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Sri Lanka: un paese in crisi

10 novembre 2022

Intermedio

Sri Lanka: un paese in crisi

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Come ogni crisi, quella che nel maggio scorso ha indotto lo Sri Lanka a dichiarare il default sul suo debito ha caratteristiche peculiari. Tuttavia, ci sono ingredienti che sono comuni a tanti paesi emergenti e forse anche sviluppati che meritano attenzione perché possono rendere il caso specifico emblematico di tendenze più generali. Lo Sri Lanka, pur essendo classificato come un paese a reddito medio-basso, ha affrontato le crisi che si sono succedute in questi anni (Covid-19, aumento dei prezzi dell’energia, incremento dei tassi d’interesse in dollari) a partire da condizioni di notevole fragilità finanziaria: alto debito pubblico e cronico deficit della bilancia dei pagamenti. A questi fattori, si sono aggiunte varie decisioni sbagliate, fra le quali quella presa nel 2019 di ridurre le tasse (per circa 1,7 per cento del Pil) nella convinzione che ciò potesse contribuire a rilanciare l’economia e il passaggio improvviso all’agricoltura biologica nel 2021.

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L’attuale crisi economica in Sri Lanka, un paese classificato come a medio-basso reddito dalla Banca Mondiale, è una delle peggiori che il paese abbia conosciuto nella sua storia. Il PIL in termini reali, dopo essersi ripreso dalla crisi pandemica, è nuovamente crollato alla fine del 2021 ed è tornato ai livelli del 2017. Il tasso di inflazione ha raggiunto il 70 per cento, il rapporto debito Pil ha sforato per la prima volta la soglia del 100 per cento (valore che per un paese in via di sviluppo è considerato non sostenibile) e la valuta nazionale si è svalutata del 184 per cento rispetto al dollaro e del 117 per cento rispetto all’euro (Fig.1-2-3-4).

La situazione economica e sociale è diventata insostenibile e il 18 maggio 2022 (al termine del cosiddetto periodo di grazia) il governo ha annunciato di non essere in grado di ripagare i 78 milioni di dollari di interessi sul debito pubblico che erano scaduti il 18 aprile, dichiarando di fatto il default. Le prime timide proteste della popolazione sono state temporaneamente placate alla fine di maggio del 2022 quando il presidente accolse la richiesta dell’opinione pubblica e licenziò suo fratello dalla carica di primo ministro. Tuttavia, l’inflazione superiore al 20 per cento da oltre 5 mesi e l’esaurimento dei beni essenziali ed energetici ha indotto la popolazione singalese ad unirsi contro l’uomo considerato responsabile del disastro: il Presidente Gotabaya Rajapaksa. Il 7 luglio migliaia di persone occuparono il palazzo presidenziale costringendo il presidente alle dimissioni e alla sua successiva fuga il 14 luglio.

Le cause della crisi

Ci sono diverse ragioni che hanno portato il paese alla crisi. Per lo più sono fattori di contesto internazionale (Covid-19, aumento dei tassi d’interesse in dollari, aumento delle materie prime energetiche) che hanno colpito un paese particolarmente fragile sotto il profilo finanziario. In particolare, hanno pesato:

  • Un debito pubblico elevato che è aumentato per via del Covid, ma anche della decisione, presa nel 2019, di ridurre la pressione fiscale nella convinzione che ciò potesse servire a rilanciare l’economia.  
  • L’elevata componente del debito denominata in dollari, pari al 64,6 per cento del totale;
  • Un elevato e prolungato deficit della bilancia dei pagamenti, che assieme all’aumento dei tassi in dollari, ha determinato una fortissima svalutazione della moneta nazionale;
  • la decisione del 2021 di vietare l’uso dei fertilizzanti chimici.

La pandemia ha avuto un impatto negativo molto forte sull’economia del paese (meno 14,8 per cento del PIL nel secondo trimestre del 2020) a causa della dipendenza dal settore del turismo (12,6 per cento del Pil nel 2019).[1] Nel secondo trimestre del 2021, il paese era comunque riuscito a recuperare il livello di reddito del periodo pre-pandemia. Tuttavia, il rapporto debito su PIL era aumentato di 15 punti percentuali rispetto al primo trimestre del 2020. La situazione della finanza pubblica è stata ulteriormente peggiorata dalla decisione presa nel 2019 di ridurre la pressione fiscale, nella convinzione che questa misura aiutasse a sostenere l’attività economica. Secondo le stime della Banca Centrale del paese, la riforma fiscale ha comportato minori entrate annuali per 1,4 miliardi di euro, pari a circa l’1,7 per cento del Pil.[2]

Un fattore che ha aggravato la crisi è il prolungato squilibrio della bilancia commerciale dal 2000 ad oggi. Questa fatto, assieme all’aumento dei tassi d’interesse sul dollaro, ha determinato la svalutazione della rupia dello Sri Lanka. Già prima della dichiarazione di default e dello scoppio delle proteste, in meno di 10 anni, la valuta dello Sri Lanka aveva perso il 39 per cento del proprio valore rispetto all’euro e il 56 per cento rispetto al dollaro americano. Come già argomentato nella nota OCPI La politica monetaria USA e gli effetti sulle economie emergenti, per un paese in via di sviluppo, con un debito in buona parte espresso in dollari (come si è detto, per circa il 65% nel caso dello Sri Lanka), l’aumento dei tassi deciso dalla FED può avere effetti pesanti. Può causare o aggravare la svalutazione della moneta nazionale e questa a sua volta determina un aumento del rapporto fra debito e Pil, nonché un rincaro delle importazioni di gran parte dei beni essenziali, tra cui i prodotti energetici, che sono quotate in dollari.[3] Di conseguenza, la svalutazione, anche se rende più conveniente l’offerta di beni e servizi da parte del paese, finisce con l’avere effetti recessivi, rendendo più oneroso il servizio del debito e aggravando l’inflazione.

L’aumento dei prezzi dei carburanti e dell’energia a partire dal 2021, accentuato dallo scoppio della guerra in Ucraina, ha assestato un duro colpo ad un paese già fortemente in difficoltà. Attualmente il paese non ha abbastanza carburante per i servizi essenziali come autobus, treni e veicoli sanitari, e i funzionari governativi affermano di non avere abbastanza valuta estera per importarne di più. A fine giugno, il governo aveva addirittura vietato per due settimane la vendita di benzina e diesel per i veicoli non essenziali. Le scuole sono state chiuse e alle persone è stato chiesto di lavorare da casa per aiutare a conservare i rifornimenti di carburante.

Lo Sri Lanka è rimasto vittima anche della decisione presa all’improvviso nel 2021 dal Presidente Gotabaya Rajapaksa di passare all’agricoltura biologica, con l’introduzione dell’immediato divieto dell’uso di fertilizzanti chimici. Le motivazioni addotte per questa decisone sono state il tentativo di migliorare la fertilità del suolo e di ridurre la mortalità degli agricoltori, che secondo alcune fonti sarebbe stata connessa all’uso dei fertilizzanti. Per quanto magari sostenuto da buone ragioni, il repentino cambiamento ha causato un crollo della produzione agricola del paese nel 2021 e nel 2022.[4] Ciò ha causato un'impennata dei prezzi dei beni alimentari, minori esportazioni e maggiori importazioni dall’estero con il conseguente aggravamento della bilancia commerciale e l’ulteriore innalzamento dei prezzi.

Il default gestito a livello internazionale

Nella storia dello Sri Lanka, da quando cioè il paese ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, è la prima volta che si verifica un default del debito. La domanda è come questo default possa essere gestito a livello internazionale, visto che il debito è in larga misura debito verso investitori esteri. La comunità internazionale ha da tempo sviluppato meccanismi di intervento e assistenza in casi simili, la cui attuazione è però adesso diventata complicata per ragioni geopolitiche.

In particolare, in passato, quando un paese emergente era costretto a dichiarare il default sul proprio debito (estero), il Club di Parigi, un’organizzazione che raggruppa i 22 paesi più ricchi del mondo fatta eccezione per India e Cina, a fronte di garanzie da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI), interveniva e procedeva ad una rinegoziazione del debito con il paese in questione, condizionandola anche a interventi di politica economica. Oggi la situazione è diversa. Per molti paesi emergenti, i membri del Club di Parigi non sono più i soli creditori a livello globale; in molti casi, si sono aggiunti India e Cina. Di conseguenza, prima di procedere ad un’eventuale ristrutturazione del debito, i paesi del Club di Parigi devono anche coordinarsi e accordarsi con questi due paesi.

Nel caso dello Sri Lanka, il coordinamento con ogni suo creditore è necessario per poter richiedere l’intervento del FMI che ha già previsto, in caso di un accordo unanime con i creditori, un prestito di 2,9 miliardi di dollari condizionato dall’attuazione di una serie di riforme economiche tese a ridurre il deficit pubblico. I membri del Club di Parigi spingono per una ristrutturazione del debito estero. Tuttavia, la Cina ha già espresso la sua contrarietà. Il differimento dei pagamenti annuali e l’estensione della scadenza per quanto riguarda i pagamenti sul debito sono le strategie preferite dalla Cina per i paesi insolventi. Dietro a questa posizione probabilmente c'è il timore che anche altri mutuatari della Via della seta, che devono al Governo di Pechino decine di miliardi di dollari, chiedano lo stesso trattamento. Peraltro, i paesi del Club di Parigi non possono accettare che un paese faccia default nei confronti dei paesi avanzati al fine di continuare a onorare i debiti nei confronti di un particolare creditore, in questo caso la Cina. 

Che insegnamenti dallo Sri Lanka?

È chiaro che lo Sri Lanka è un caso un po' particolare, anche per la specificità della sua situazione geo-politica. Generalizzare è sempre pericoloso. Tuttavia, ci sono ingredienti che sono comuni a tanti paesi emergenti e forse anche sviluppati che meritano attenzione perché possono rendere il caso specifico emblematico di tendenze più generali.

In primo luogo, l’effetto devastante che ha avuto la pandemia, non solo nel senso di causare forti perdite economiche e di vite umane, ma anche di aggravamento della situazione delle finanze pubbliche. A fronte di forti cadute di reddito e della necessità di sostenere l’economia, tutti i paesi, Sri Lanka incluso, si sono indebitati fortemente, approfittando anche della lunga stagione di tassi molti bassi, soprattutto in valute forti come il dollaro. Ciò è stato sicuramente utile nell’immediato ma ha anche accentuato la fragilità delle finanze pubbliche, rendendole molto vulnerabili ad improvvisi mutamenti nell’orientamento della politica monetaria statunitense, come quello che stiamo adesso osservando.[5]

In secondo luogo, una lunga serie di errori di politica economica che hanno aggravato la situazione economica del paese. Oltre ad una riforma agricola non sufficientemente meditata, si conferma come la decisione di tagliare bruscamente le tasse in un momento di difficoltà della finanza pubblica e di mutamento nella percezione del rischio da parte degli investitori internazionali non sia una buona idea, si tratti di una economia emergente come lo Sri Lanka o di un’economia sviluppata come il Regno Unito.[6]

In terzo luogo, gli effetti combinati di svalutazione della valuta e aumento dei prezzi dell’energia (in dollari) hanno generato una forte crescita dell’inflazione, con effetti negativi particolarmente devastanti sulle fasce più povere della popolazione. In più, l’aumento dei tassi di interesse necessario per sostenere il cambio ha avuto ulteriori effetti recessivi su un’economia già provata.

Da ultima, ma non per importanza, vi è la constatazione che i tradizionali strumenti a disposizione della governance internazionale per affrontare problemi simili (il Club di Parigi) non sono più sufficienti, perché non tengono conto dell’emergere di nuove potenze economiche, come la Cina, che possono avere interessi e obiettivi divergenti da quelli dei paesi occidentali. Insomma, lo Sri Lanka è lontano, ma i suoi problemi parlano anche a noi.


[1] Si tratta di un valore vicino a quello dell’Italia, in cui il turismo rappresentava circa il 13,3 per cento del PIL nel 2019.

[2] Per confronto, in Italia un taglio delle tasse pari a 1,7 per cento del PIL comporterebbe una riduzione nelle tasse di oltre 30 miliardi di euro.

[3] Da questo punto di vista, lo Sri Lanka è un caso di scuola  dei potenziali problemi generati dalla dominanza del dollaro nei paesi emergenti discussi nella nota “La politica monetaria USA e gli effetti sulle economie emergenti” a cui si rimanda.

[4] Per la prima volta dopo decenni, lo Sri Lanka ha dovuto importare riso. La produzione di tè, la principale esportazione del paese, è diminuita del 18%, frenando i suoi guadagni in valuta estera.

[5] Per una spiegazione approfondita in merito alle conseguenze dovute all’aumento dei tassi d’interesse USA, si veda la nota OCPI “La politica monetaria USA e gli effetti sulle economie emergenti”.

[6] Per una spiegazione approfondita riguardante le conseguenze delle ultime manovre fiscali da parte del Regno Unito si rimanda alla nota OCPI “Cos’è veramente successo al Regno Unito?

Un articolo di

Francesco Scinetti

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