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Autonomia differenziata, il rischio dello Stato arlecchino

19 giugno 2024

Intermedio

Autonomia differenziata, il rischio dello Stato arlecchino

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In linea generale, un processo di decentramento può essere visto con favore in quanto avvicina le decisioni ai cittadini e potrebbe facilitare il loro giudizio sull’operato dei politici eletti. Tuttavia, l’autonomia differenziata – diversamente da quella simmetrica – comporta una duplicazione di funzioni e di costi fra lo Stato e le regioni e rappresenta un potenziale ulteriore appesantimento degli oneri burocratici per cittadini e imprese. C’è il rischio dello Stato arlecchino in cui tutte le regioni hanno funzioni diverse dalle altre.  La ragione di fondo per la quale alcune regioni del Nord hanno chiesto l’autonomia è il desiderio di mantenere sul proprio territorio una parte maggiore delle risorse che da quel territorio originano. Questo obiettivo comporta o un aumento del deficit dello Stato – un esito che l’Italia non può permettersi – o un depauperamento delle risorse destinate al Mezzogiorno – un obiettivo improponibile. Nella versione della legge approvata in via definitiva dalla Camera, l’obiettivo è molto stemperato, ma rimane il fatto che se una regione ha risorse in eccesso rispetto al fabbisogno (per esempio perché ha avuto una maggior crescita del Pil e dunque delle entrate tributarie) non è chiaro se il governo possa acquisire tali risorse nel bilancio pubblico o redistribuirle alle altre regioni perché siffatta proposta dovrebbe essere formulata da una commissione paritetica fra lo Stato e la singola regione interessata, e quest’ultima potrebbe non dare il proprio assenso. Per questi aspetti di natura finanziaria, oltre che per le forzature sul piano dell’architettura istituzionale, ci sembra lecito dire che si tratta di un decentramento assai pasticciato.

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In linea generale, un processo di decentramento può essere visto con favore in quanto avvicina le decisioni ai cittadini e potrebbe facilitare il loro giudizio sull’operato dei politici eletti. Tuttavia, tutti gli Stati pongono dei limiti al decentramento perché si ritiene che molte funzioni siano svolte meglio a livello centrale. A nostro avviso è difficile capire perché dovrebbero essere decentrate funzioni quali l’energia, i trasporti, l’istruzione, le telecomunicazioni, l’ambiente, la tutela e la sicurezza sul lavoro e il commercio con l’estero. In alcune di queste materie, ma non in tutte, si può prevedere di affidare alle Regioni compiti amministrativi di programmazione e organizzazione dei servizi, ma non un potere legislativo esclusivo e in quanto tale sovraordinato a quello dello Stato.

Rispetto al dibattito teorico sui vantaggi o svantaggi del decentramento, il tema dell’autonomia differenziata nell’Italia di oggi pone una serie di interrogativi aggiuntivi che assumono una rilevanza cruciale.[1] Li elenchiamo di seguito.

  1. L’autonomia differenziata verrebbe calata in un contesto nel quale non si è ancora riusciti a risolvere i problemi relativi al funzionamento delle regioni a statuto ordinario. In linea teorica, il decreto legislativo 68 del 2011 avrebbe dovuto assicurare “l’autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e la conseguente soppressione di trasferimenti statali”. Avrebbe dovuto altresì definire le modalità di funzionamento di un fondo perequativo volto a sostenere le regioni con minore capacità fiscale. Tutto ciò non è avvenuto e oggi, come è ben noto, sia lo stanziamento complessivo per le regioni sia il riparto fra di esse è oggetto di continui ed estenuanti negoziati che tengono conto degli obiettivi generali di finanza pubblica, ma anche di tante considerazioni di natura più strettamente politica. Si pensi per esempio alle vicende cui è sottoposto il Servizio sanitario nazionale, che alimenta quella che è a tutt’oggi di gran lunga la principale voce di spesa delle regioni. In sostanza, non vi sono criteri chiari né vi è alcuna trasparenza nell’allocazione delle risorse alle regioni. Il che impedisce ai cittadini di esprimere giudizi consapevoli circa l’uso più o meno efficiente delle risorse da parte degli amministratori regionali. In questo contesto, sarebbe molto difficile, o forse impossibile, stabilire se una regione ad autonomia differenziata abbia ottenuto più o meno risorse di una regione a statuto ordinario in relazione ai propri fabbisogni. Il rischio, dunque, è quello di rendere ancora più confusi e oscuri i criteri di allocazione delle risorse, rendendo più difficile il giudizio dei cittadini e dunque l’esercizio della democrazia.
  2. Oggi si parla di autonomia differenziata perché così è scritto all’art. 116 della Costituzione, e tuttavia nulla ci impedisce di ritenere che la differenziazione sia un errore. Essa si giustifica in alcuni casi legati a vicende storiche particolari, ma anche in questi casi dovrebbe essere a tempo; dopo un certo numero di anni, le vicende storiche non hanno più ragione di essere prese in considerazione e i cittadini di tutte le regioni dovrebbero essere trattati nello stesso modo, con uguali diritti ed eguali doveri. In ogni caso, non si spiega per quale motivo si debba avviare oggi un percorso di differenziazione che avrebbe evidenti svantaggi. In particolare:
    1. una duplicazione di funzioni e di costi fra lo Stato centrale e le regioni. Se una o più regioni ottengono l’autonomia su una certa materia (per esempio l’istruzione), esse dovranno dotarsi di tutto l’apparato amministrativo necessario per il suo funzionamento. Tuttavia, l’apparato amministrativo centrale non potrà essere smantellato perché dovrà continuare a garantire la funzionalità di quella materia in tutte le altre regioni. Il risultato è perciò una duplicazione certa dei costi;
    2. più burocrazia per imprese e cittadini. Norme diverse fra diverse regioni, con il rischio del mancato mutuo riconoscimento di autorizzazioni o diplomi, sono quasi una certezza e non faranno che appesantire gli oneri burocratici per imprese e cittadini. È vero che questo è un rischio che si corre anche con un regionalismo simmetrico, anziché differenziato, tuttavia è più probabile che si manifesti in un contesto di differenziazione;
    3. una confusione normativa. Quando materie diverse sono attribuite alle diverse regioni, ogni norma statale (dalla legge alla semplice circolare di un ministero) deve tenere conto di quali materie sono attribuite a chi, pena il ricorso in Corte costituzionale. Già oggi, la Corte costituzionale è intasata di ricorsi relativi alle competenze dello Stato e delle regioni: il contenzioso potrebbe aumentare ancora e comunque l’attività normativa dello Stato – ma anche quella delle Regioni – diventerebbe ancora più complessa e indecifrabile di quanto non sia oggi. In ultima analisi, anche questo si traduce in più burocrazia per imprese e cittadini. C’è il rischio dello Stato arlecchino, per cui da oggi le regioni possono già avanzare richieste di decentramento su materie diverse. Non è solo un problema di moltiplicazione delle burocrazie e di duplicazione dei costi; su una serie di materie cittadini e imprese rischiano di confrontarsi con legislazioni diverse, a scapito dell’efficienza.
  3. La ragione di fondo per la quale alcune regioni del Nord vogliono l’autonomia è il desiderio di mantenere sul proprio territorio una parte maggiore delle risorse che da quel territorio originano. Questo obiettivo comporta o un aumento del deficit dello Stato o un depauperamento delle risorse destinate al Mezzogiorno. L’aumento del deficit pubblico è un esito che l’Italia non può permettersi. Anche una pur piccola sottrazione di risorse al Mezzogiorno appare un obiettivo poco realistico alla luce del fatto che è generalmente riconosciuto che semmai occorre aumentare le risorse destinate al Sud per contribuire a colmare il divario. Qualche numero può dare un’idea della posta in gioco. Posto che il Pil del Mezzogiorno è il 22,5% di quello nazionale, si supponga che le regioni del Centro-Nord vogliano trattenere sui propri territori risorse aggiuntive pari soltanto a un 2% del proprio Pil. Se questo aumento si scaricasse sul deficit dell’Italia, questo aumenterebbe dell’1,5% ogni anno (2%×77,5%), un valore chiaramente non sostenibile. Se invece l’onere fosse addossato alle regioni del Mezzogiorno, le risorse a esse destinate si dovrebbero ridurre di quasi il 7% del Pil del Mezzogiorno.[2] Si tratta di un numero enorme, a maggior ragione per il fatto che non sarebbe una tantum, ma avrebbe, nelle intenzioni, carattere permanete.
  4. L’obiettivo di mantenere sul proprio territorio una quota maggiore delle risorse prodotte dal territorio era evidente nelle richieste avanzate dalle regioni nelle delibere iniziali del 2017 e si è poi man stemperato nella prima versione del ddl Calderoli e poi ancor più nella versione licenziata dal Senato e ora all’attenzione della Camera.
  5. Andando in ordine:
    1. nella delibera del Consiglio regionale veneto del 2017[3] si chiedeva la devoluzione di tutto il possibile: tutte le 23 materie – 3 di competenza esclusiva statale e 20 di competenza concorrente – previste dall’art. 116 comma 3 nonché, in materia di risorse, “i nove decimi del gettito riscosso sul territorio regionale delle principali imposte erariali che si aggiungono ai gettiti dei già esistenti tributi propri regionali e agli specifici fondi di cui la proposta chiede la regionalizzazione”. Va da sé che con una proposta del genere, se generalizzata a tutte le regioni, allo Stato rimarrebbe meno di un decimo delle entrate tributarie, il che renderebbe impossibile lo svolgimento delle funzioni essenziali di uno Stato centrale (in particolare la politica estera, la difesa, la sicurezza e la stabilizzazione ciclica), nonché, a maggior ragione, la funzione di perequazione a favore delle regioni più povere. Per dare l’idea di un ordine di grandezza, le entrate complessive delle pubbliche amministrazioni in quel periodo (media 2015-2017) erano 791 miliardi, pari al 46,8% del Pil italiano di allor Lasciando allo Stato centrale un decimo di queste risorse, le entrate si sarebbero ridotte a 79 miliardi e il bilancio primario sarebbe passato da un piccolo surplus (2,2% del Pil) a un deficit pari al 40% del Pil (!). È evidente che cifre tanto ingenti non sarebbero sostenibili neanche nel caso (del tutto astratto) in cui il Veneto fosse l’unica regione a formulare una simile richiesta;
    2. negli accordi preliminari sottoscritti dal governo Gentiloni il 28 febbraio del 2018, con le tre regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna) che ne avevano fatto richiesta, si affermava che una Commissione paritetica fra lo Stato e la singola regione interessata avrebbe avuto il compito di fissare aliquote di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito dei tributi erariali maturati nel territorio regionale. Le aliquote dovevano essere tali da consentire di finanziare le materie trasferite, inizialmente sulla base del criterio della spesa storica e successivamente (nell’arco di cinque anni) sulla base dei fabbisogni standard. Non si faceva cenno (e questo è un punto cruciale) alla possibilità di modificare tali aliquote nel tempo se non in casi particolari e su iniziativa della presidenza del Consiglio o della regione interessata. Nel preambolo dell’accordo del Veneto, e solo in quello, faceva capolino l’art. 3 della Costituzione (pari dignità di tutti i cittadini);
    3. la prima versione del ddl Calderoli ricalcava sostanzialmente gli accordi preliminari in due punti chiave: la non modificabilità (se non in casi particolari) delle aliquote di compartecipazione e l’accordo bilaterale fra la regione interessata e lo Stato. La differenza è che si formulavano una serie di affermazioni che, come è stato osservato da molti,[4] appaiono non coerenti con la non modificabilità delle aliquote: in particolare, che da ciascuna intesa non dovevano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; che le intese dovevano assicurare l’invarianza finanziaria per le singole regioni che non ne siano parte senza pregiudicare l’entità delle risorse a queste destinate (art. 8 comma 3); che fosse garantito il finanziamento delle iniziative finalizzate all’attuazione dell’art. 119 della Costituzione con riferimento ai commi terzo (fondo perequativo per territori a minore capacità fiscale), quinto (risorse aggiuntive per rimuovere gli squilibri) e sesto (rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità).

L’incoerenza di cui al punto c. nasce fondamentalmente dal fatto che se le aliquote sono fisse, nel corso del tempo una regione si può trovare con una carenza o con un eccesso di risorse. In caso di carenza non riuscirebbe a rimediare aumentando le (pochissime) imposte di propria esclusiva competenza, in caso di eccesso potrebbe spendere di più, il che comporta, dati i vincoli di finanza pubblica, che qualche altra regione o lo Stato siano costretti a ridurre qualche altra spesa o ad aumentare le imposte. Una simulazione fatta da Bordignon, Rizzo e Turati mostra che con aliquote fissate al livello necessario nel 2011 per finanziare le materie devolute (per ipotesi, istruzione e mobilità) negli anni successivi fino al 2019, solo poche Regioni – Campania, Calabria e Basilicata – sarebbero state in grado di finanziare la spesa registrando un surplus. Tutte le altre regioni sarebbero finite in deficit, incluse le tre regioni del Nord più attive nelle richieste di devoluzione. Il risultato – spiegano gli autori – deriva dal fatto che la spesa di Campania, Calabria e Basilicata è rimasta praticamente immutata tra il 2011 e il 2019, mentre i loro gettiti da compartecipazione sono cresciuti. Questa critica è in parte superata dagli emendamenti apportati dal Senato, ma prima di esaminare quest’ultimo testo è utile chiarire alcuni concetti su federalismo e decentramento amministrativo.

Decentramento o federalismo?

Il decentramento è quello che abbiamo oggi, per esempio, in materia di sanità. La chiave della cassaforte è solidamente in mano allo Stato centrale che distribuisce le risorse di anno in anno. Se le condizioni della finanza pubblica nazionale non lo consentono, il Fondo sanitario non viene aumentato. Le regioni amministrano la sanità e hanno anche un limitato potere legislativo. Questo sistema è forse l’unico possibile quando la nazione ha un serio problema di finanza pubblica e non può rischiare che le Regioni determinino aumenti eccessivi di spesa. Quando ciò è accaduto e ha rischiato di avere ripercussione sistemiche, il governo, o meglio, vari governi di vari colori hanno riscorso al commissariamento. Negli anni sono state attivate le procedure di commissariamento per Lazio (2008-2020), Abruzzo (2008-2016), Campania (2009-2020), Calabria (da luglio 2010) e Molise (da luglio 2009). Un sistema siffatto ha il duplice pregio di rassicurare il ministro delle Finanze – e dunque i mercati – e di consentire una distribuzione delle risorse fra le diverse regioni che si ritiene equa o comunque desiderabile. Una nostra recente pubblicazione[5] cerca di ricostruire i criteri di ripartizioni delle risorse del Servizio Sanitario nazionale fra Regioni. Il lavoro si inerpica nei sentieri impervi della conferenza Stato-Regioni e dei Lea, per concludere che, a seguito di moltissimi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, alla fine le risorse sono essenzialmente distribuite in ragione della popolazione, con una minima correzione per l’età media della popolazione: in sostanza, nel 2023 erano circa 2.100 euro a testa. La distribuzione delle risorse in proporzione alla popolazione è una caratteristica non solo della sanità, ma dell’intero sistema regionale.[6]

Un sistema siffatto è molto diverso da ciò che comunemente chiamiamo “federalismo”.[7] Il federalismo è un sistema nel quale si può forse partire in condizioni di eguaglianza delle risorse su tutti i territori, ma poi, nel corso del tempo, le risorse, e con esse i diritti e i doveri dei cittadini, si differenziano fra regioni. Nulla impedisce naturalmente che in un sistema federale vi sia un fondo perequativo volto a superare le diseguaglianze iniziali, ma una regione che cresce di più avrà più risorse delle altre e viceversa. Negli Stati Uniti, per esempio, lo Stato federale interviene solo in casi del tutto eccezionali (come le calamità naturali), mentre normalmente agisce tramite gli stabilizzatori automatici, ossia attraverso il fatto che la spesa federale (si noti: non tutta la spesa, ma solo quella federale) è distribuita più o meno in ragione della popolazione, mentre il gettito fiscale raccolto in uno Stato è funzione dell’andamento economico di quello stesso Stato. È stato calcolato che la funzione di stabilizzazione automatica operata dallo Stato federale è solo dell’11%, ossia la varianza nella crescita del Pil pro capite dei diversi Stati viene ridotta dal sistema federale solo dell’11%.[8] Gli svantaggi di questo sistema sono evidenti. Esso non garantisce eguaglianza di trattamento fra regioni. Inoltre, non fa dormire sonno tranquilli al ministro delle Finanze perché non consente allo Stato di acquisire al bilancio pubblico risorse in eccesso accumulate dalle regioni più fortunate.

Per altro verso, il vantaggio di questo sistema è quello della trasparenza dei meccanismi di redistribuzione e, soprattutto, della responsabilizzazione degli amministratori locali. Le risorse a disposizione non sono decise di volta in volta dal pianificatore centrale, ma dipendono dalla capacità dei cittadini di produrre reddito, nonché dalla capacità degli amministratori di raccogliere il gettito dovuto nonché di risparmiare, tagliando spese inutili o poco utili. Il vantaggio, dunque, è quello di rendere meno arduo il compito del contribuente-elettore di valutare l’operato degli amministratori. Aggiungiamo che vari articoli della nostra Costituzione sembrano ispirati a un modello di federalismo responsabile. Ciò vale in particolare per i primi due commi dell’art. 119, che vale la pena riportare per intero (i corsivi sono nostri):

“I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.

Non è chiarissimo come ciò sia coerente con i molti articoli della Costituzione (in particolare l’art. 3) che postulano l’eguaglianza di tutti i cittadini e mettono in capo alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica”.

In ogni caso ci sembra che il ddl Calderoli, nella sua prima versione, fosse abbastanza in linea con questo articolo della Costituzione. Non lo è invece il ddl Calderoli nella versione licenziata dal Senato.

Il ddl Calderoli definitivo

Come si è accennato sopra la prima versione del ddl Calderoli è stata oggetto di fortissime critiche su due fronti: da parte di chi si preoccupa degli effetti sui conti pubblici e da parte di chi si preoccupa del fatto che un federalismo responsabile tende, specialmente nel tempo e dopo un rodaggio iniziale, a differenziare i cittadini in funzione della regione in cui vivono. Il risultato è stata una nutrita serie di emendamenti che, fin dall’art. 1, hanno richiamato la necessità di “rimuovere discriminazioni e disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio” nonché al rispetto dei “principi […] di coesione economica, sociale e territoriale, anche con riferimento all’insularità”.

Dal punto di vista della finanza pubblica l’emendamento che ci pare essenziale è all’articolo 8 del nuovo testo. Qui si prevede che una commissione bilaterale paritetica fra lo Stato e la regione interessata provveda annualmente “alla ricognizione dell’allineamento fra i fabbisogni già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati”. Qualora questa ricognizione rilevi uno “scostamento”, ossia un eccesso o una carenza di risorse, verranno apportate “le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione” precedentemente definite. In sostanza, con questo emendamento, le aliquote di compartecipazione alle imposte erariali perdono di significato dal momento che possono essere variate ogni anno per far sì che la distribuzione della capacità di spesa fra le regioni sia quella desiderata, che in teoria – ma solo in teoria – è quella rispondente ai fabbisogni necessari a soddisfare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Dunque, almeno in apparenza, quello che era partito come un progetto di federalismo responsabile diventa un semplice decentramento amministrativo e in parte legislativo, ma non finanziario. Sembrerebbe quindi che questa architettura legislativa non possa produrre una sottrazione di risorse al Mezzogiorno.

Come spesso succede però quando si fanno compromessi fra visioni opposte, il diavolo sta nei dettagli. Il punto chiave è che il “riallineamento” delle risorse viene deciso dal ministro dell’Economia e delle Finanze, ma su proposta di una Commissione paritetica fra lo Stato e la regione interessata. Il che sembra configurare il peggiore dei mondi possibili, perché difficilmente i rappresentanti della regione con un eccesso di risorse, quando partecipano alla commissione, possono farsi portatori di una proposta che sottrae risorse alla propria regione. Peraltro, le regioni con carenza di risorse non hanno modo di obbligare il ministro dell’Economia a effettuare un riallineamento verso l’alto delle risorse destinate alla regione.

Più nel dettaglio, la procedura per il “riallineamento” è prevista dall’art. 8. La decisione la prende il ministro dell’Economia e delle Finanze – di concerto con il ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata –, su proposta della Commissione paritetica fra lo Stato e la regione interessata. Le modalità di funzionamento della commissione paritetica cui spetta il diritto di proposta non sono definite, ma il fatto che sia definita “paritetica” induce a ritenere che le decisioni debbano esser prese all’unanimità. La Commissione è definita all’art. 5 comma 1. Di essa si dice che si tratta di una “Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali, disciplinata dall’intesa medesima”, ossia dall’intesa fra Stato e regione che deve definire una proposta preliminare che deve poi essere sottoposta al Consiglio dei ministri e infine alle Camere. Della commissione fanno parte “per lo Stato, un rappresentante del ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, un rappresentante del ministro dell’Economia e delle Finanze e un rappresentante per ciascuna delle amministrazioni competenti e, per la regione, i corrispondenti rappresentanti regionali, oltre a un rappresentante dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci) e un rappresentante dell’Unione delle Province d’Italia (Upi)”. Stupisce che le regole di funzionamento della Commissione siano lasciate all’intesa stessa, ossia in sostanza a una contrattazione fra lo Stato e la regione interessata. Siffatta indeterminatezza sembra fatta apposta per non dire esplicitamente che la Commissione debba deliberare all’unanimità o dunque con il consenso della regione interessata.

In conclusione, ci sembra di poter dire che il testo approvato lascia margini di ambiguità sul tipo di autonomia che si intende realizzare e che una eventuale coalizione di regioni del Nord potrebbe far pendere l’ago della bilancia nella direzione di dare un vero e proprio potere di veto alle regioni con eccesso di risorse; il che peserebbe o sul bilancio dello stato o sulle risorse disponili per le altre regioni.

Altre questioni irrisolte

I Lep. Finora non ci siamo occupati dei Lep, malgrado essi rappresentino, all’apparenza, un tassello essenziale della nuova architettura delle autonomie. La ragione di questa omissione è che l’esperienza dei Lea (Livelli essenziali dell’assistenza) in sanità ci induce ad avere scarsa fiducia nella capacità dell’amministrazione di definire i livelli essenziali e di far seguire a essi scelte di finanziamento coerenti. Come si è già notato, dopo oltre vent’anni dall’introduzione del Lea, in sanità la distribuzione delle risorse fra regioni è oggetto di un negoziato politico e finisce sostanzialmente per basarsi sul semplice criterio della quota di popolazione. Non si può tuttavia non notare che anche su questo punto vi è una forzatura che può preludere a maggiori costi per la finanza pubblica. La questione è che all’art. 3 del ddl i Lep che devono essere definiti entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge riguardano solo una parte delle materie trasferibili alle regioni in base all’art. 117. Ammesso che l’esercizio riesca, ci si chiede come esso sia coerente con il fatto che, in base alla Costituzione, devono essere definiti tutti i Lep relativi ai diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale. Stabilendo un ordine di priorità (prima i Lep sulle materie trasferibili e poi gli altri), non è chiaro come si possa tenere conto delle compatibilità finanziarie. È così ben possibile che il finanziamento dei Lep sulle materie trasferibili sia eccessivo in relazione alle compatibilità finanziarie complessive e che dunque non rimangano risorse sufficienti per finanziare i Lep nelle materie di esclusiva competenza dello Stato. Il fatto è che la formulazione del bilancio pubblico non può che essere un esercizio unitario, che non può tollerare un prius per alcune materie e un postea per altre.

I processi decisionali. Sotto questo profilo ci sono molti aspetti che sembrano insoddisfacenti. Il problema principale è che quasi tutto l’iter che porta alla devoluzione è basato su una contrattazione bilaterale fra il governo e la singola regione interessata. Nel corso di questo iter le commissioni parlamentari competenti possono esprimere delle valutazioni, che però non sono vincolanti. Solo alla fine, quando l’intesa fra lo Stato e singola regione è stata definita, interviene il Consiglio dei ministri che, se approva, sottopone la legge alle Camere, che approvano a maggioranza assoluta dei componenti.

Un secondo aspetto che lascia molto perplessi è che, al fine di salvaguardare “l’unità giuridica o economica” della Repubblica nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, viene messo in capo al solo Presidente del Consiglio dei ministri il potere di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie” (art. 2 comma 2). Si tratta di una norma davvero incongrua dal momento che la salvaguardia dell’unità delle Repubblica dovrebbe essere posta in capo al Parlamento. Vorremmo sbagliarci, ma sembra che per il legislatore l’unità giuridica ed economica della Repubblica non sia un obiettivo assolutamente essenziale. Insomma, anche sotto il profilo istituzionale, oltre che di quello finanziario, c’è il rischio di uno Stato arlecchino, oltre che di un decentramento pasticciato.


[1] Molte delle considerazioni che seguono si sono avvalse della lettura di una serie di contributi, tra cui: C. De Vincenti, “Politiche di sviluppo e autonomia differenziata”, Position Paper della Fondazione Merita, 5-6 aprile 2024; S. Fassina, Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord, Roma, Castelvecchi, 2024; Audizione della Banca d’Italia presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, 30 ottobre 2023; M. Volpe, “Federalismo differenziato. Qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato”, Osservatorio del Sud, 16 febbraio 2019; A. Zanardi, Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, 10 luglio 2019; M. Bordignon, L. Rizzo, G. Turati, “Come si finanzia l’autonomia differenziata?”, Lavoce.info, 28 novembre 2023; G. Arachi, Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, 6 giugno 2023.

[2] L’1% del Pil del Centro-Nord è uguale al 3,4% (77,5%/22,5%) del Pil del Mezzogiorno.

[3] Deliberazione del Consiglio regionale del Veneto n. 155 del 15 novembre 2017, che approvò “Il progetto di legge statale n. 43 relativo all’individuazione di percorsi e contenuti per il riconoscimento di ulteriori e specifiche forma di autonomia per la regione del Veneto”.

[4] Cfr. ancora A. Zanardi, Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, 10 luglio 2019 e M. Bordignon, L. Rizzo, G. Turati, “Come si finanzia l’autonomia differenziata?”, cit.

[5] Vedi la nostra precedente nota “Come viene finanziata la sanità tra le Regioni?”, 31 maggio 2024.

[6] La spesa pro capite è leggermente più alta al Centro-Nord. È più alta al Sud se si sottraggono le pensioni, sulla cui allocazione geografica il decisore politico non ha alcun controllo. È notevolmente più alta al Sud se si tiene conto che i prezzi del Mezzogiorno sono notevolmente più bassi che nel resto del Paese. Cfr. la nostra precedente nota “La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni”, 2 ottobre 2020.

[7] Nella letteratura economica non sempre questa distinzione è chiara. Si potrebbe parlare in alternativa di decentramento nella gestione della spesa da un lato e decentramento nella spesa e nelle risorse dall’altro.

[8]A fiscal capacity for the euro area: lessons from existing fiscal-federal systems”, European Central Bank Occasional Paper n. 239, aprile 2020.

Un articolo di

Rossana Arcano, Alessio Capacci, Giampaolo Galli

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