4,4 miliardi del nuovo pacchetto sono stati finanziati principalmente dalla tassa del 10 per cento sugli extra-profitti delle imprese energetiche. Resta il fatto che la bonanza delle entrate osservata nel 2021 non è più sufficiente, anche perché l’indebolirsi del ciclo economico a seguito della guerra avrà ripercussioni per le entrate nei prossimi mesi. Terzo, se il governo ha fatto bene a evitare uno scostamento di bilancio a meno di 3 mesi dalla sua approvazione, ha fatto di necessità virtù. E la BCE nella sua ultima riunione ha annunciato un’uscita dal programma di acquisto di titoli di stato più rapida del previsto: questo comporterà minori acquisti di titoli italiani durante il 2022 per circa 20 miliardi. Serve un nuovo piano finanziato da debito comune, visto che la nostra capacità di indebitarci verso i mercati finanziari è limitata e gli acquisti di BTP da parte della BCE si stanno assottigliando. Il NGEU aveva superato le obiezioni dei paesi “frugali” (saranno antipatici, ma sono quelli che ce la farebbero benissimo da soli) con l’implicita intesa che sarebbe stato un “una tantum” giustificato dall’eccezionalità della situazione.

  • Riforma del processo civile e meno burocrazia: così si può ridurre l'Irpef

    Quest’anno le tasse sul lavoro si ridurranno con un effetto a regime (nel 2021) di 5 miliardi, passo utile, ma modesto: occorre fare di più per rendere il nostro lavoro e le nostre imprese più competitive. In più i dati del Pil del quarto trimestre, usciti una decina di giorni fa, fanno pensare che il Pil e quindi le entrate dello stato, quest’anno e il prossimo, saranno più basse del previsto. Sarebbe utile aumentare l’Iva, almeno in modo selettivo, e con questa finanziare il taglio delle tasse sul lavoro? Beh, questo è appunto quello che già è stato previsto: una parte dell’aumento dell’Iva legato alle clausole di salvaguardia serve, appunto, a finanziare il taglio del cuneo fiscale. Probabilmente è vero, ma quanto è importante? Perché dovrei lavorare di più se poi i beni costano più caro per l’aumento dell’Iva? Lo stato potrebbe prendere più soldi a prestito, aumentando il deficit pubblico rispetto ai piani attuali. Ma questo rinvia ancora nel tempo il momento in cui il nostro debito pubblico scenderà, rispetto al Pil. Anzi, forse prolungherà il periodo in cui, come è avvenuto negli ultimi due anni, il debito aumenta, esponendoci sempre più al rischio di un innalzamento dei tassi di interesse. Ma occorre capire che la riduzione dei tempi della giustizia (i processi che arrivano in cassazione durano 8 anni in media, contro 2 anni in Germania e poco più di 2 in Spagna) sono inaccettabili in un’economia moderna. Dal lato dei tribunali, dato che spendiamo più o meno come gli altri paesi europei rispetto al Pil per la giustizia, occorrono cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e, perché questi diventino effettivi, incentivi a considerare da parte dei giudici la durata dei processi come un aspetto essenziale della loro attività.

  • «All’Italia serve piano in deficit da 36 miliardi finanziato con eurobond»

    Per evitare una recessione, l’Europa avrebbe bisogno di un’espansione fiscale da almeno due punti di Pil, che sono per l’Italia 36 miliardi di euro». Quale risposta dovrebbe arrivare dall’Europa? Bisogna considerare che anche prima del Coronavirus l’economia europea nel suo complesso stava registrando un rallentamento, e che gli effetti dell’epidemia riguarderanno tutto il continente. In quell’occasione anche i Paesi che oggi si definiscono frugali, in aggiunta all’aumento automatico del deficit dovuto alla recessione, fecero un’espansione fiscale intorno ai due punti di Pil. Oggi bisogna prendere la stessa decisione, per finanziare per esempio un programma straordinario di investimenti infrastrutturali. Se l’Europa non si sblocca, che cosa può fare l’Italia da sola? Se l’Unione non concedesse spazi fiscali aggiuntivi dovremmo andare da soli a cercarceli sul mercato, ma la strada è molto complicata. Perché a differenza di altri Paesi noi non abbiamo sfruttato l’ultima fase di relativa tranquillità per sistemare i conti pubblici e avviare davvero la riduzione del debito, per cui ci presentiamo “scoperti” allo shock economico del Coronavirus. Fino a venerdì in realtà l’aumento dello spread è stato determinato soprattutto dall’abbassamento dei rendimenti dei titoli tedeschi, oggetto di una pioggia di acquisti nella classica ricerca del bene rifugio che scatta nei momenti di incertezza. È un impegno credibile? Al momento qualsiasi stima sull’impatto della crisi sanitaria sull’economia è prematuro perché manca qualsiasi elemento solido, quindi è presto anche per capire le ricadute sui saldi di finanza pubblica.

  • Molte idee e poche priorità

    In realtà, la maggior parte delle “direttrici” è costituita proprio da obiettivi più che da riforme. L’obiettivo è di portare il rapporto tra investimenti pubblici e Pil al 3 per cento in quattro anni: infrastrutture di comunicazione (ferrovie, strade, ponti, aeroporti, porti e intermodalità), smart mobility, telecomunicazioni (Piano Banda Ultralarga), energia, acqua, attenuazione dei rischi idrogeologici e sismici, aree verdi urbane, riforestazione, digitalizzazione. Ma la sezione è breve e nel corpo principale del PNR, quando si approfondiscono certi argomenti, non è chiaro quali sono le priorità. Un tema secondo me fondamentale, anche per il raggiungimento della parità di genere e di opportunità e per il mercato del lavoro, quello degli asili, è solo accennato in poche parole a p. 57 della bozza. Qui c’è una marea di vari incentivi da rafforzare e introdurre (ecobonus, sismabonus, Industria 4.0, iperammortamento, ripristino dell’ACE, incentivi alla fusione), nuovi strumenti di finanziamento (rafforzamento dei PIR) e di consolidamento patrimoniale. Si parla “a livello di politica industriale” della filiera della salute (dall’industria farmaceutica ai dispositivi medici), del turismo, della cultura e spettacolo, dell’auto, della componentistica, della meccanica strumentale, della siderurgia, della produzione di energia, dell’edilizia. Come conciliare questo con i previsti aumenti di spesa? Ci sono, immancabili, la spending review e la revisione delle spese fiscali (quali?), il contrasto all’evasione (ma quello non dovrebbe finanziare il taglio delle aliquote di tassazione?), i tagli dei sussidi a favore dei prodotti inquinanti.

  • Ma io difendo Ursula Von der Leyen

    Quando parlo di “accuse all’Europa” non mi riferisco ai singoli paesi membri dell’Unione Europea, ma alle istituzioni europee, in primis alla Commissione e alla sua leader Ursula von der Leyen. Il che è paradossale perché, ora come in passato, le decisioni prese nel nostro continente sono in gran parte in mano ai singoli paesi membri. La spiegazione di questo paradosso è però semplice: i paesi membri hanno interesse a usare le istituzioni comunitarie più che come vero centro decisionale, come parafulmine per quando le cose vanno male. Il più recente capo di accusa riguarda lo stop del vaccino AstraZeneca, decisione che ha buttato benzina sul fuoco del malcontento sulla gestione della campagna vaccinale. Chi ha preso questa decisione? Ha cominciato la Danimarca, ma il punto di svolta è stato la scelta di sospendere la somministrazione del farmaco da parte della Germania, seguita a ruota da Francia, Italia e Spagna. Primo, Stati Uniti e Regno Unito, avendo un bilancio ampio e flessibile (cosa che l’Unione Europea, per scelta dei paesi membri, non ha), avevano finanziato a suon di miliardi la ricerca delle case farmaceutiche. Tanto quello che interessa loro è di apparire credibili all’opinione pubblica dei loro paesi e non urtare i politici nazionali, quelli che in ultima analisi ancora prendono le decisioni in Europa.

  • I prezzi aumentano, ma le banche centrali non se ne preoccupano

    La questione è se le banche centrali reagiranno con politiche meno espansive, il che per i paesi ad alto debito come il nostro potrebbe essere un problema. Nei primi 5 mesi dell’anno, gli aumenti dell’indice generale dei prezzi al consumo (annualizzati) sono stati del 5,3% nell’Eurozona e addirittura del 7,9% in Germania; in Italia siamo solo al +3.5%. Il prezzo del Brent è passato da 31 dollari nel maggio 2020 a 68 nel maggio di quest’anno; ma se si fa il confronto col maggio 2019, il prezzo è leggermente sceso. Lo stesso vale per molte altre materie prime, ma non per tutte: rispetto a due anni fa, i cereali sono aumentati del 45%, gli olii alimentari dell’80%, i fertilizzanti del 25%, i metalli del 60%. Philippe Lane, il capo economista della Bce, ritiene che non si metterà in moto una spirale prezzi salari perché l’occupazione è ancora molto bassa e gli aumenti salariali moderati; l’aumento dei prezzi dovrebbe dunque avere carattere temporaneo. Nel suo ultimo bollettino mensile, fa notare che gli aumenti salariali in Germania sono molto moderati. Segnala il rischio che a fine anno l’inflazione ‘headline’ (ossia tutto compreso) possa toccare il 4% (il dato che ha fatto notizia nei mercati), ma si affretta subito dopo a sottolineare che l’indice “core” (ossia al netto dell’energia, degli alimentari e anche dell’aumento dell’Iva) non dovrebbe superare l’1%.

  • La vera ricetta anti-inflazione

    La reazione dei mercati non è stata buona: i tassi di interesse e gli spread sono aumentati e le borse sono calate. Cioè, l’inflazione, se va avanti a questi ritmi, si potrebbe portare via in un mese più di tutto il rendimento di un anno sui soldi prestato dalla BCE. Quindi, i tassi di interesse aumentano, ma restano ampiamente negativi al netto dell’inflazione. Secondo, la BCE ha deciso di sospendere gli acquisti netti di titoli di stato, non solo quelli legati alla pandemia (il cosiddetto PEPP, la cui sospensione era già stata annunciata), ma anche quelli del programma preesistente (APP). La BCE si è inoltre premurata di sottolineare un’altra cosa importante: non solo, come già si sapeva, continuerà a ricomprare i titoli di stato che giungono a scadenza, ma manterrà la propria libertà nell’acquistare titoli di stato di un paese diverso da quello dei titoli in scadenza. Che significa? Supponiamo che il prossimo mese giungano a scadenza 2 miliardi di titoli di stato tedeschi detenuti dalla BCE. Quest’ultima potrà decidere di sostituirli con titoli, per esempio, greci o italiani. Il timore è quello di esagerare e di causare una recessione con un ritorno a tassi di inflazione ben al di sotto del 2 per cento, come abbiamo avuto dal 2013 al 2020. I tassi di interesse a lungo termine, quindi sarebbero aumentati perché gli investitori avrebbero rivisto verso l’altro le aspettative di inflazione e quindi cercherebbero di coprirsi facendo aumentare i tassi di interesse.

  • L'Italia è a un bivio

    Ma il viaggio in Italia è il più importante, non fosse altro che per l’importo dei finanziamenti, di gran lunga il maggiore tra tutti i paesi UE. Non trattenete il respiro. La domanda è una: cosa serve perché l’Italia sfrutti l’occasione data dal Recovery plan? Per rispondere è bene chiarire alcune cose. Questo avviene con il sostegno di politiche di bilancio molto espansive (forse anche un po’ troppo, visto il rimbalzo dei prezzi?) finanziate più con le risorse della BCE che con finanziamenti dell’Unione Europea. Tuttavia, molte di queste condizioni, soprattutto quelle relative alle riforme, sono formulate in modo relativamente vago: l’unico modo per eliminare la vaghezza relativa a, per esempio, una riforma della giustizia sarebbe quella di concordare con la Commissione il relativo testo di legge, cosa ovviamente impossibile. Inutile dire che le riforme dovranno essere ben fatte, che gli investimenti dovranno essere produttivi, che occorre semplificare, digitalizzare eccetera. Posto che sembra che il Presidente Mattarella non sia disposto a fare da ponte per un successivo ingresso al Quirinale di Draghi nel 2023, non c’è nessuna alternativa rispetto alle due che ho presentato. Quel che è chiaro è che la scelta è di fondamentale importanza per il Paese.

  • L’Italia non abbia paura della riforma del Mes: può salvare le nostre banche se vanno in crisi

    Ha però reiterato l’opposizione a una richiesta di accesso al prestito “sanitario” del MES. Berlusconi ha detto che era contro la riforma anche se favorisce il MES sanitario. Traduco: la decisione non ha riguardato i prestiti della linea “sanitaria” del MES creata in risposta alla crisi Covid (l’Italia potrebbe prendere a prestito 36 miliardi a tassi di interesse negativi sui 10 anni). Ha riguardato la riforma del MES “normale”, i prestiti che il MES erogherebbe se un paese avesse bisogno di fondi per fronteggiare una crisi non sanitaria e che potrebbero ammontare, per un paese delle dimensioni dell’Italia, non a qualche decina di miliardi ma a qualche centinaia di miliardi. E questi prestiti richiederebbero condizioni ben più pesanti di quelle legate al MES sanitario (che essenzialmente erano quelle di spendere bene i soldi per coprire i costi diretti e indiretti della crisi sanitaria). Infine, si consente che le risorse del MES siano usate per integrare, se necessario, quelle del Fondo di Risoluzione Unico (il Single Resolution Fund), che interviene in sostegno delle banche europee in caso di crisi. La lettura degli oppositori era che la riforma rendeva più facile ristrutturare il debito italiano (il 70 per cento del quale è detenuto dagli italiani stessi) e che mettevano i soldi del MES a disposizione delle banche, compreso quelle tedesche notoriamente problematiche. Quanto all’accusa di sostenere le banche tedesche, sappiamo che, casomai, è lo stato italiano e non quello tedesco ad aver bisogno di un aiuto in caso di crisi delle proprie banche.

  • Al bivio dell'inflazione

    Inevitabile però che, con la pubblicazione nel corso della mattinata dei dati sull’inflazione per l’Italia e per l’area dell’euro, le domande dei media per chi lasciava la Banca d’Italia si siano concentrate sull’andamento dei prezzi e sulle politiche economiche per contenerla o per contenerne gli effetti. Nel nostro paese, il tasso d’inflazione a 12 mesi (ossia l’aumento dei prezzi al consumo tra il maggio 2021 e il maggio 2022) è salito al 6,9 per cento, riprendendo il sentiero di crescita interrotto ad aprile dal taglio delle accise sui carburanti. Nel solo mese di maggio l’aumento dei prezzi è stato dello 0,9 per cento, il che significa una velocità annualizzata di oltre l’11 per cento. Ma la cosa forse più preoccupante è che l’aumento dei prezzi è stato alto anche al netto dei prezzi dei prodotti energetici e degli alimentati: la cosiddetta “core inflation” o inflazione di fondo, è balzata dal 2,4 per cento dei dodici mesi terminanti ad aprile al 3,3 per cento di maggio. Ora, si potrebbe sostenere che l’aumento dei prezzi delle materie prime, iniziato nel corso del 2021, è stato influenzato dal comportamento delle politiche di bilancio e fiscali di tutti i paesi del mondo, anche se, indubbiamente, altri fattori (compresi quelli di natura geopolitica) sono stati rilevanti. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici Christine Lagarde, presidente della BCE, aveva già suggerito che la BCE avrebbe potuto rivedere la propria politica di tassi di interesse nel corso dell’estate. Guardando in avanti, è probabile che una maggiore selettività sia necessaria, anche perché l’aumento dei tassi di interesse nella zona euro, reso comunque necessario dall’elevata inflazione, colpirà in modo più intenso il bilancio di stati, come il nostro, che sono altamente indebitati.

  • L'inflazione e i ritardi delle banche centrali

    Il problema – secondo Lord King – è che ora la Fed è costretta a invertire la rotta piuttosto rapidamente, altrimenti l’inflazione alimenterà spinte salariali e metterà in moto una spirale negativa che non si vedeva dagli anni ottanta. L’aggravante oggi è che, con la pandemia, sono aumentati i livelli di indebitamento, sia dei privati sia degli Stati; è dunque molto aumentata la fragilità del sistema finanziario mondiale. In Europa, la situazione è un po’ meno preoccupante che negli Stati Uniti perché l’inflazione headline è al 5 per cento e quella core solo al 2,6 per cento. Tuttavia, è evidente che anche la BCE è in ritardo; tra l’altro, a differenza della Fed, non ha ancora superato il mantra dell’inflazione temporanea. L’inflazione è sempre temporanea, a meno che… non diventi persistente; e ciò accade proprio quando le banche centrali decidono che, essendo l’inflazione temporanea, non è ancora il momento di adeguare l’orientamento della politica monetaria. Né vale il ragionamento secondo cui l’inflazione è causata da aumenti delle materie prime che sono esogeni rispetto alle politiche dei Paesi importatori: le materie prime reagiscono alla pressione della domanda mondiale e questa in buona misura dipende dalle politiche di Stati Uniti e Europa. Ben presto anche la BCE sarà costretta a cambiare rotta.

  • Fare i conti con il deficit pubblico

    Non è più così: l’assenza di problemi di liquidità (i tassi di interesse sono ai minimi storici) rendono meno pressante la questione della nostra finanza pubblica. Il DEF prevedeva una crescita del Pil reale del 4,5 per cento e un aumento dei prezzi (deflatore del PIL) dell’1,1 per cento. Le cose sono andate meglio in termini di crescita reale (si può ora ipotizzare una crescita del 6 per cento) e i prezzi hanno accelerato più del previsto (seppure in parte per effetto del costo delle importazioni che non influenzano il deflatore del PIL). Più PIL reale e nominale vuol dire più entrate per lo stato sicché il deficit pubblico quest’anno dovrebbe risultare più basso di quello previsto nel DEF. La bonanza di entrate proseguirebbe, per effetti di trascinamento, nel 2022 (anche ipotizzando un rallentamento della crescita). In assenza di nuovi interventi, il nostro deficit pubblico risulterebbe quindi più basso di quanto previsto nel DEF anche nel 2022. Dico solo che al più rapido ritorno del PIL alla normalità dovrebbe corrispondere anche un sentiero di rientro dal deficit più rapido del previsto. Fra l’altro, nelle sopra citate cifre del deficit non sono comprese le spese che saranno finanziate dai conferimenti a fondo perduto del Recovery Plan che nel 2022 dovrebbero corrispondere a una ventina di miliardi (un altro punto abbondante di Pil).

  • Per un lavoro “liberale”

    Di per sé, questa è una buona notizia perché forse da questo esercizio può emergere un progetto capace di aggregare le forze sparse di centro, anche se, a ben guardare, mancano all’appello vari gruppi e personalità che potrebbero utilmente contribuire a questo fine. Qualche mese fa è stato presentato il progetto scuola, ora è la volta del lavoro. Il programma contiene varie utili misure di liberalizzazione per quello che riguarda, ad esempio, i contratti tempo determinato (superare il decreto dignità), le somministrazioni a termine, il lavoro a distanza e i voucher lavoro per le prestazioni occasionali. Manca una proposta che ridia certezza all’impresa sul costo di un licenziamento ritenuto illegittimo; questa scelta è forse dovuta al fatto che non si ritiene possibile superare i veti della Corte costituzionale che nel 2018 bocciò la scaletta che era stata prevista dal Jobs act. Fatto sta che il nucleo della proposta ruota attorno ad ammortizzatori sociali (da rendere universali davvero, e, se possibile, meno centrati sulla Cassa Integrazione) e sulle politiche attive. Sugli ammortizzatori sociali, i conti andranno fatti per bene, posto che le categorie finora non coperte (ad es. il commercio al dettaglio) non hanno nessuna intenzione di pagare la loro quota e lo stanno dicendo in questi giorni a proposito della proposta Orlando. Secondo i dati Eurostat, l’Italia è il paese europeo in cui è più bassa la percentuale di persone che si rivolgono agli uffici pubblici per cercare lavoro: 18%, contro una media UE (paesi dell’Est inclusi) del 42%.

  • L'occupazione, anche quella giovanile, non va male

    Né è vero che si sia aggravato il problema della disoccupazione giovanile che, come al solito, qualcuno si è affrettato a definire drammatico, e a fronte del quale si propone di estendere ulteriormente il vincolo del 30 per cento di assunzioni di giovani. Vero è che, in base ai dati Istat, a dicembre le cose non sono migliorate rispetto al mese precedente, ma i dati mese per mese sono poco significativi. In questo contesto, l’estensione del vincolo del 30 per cento (che oggi si applica solo ai progetti del PNRR) serve a poco e può anzi fare qualche danno. Qualora servisse, l’effetto sarebbe solo quello di aggravare la situazione delle persone non più giovanissime che, quando perdono un lavoro, fanno una grande fatica trovarne un altro; e lì sì che sono drammi seri per molte famiglie. Tant’è che, quando ciò accade, il governo finisce quasi sempre per rinnovare un qualche ammortizzatore sociale. Modesta proposta: mettiamo nel cassetto il vincolo a favore dei giovani e ragioniamo seriamente su come eliminare gli ostacoli ad una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Malgrado il record di cui si è detto, rimaniamo il paese avanzato con il più basso tasso di partecipazione femminile, ben sotto i valori di Grecia e Spagna, due paesi che per molti aspetti hanno un mercato del lavoro non meno iper-regolamentato e inefficiente del nostro.

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