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Salute della popolazione, i trend globali

17 maggio 2024

Intermedio

Salute della popolazione, i trend globali

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Malgrado le due gravi epidemie degli ultimi decenni (il Covid-19 e l’HIV), dall’inizio del Novecento e, soprattutto, nel secondo dopoguerra, lo stato di salute della popolazione mondiale ha continuato a migliorare in quasi tutti i Paesi di pari passo con il miglioramento del reddito, delle condizioni igienico-sanitarie, dei progressi della medicina e del tasso di alfabetizzazione. Negli ultimi settant’anni, è migliorata enormemente l’aspettativa di vita ed è crollata la mortalità infantile. È diminuita la mortalità connessa a quasi tutte le malattie, anche di quelle (tumori e malattie cardiovascolari) che mietono oggi il maggior numero di vittime. Nel confronto con il passato è bene aver presente che la storia dell’umanità è segnata da numerose pandemie ed epidemie. In passato, malattie come la peste, il vaiolo e il colera hanno causato un numero enorme di morti, con tassi di mortalità che in alcuni casi raggiungevano il 50-80 per cento della popolazione. Tuttavia, la pandemia di Covid-19 dimostra che il mondo è ancora vulnerabile. Nonostante i progressi, restano sfide significative. L’emergere di nuovi patogeni, la resistenza agli antibiotici e le disuguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie rappresentano ancora grandi rischi. Secondo numerosi studiosi, la globalizzazione e i cambiamenti climatici possono facilitare la diffusione di nuove malattie. Per affrontare queste minacce, è fondamentale continuare a investire nella ricerca scientifica, nella preparazione alle emergenze sanitarie e nella cooperazione internazionale.

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In seguito alla pandemia da Covid-19 in buona parte delle opinioni pubbliche occidentali e anche in alcuni ambienti scientifici si è diffusa la convinzione che le pandemie sarebbero sempre più frequenti e lo stato di salute della popolazione mondiale starebbe peggiorando. Fra i motivi di questo temuto peggioramento vengono spesso citati il riscaldamento globale, la distruzione di biodiversità, l’urbanizzazione tumultuosa, il consumo di suolo, la globalizzazione; tutti questi processi hanno accompagnato lo straordinario sviluppo economico degli ultimi decenni. Un testo importante sull’argomento è la “Dasgupta Review”, un voluminoso rapporto che fu pubblicato nel 2021 su commissione del Tesoro inglese da un team di scienziati ed economisti guidati da Sir Partha Dasgupta, uno stimato economista dell’Università di Cambridge.[1] La tesi che vi si sostiene è che la distruzione di biodiversità, in combinato disposto con il riscaldamento globale, sta minando le basi della vita nella biosfera e mette a rischio lo stato di salute di tutti gli esseri viventi, inclusi gli esseri umani. Al tempo stesso però, il rapporto si premura di affermare che questi sono timori per il futuro, perché fino a oggi lo stato di salute dell’umanità è sempre migliorato. Al punto che si afferma che “we have never had so good”, ossia non siamo mai stati così bene.[2]

In effetti, i dati i cui disponiamo ci confermano che l’umanità non sia mai stata così bene, dal punto di vista non solo del benessere materiale, inteso come prodotto pro-capite, ma anche da molti altri punti di vista che sono assolutamente cruciali per il benessere delle persone, quali la durata della vita, la durata della vita in buona salute, la drastica riduzione delle mortalità infantile e di quasi tutte le malattie più gravi. Inoltre, è crollato il tasso di analfabetismo e si è ridotta al solo 10 per cento (dal 60 per cento del 1950) la quota della popolazione che vive in condizioni di povertà assoluta.

La Tav. 1 mostra alcuni dati chiave che fanno da sfondo al ragionamento. Da un lato c’è stato un miglioramento straordinario del benessere materiale misurato dal Pil mondiale pro capite (annuale, reale in parità di potere d’acquisto), che è aumentato di 4 volte rispetto al 1950, a partire da valori vicini allo zero nella prima metà del XIX secolo; la povertà assoluta è crollata; è aumentata enormemente l’aspettativa di vita alla nascita, da meno di 30 anni nel XIX secolo a 46 nel 1950 a 72 anni oggi; nei soli ultimi vent’anni, in molti paesi, tra cui l’Italia, è migliorata di due anni, fino a quasi 80 anni, l’aspettativa di vita in buona salute all’età di 60 anni.[3] Il tasso di analfabetismo è diminuito dall’88 per cento del 1820 al 64 per cento nel 1950 al 13 per cento oggi. Dall’altro lato, è ragionevole chiedersi se il pianeta sia in grado di sostenere l’esplosione della popolazione e del Pil che ha avuto luogo negli ultimi due secoli e, soprattutto, nel secondo dopoguerra. Si stima che nel 1820 la popolazione mondiale fosse nell’ordine di 1 miliardo; era 2,5 miliardi nel 1950 ed è oggi a 8 miliardi. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite alla fine di questo secolo salirebbe a 10 miliardi nell’ipotesi centrale e a 12 miliardi nell’ipotesi più elevata. A sintesi della crescita della popolazione e del Pil Pro-capite, il Pil totale mondiale è aumentato di 13 volte rispetto al 1950.

Come si è detto, i grandi cambiamenti, in termini di crescita della popolazione e del reddito, sono avvenuti nel secondo dopoguerra. È tuttavia utile iniziare la nostra analisi guardando più indietro nella storia, per rendersi conto che le pandemie (o epidemie) non sono affatto un fenomeno recente.

Le malattie nella storia

La Tav. 2 espone il poco che sappiamo sulle principali epidemie e pandemie che hanno segnato il corso della storia dai tempi dell’Impero Romano fino all’inizio del Novecento. Le prime tracce di malattie che misero in ginocchio la popolazione risalgono alla “peste Antonina” (vaiolo e morbillo) nel 165-180 d.C. che, secondo le stime, uccise fra 5 e 10 milioni di persone. Vi fu poi la “peste di Giustiniano” (peste bubbonica) nel 541-549, con un numero di morti di quasi 100 milioni di persone; si stima che morì quasi il 60 per cento della popolazione globale del tempo. Nel 1346-1353 la peste nera (peste bubbonica) arrivò a uccidere circa 200 milioni di persone – anche in questo caso, il 60 per cento della popolazione globale. La peste nera tornò nel 1630 uccidendo 1 milione di persone solo in Italia e, poi ancora nel 1656 con 1,25 milioni.[4] Nel 1846-60 l’epidemia di colera fece più di 1 milione di morti nel mondo, seguita nel 1855 fino al 1960 da un’altra ondata di peste bubbonica che uccise circa 15 milioni di persone. L’influenza russa del 1889-90 provocò 1 milione di morti nel mondo, e nel 1918-20 l’influenza spagnola (considerata la malattia più infettiva del Novecento) fece un numero elevatissimo di morti (si stima fra 17 e 100 milioni), una percentuale significativa della popolazione mondiale dell’epoca.

Le malattie nell’ultimo trentennio

La Tav. 3 illustra le peggiori epidemie negli ultimi trent’anni. Il Covid-19 è la malattia recente che ha prodotto il maggior numero di morti: secondo le statistiche ufficiali dell’OMS, fra il 2019 e aprile 2024 i decessi sono stati poco più di 7 milioni (anche se alcuni, anche all’interno dell’OMS, hanno dichiarato che il numero vero è ben più alto).[5] L’altra grande malattia è l’HIV (tramite l’AIDS) che non cessa ancor oggi di produrre vittime; dal 1981 ad oggi sono stati censiti 32 milioni di morti.[6]

Tutte le altre malattie che nel passato hanno avuto effetti devastanti (malaria, colera, epatite, tubercolosi, poliomielite) o che comunque hanno destato notevole allarme sociale (Sars, Ebola, febbre suina, encefalite giapponese) hanno prodotto un numero molto limitato di vittime negli anni recenti. Con i progressi della medicina, che in parte si sono diffusi anche nei paesi a reddito medio-basso o basso, le conseguenze di queste malattie sono state tenute sotto controllo.

Aspettativa di vita e mortalità infantile

Nonostante alcune gravi epidemie, come si è detto, l’aspettativa di vita è in costante miglioramento in tutte le aree del mondo.

La Fig. 1 mostra l’aspettativa di vita di un neonato in uno specifico anno, in un orizzonte temporale che parte dalla seconda metà del diciottesimo secolo e raggiunge il 2021 (anno in cui si registra un calo dovuto al Covid).[7] La figura mostra chiaramente come i valori di questa variabile siano più che raddoppiati negli ultimi due secoli: in termini globali, infatti, siamo passati da meno di 30 anni di vita di fine 1700 ai 72 previsti del 2020. Sebbene più indietro si vada con gli anni e più imprecisi e incerti diventino i dati, concentrando il focus anche solo da inizio Novecento si registrano incrementi notevoli in tutti i continenti: dai 43 anni di età del 1900 l’Europa passa ai 77 anni nel 2020; nello stesso arco temporale l’Asia passa dai 28 ai 73 anni, Nord e Sud America dai 41 ai 74 anni e anche l’Africa passa da 26 ai 62 anni.

Questi sono progressi enormi e, come si è detto, diffusi in tutti i continenti.

L’altro indicatore chiave per rappresentare l’evoluzione delle condizioni di salute è dato dal tasso di mortalità infantile. La Fig. 2 mostra il numero di decessi dei bambini sotto i 5 anni di età per ogni 100 nascite nell’anno di riferimento.[8] Dalla figura emerge come la situazione sia migliorata nel tempo: il tasso di mortalità infantile globale è passato infatti dal 44 per cento (!) circa del 1800 all’8 per cento del 2000; nel corso di questi ultimi due decenni è sceso ulteriormente al 3,7 per cento. Attualmente, la situazione migliore è in Europa (0,53 per cento nel 2023), mentre la peggiore resta in Africa, dove il tasso di mortalità è ancora oggi al 6-7 per cento. Questo è all’incirca il tasso di mortalità infantile che aveva l’Europa negli anni Sessanta; in altre parole, l’Africa viaggia con quasi 60 anni di ritardo rispetto all’Europa.

Andando a ritroso nel tempo, molti ricercatori sono concordi nell’affermare che i tassi di mortalità infantile delle varie popolazioni che si sono succedute nel corso della storia fossero molto simili fra loro, indipendentemente dall’epoca o dal luogo in cui risiedevano. Non importa quale continente o popolo sia preso come riferimento, per la maggior parte della storia umana il 30 per cento dei neonati moriva nel primo anno di vita, mentre solo il 50 per cento (un bambino su due!) riusciva a raggiungere i 15 anni di età.[9] Il cambiamento di questa dinamica si è avuto solo di recente. Se nel 1950 nel mondo moriva, infatti, ancora un bambino su quattro, nel corso degli ultimi settant’anni è avvenuto uno storico miglioramento, fino all’odierno 4 per cento circa a livello globale.

Nonostante questi dati positivi, è importante sottolineare come la mortalità infantile sia ancora oggi uno dei problemi più importanti – se non il più importante – a cui l’umanità deve far fronte. Secondo l’UNICEF, nel 2022 sono morti nel loro primo mese di vita 2,3 milioni di neonati, per una media di circa 6.300 decessi al giorno.[10] Molti di questi sono da ricondursi alla malnutrizione, alle scarse condizioni igieniche e sanitarie e al manifestarsi di diverse malattie infettive come polmonite, malaria e HIV. Tuttavia, è innegabile che negli ultimi due secoli si è assistito a uno straordinario miglioramento in merito alle aspettative di vita e al tasso di mortalità infantile, dovuto in gran parte all’avanzamento delle condizioni socioeconomiche e sanitarie. Lo sviluppo dei vaccini – e della medicina in generale – ha sicuramente contribuito a migliorare la situazione.

I dati dal secondo dopoguerra

Le figure che seguono – dalla 3 alla 7 – mostrano il crollo della mortalità connessa a quasi tutte le malattie dal 1950 a oggi. I dati sono dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).[11] Nonostante l’OMS fornisca i dati per la mortalità di moltissime malattie sin dal 1950, nel database mancano le serie di molti Paesi e spesso le serie sono discontinue; non sono quindi disponibili le serie aggregate per continenti o tipologia di paesi. Di conseguenza, per poter rappresentare l’evoluzione della mortalità nel tempo nelle varie parti del mondo utilizziamo cinque Paesi di riferimento: Italia e Regno Unito per i Paesi occidentali, Thailandia, Messico ed Egitto per i Paesi in via di sviluppo di Asia, America e Africa.

Le figure rappresentano l’andamento nel tempo del tasso di mortalità (corretto per l’età) dovuto ad alcune malattie: tubercolosi, malattie infettive infantili, meningite, HIV, tumori e malattie cardiovascolari. I dati sono standardizzati per età dall’OMS. La standardizzazione per età è necessaria per comparare i dati fra diverse popolazioni.[12]

La Fig. 3 mostra come la mortalità legata alla tubercolosi sia diminuita nel tempo, arrivando a valori prossimi allo zero in quasi tutti i Paesi in esame. Il successo nel contrasto alla tubercolosi è dovuto prevalentemente allo sviluppo degli antibiotici (come Rifampicina e Isoniazide), nonché al miglioramento sia dell’assistenza sanitaria che degli standard di vita in generale. Come mostrano la Fig. 4 e la Fig. 5, la stessa dinamica si riscontra per il cluster di malattie infettive infantili (pertosse, poliomielite, difterite, morbillo e tetano) e per la meningite. Particolare è il caso dell’HIV, una delle pandemie più recenti (Fig. 6); per l’Italia, il picco di 8 morti per 100.000 abitanti è stato raggiunto nel 1995.

Le Figg. 7 e 8 sono molto interessanti perché mostrano come quasi ovunque si riduca – in particolare negli ultimi trent’anni – anche la mortalità per quelle che sono oggi le due principali cause di morte: i tumori e le malattie cardiovascolari. Fra il 1980 e il 2020, in Italia, i decessi per tumori sono diminuiti da 153 ogni 100mila abitanti a 103; quelli per malattie cardiovascolari da 316 a 95 ogni 100mila abitanti.

La Fig. 9 mostra che sono diminuite persino le malattie respiratorie trasmissibili, quelle che verosimilmente possono essere più influenzate dall’inquinamento atmosferico che in genere caratterizza i processi di industrializzazione e di inurbamento. Si noti che i dati per l’Italia (così come per il Regno Unito) sono schiacciati dal drastico calo dei decessi del Messico, ma la riduzione è molto sensibile: da 80 decessi ogni 100mila abitanti nel 1950 a 6 decessi nel 2019. Tutte le serie registrano un aumento nel 2020 per via del Covid.

Concludiamo con alcune robuste note di cautela. La prima: la pandemia di Covid-19 dimostra che il mondo è ancora vulnerabile. Nonostante i progressi, restano sfide significative. L’emergere di nuovi patogeni, la resistenza agli antibiotici e le disuguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie rappresentano ancora grandi rischi. Inoltre, la globalizzazione e i cambiamenti climatici possono facilitare la diffusione di malattie. Per affrontare queste minacce, è fondamentale continuare a investire nella ricerca scientifica, nella preparazione alle emergenze sanitarie e nella cooperazione internazionale. Solo attraverso uno sforzo globale coordinato sarà possibile proteggere efficacemente la salute pubblica e prevenire future pandemie.

La seconda nota di cautela: il fatto che fino a oggi la salute globale abbia registrato grandi miglioramenti non implica automaticamente che questa situazione persisterà anche in futuro. Se hanno ragione gli scienziati che hanno lavorato alla Dasgupta review citata sopra, il consumo di risorse naturali potrebbero mettere a rischio la stabilità della biosfera, con tutto ciò che questo potrebbe comportare per il genere umano.

Aggiungiamo che alcune malattie, debellate nei paesi avanzati, sono ancora endemiche in varie parti del mondo.[13] La tubercolosi è, ancora oggi, la seconda malattia infettiva per numero di morti dopo il Covid-19 a livello globale. Secondo l’OMS, nel 2022 si sono ammalate di tubercolosi quasi 11 milioni di persone; il numero di morti riconducibile a questa malattia è stato di 1,3 milioni. La maggior parte dei nuovi casi e delle morti viene registrato nei Paesi a basso reddito, soprattutto in Africa (Ciad, Sud Africa e Gabon), Asia (Pakistan, Filippine) e Sud America (Perù).

Appendice: la standardizzazione per età

Come si è detto, i dati presentati nel testo sono corretti per la struttura per età della popolazione, che in Italia è più anziana che nella media mondiale. La Tav. A1 mostra come si passa dal dato grezzo dei decessi per cause specifiche di morte al dato standardizzato.

Come si vede, il totale dei decessi su 100mila abitanti è pari 1.255,6, ma questo dato si riduce a 370,8 con la standardizzazione. Il motivo è che la popolazione italiana è più anziana della media mondiale che è presa in considerazione dalla OMS. I decessi in Italia avvengono mediamente in età più avanzate che nella media mondiale e per l’OMS quelle età hanno un peso minore di quello che hanno in Italia. Quanto alle cause specifiche di morte, l’OMS distingue quattro grandi cause di morte: malattie trasmissibili o connesse a condizione materna, perinatale o malnutrizione (che includono, fra le altre, infezioni respiratorie, HIV, Covid, meningite, malaria, epatite B e C, lebbra, infezioni intestinali), le malattie non trasmissibili (tra cui tumori e malattia cardiovascolari), le lesioni (intenzionali, non intenzionale e incidenti) e una categoria residuale (altre). Come si vede, nel passaggio da dati grezzi a dati standardizzati le malattie non trasmissibili (che causano il 78,26 per cento dei decessi) scendono da 982,7 a 285,8 ogni 100mila abitanti; in questo caso, la standardizzazione riduce leggermente la percentuale sul totale delle cause di morte che scende da 78,26 per cento a 77,09. La ragione è che queste malattie mietono vittime fra persone la cui anzianità supera quella media dell’OMS più di quanto non avvenga per il totale della mortalità.

L’opposto accade per le “lesioni”, che passano dal 3,24 per cento sui dati grezzi al 4,59 per cento. Il motivo è che gli incidenti e le lesioni (volontarie o involontarie) in Italia hanno una frequenza relativamente maggiore nelle classi di età giovani che nella popolazione mondiale pesano più che in Italia.


[1] Sir Partha Dasgupta, “The Economics of Biodiversity: The Dasgupta Review”, Final Report of the Independent Review on the Economics of Biodiversity, HM Treasury, 2021.

[2] Si veda a pag. 5 della Dasgupta Review.

[3] I dati sull’aspettativa di vita a 60 anni in buona salute sono pubblicati dalla OMS e coprono il periodo 2000-2019. In questo periodo, questo indicatore è aumentato da 77,1 a 78,9 anni in Italia; da 76,3 a 78,3 nel Regno Unito; da 75,6 a 78,0 in Tailandia; da 75,8 a 76,1 in Messico; è scesa leggermente, da 73,9 a 73,4 in Egitto.

[4] La peste nera del 1630 provocò 60 mila morti a Milano, 46 mila a Venezia e 30 mila a Verona. La peste nera del 1656-57 contò 150 mila morti a Napoli e 60 mila a Genova. Per un ulteriore approfondimento si veda L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana, Bologna, Clueb, 2021. A Londra contò 100 mila morti per la peste; a Marsiglia nel 1720 50 mila morti. Per un ulteriore approfondimento si veda W.G. Naphy, A. Spicer, G. Arganese, La peste in Europa, Bologna, il Mulino, 2021. Per un ulteriore approfondimento, si veda: Consiglio Nazionale delle Ricerche, “Migrazioni di virus. Numeri e linguaggi”, 2020.

[5] Si veda il seguente link.

[6] Dati OMS al 2018.

[7] I dati originali riportati nella Fig. 1 sono stati rielaborati da Our World in Data, e provengono da varie fonti. Per i dati pre-1950 sono stati usati i valori presenti nello Human Mortality Database, nel relativo database di clio-infra e dal paper di James C. Riley, “Estimates of Regional and Global Life Expectancy, 1800-2001”, Population and Development Review, 31(3), 2005, pp. 537-543. Per i dati post-1950 sono stati invece usati i dati del World Population Prospects (2022) delle Nazioni Unite.

[8] La Fig. 2 rappresenta i dati forniti da Gapminder (organizzazione educativa svedese senza scopo di lucro) che, a sua volta, utilizza varie fonti per costruire il suo dataset: dal 1800 fino al 1950 viene usato in prevalenza lo Human Mortality Database insieme ai dati riportati da altri articoli scientifici legati al tema; dal 1950 al 2016 viene utilizzato in prevalenza UNIGME, un database che vede il contributo di UNICEF, OMS, ONU e la Banca Mondiale.

[9] Si veda Anthony A. Volk, J.A. Atkinson, “Infant and child death in the human environment of evolutionary adaptation“, Evolution and Human Behavior, 34, 2013, pp. 182-192.

[10] Si veda il seguente link.

[11] Il database dell’OMS è disponibile al seguente link.

[12] La struttura per età varia fra paesi e nel tempo. Dato che al crescere dell’età aumenta il manifestarsi di alcune malattie, tali differenze in termini di distribuzione non consentono un confronto significativo tra Paesi. In sostanza, c’è un enorme differenza fra due Paesi che hanno lo stesso tasso di mortalità per – poniamo – malattie respiratorie, in uno dei quali la mortalità si addensa attorno ai trent’anni e nell’altro attorno a novanta. Di conseguenza, è necessario usare una ‘standardizzazione’ per età, che consenta di vedere come varia la mortalità correggendo per le differenze di età nelle varie popolazioni. Si tratta, in pratica, di attribuire, tramite specifici calcoli, a tutte le nazioni in esame la stessa identica distribuzione per età. La distribuzione scelta dalla OMS è la distribuzione media della popolazione mondiale su un arco di tempo almeno ventennale. Per un approfondimento sul metodo usato dall’OMS si veda O.B. Ahmad, C. Boschi-Pinto, A.D. Lopez, C.J.L. Murray, R. Lozano, M. Inoue, “Age standardization of rates: a new WHO standard”, World Health Organization, 9(10), 2001, pp.1-14.

[13] Sulle diseguaglianze igienico-sanitarie fra Paesi avanzati e Paesi poveri si veda A. Deaton, The Great Escape; Health, Wealth, and the Origins of Inequality, Princeton, Princeton University Press, 2015.

Un articolo di

Rossana Arcano, Alessio Capacci, Giampaolo Galli

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