-
L’impatto delle nuove decisioni di politica monetaria sull’Italia
Gli acquisti di titoli di Stato da parte della BCE continueranno comunque a ricoprire un ruolo rilevante nel finanziamento del debito pubblico dell’Italia e degli altri stati dell’Eurozona. Infatti, nel 2022 la BCE acquisterà circa 63 miliardi di titoli del debito italiano (pari al 60 per cento del deficit previsto), una quota consistente anche se inferiore a quella stimata per il 2021 (155 miliardi, pari al 92 per cento del deficit). Per il 2022, con le nuove decisioni di politica monetaria, si riduce significativamente il ruolo del PEPP: nel 2021 ha acquistato ben 134 miliardi di titoli del debito italiano, mentre il prossimo anno gli acquisti si fermeranno a circa 23 miliardi. L’uscita dal programma pandemico è in parte compensata dall’aumento degli acquisti del PSPP: nel 2021, gli acquisti ammontavano a 21 miliardi, mentre nel 2022 dovrebbero raggiungere 40 miliardi. Di conseguenza, gli acquisti della BCE coprono il 45 per cento del fabbisogno lordo di finanziamento nel 2021 (ossia del totale dei titoli emessi per finanziare il deficit e rifinanziare i titoli in scadenza) e il 35 per cento nel 2022. Nel 2021 lo stato italiano ha ricevuto prestiti per 27 miliardi provenienti dalla Recovery and Resilience Facility (RRF) e dal SURE; a questi si aggiungono 20 miliardi di contributi a fondo perduto, per finanziare spese non incluse nel deficit, dalla RRF e dal React-EU (entrambi parte del Next Generation EU). Corrispondentemente, nel 2022 dovrebbe lievemente crescere l’ammontare di debito – in termini assoluti – detenuto dai mercati finanziari, passando da 1.977 miliardi nel 2021 a 1.988 nel 2022: nonostante questo aumento, siamo ancora al di sotto del livello pre-pandemia del 2019, quando i mercati finanziari detenevano 2.010 miliardi di titoli del debito italiano.
-
Quanto aumenta la disponibilità degli asili nido con il PNRR?
Il totale delle posizioni negli asili nido aumenterebbe invece meno rapidamente: entro la fine del 2025, utilizzando indicazioni contenute nel materiale preliminare del PNRR, si passerebbe dall’attuale 26,9 per cento della attuale copertura a quasi il 40 per cento (contro il 50 per cento già superato da Spagna e Francia nel 2019). Inoltre, il PNRR, almeno formalmente, fissa un obiettivo totale di costruzione di posti per asili nido e scuole dell’infanzia, senza obiettivi distinti tra queste due componenti. Occorre quindi una maggiore precisione negli obiettivi specifici per gli asili nido, anche a livello territoriale, e permettere agli enti locali, alcuni dei quali con limitate esperienze tecniche, di partecipare al meglio alla creazione di posti di asili nido nelle aree meno coperte. Nella versione del PNRR di metà aprile, la misura prevedeva la creazione di 228.000 posti, di cui 152.000 per asili nido (ossia per i bambini con età compresa tra 0-3 anni) e 76.000 per le scuole dell’infanzia (la fascia 3-6 anni). I dati sulla copertura di asili nido Nel resto di questa nota il termine “asili nido” si riferisce al totale dei posti dei “servizi educativi per la prima infanzia” che, oltre agli asili nido in senso stretto, comprendono i cosiddetti “servizi integrativi”. I posti disponibili sono equamente divisi tra servizi pubblici (180.842) e privati (180.476); la suddivisione riporta però una marcata differenza nel numero di strutture, dato che gli asili nido e i servizi equiparati gestiti dal pubblico (4.857) rappresentano solo il 35,1 per cento del totale (13.834). Conclusioni Grazie al “piano asili nido”, l’obiettivo del Consiglio Europeo del 2002 sarà verosimilmente superato ma sicuramente non riuscirà a garantire una copertura del 50 per cento degli asili nido per il 2026, traguardo che Spagna e Francia hanno già raggiunto nel 2019.
-
La giustizia tributaria in Italia: cosa ci dicono i dati?
La durata media dei processi tributari resta elevata (oltre quattro anni al 2019 per i casi che arrivano al secondo grado di giudizio): i tempi per le sentenze si sono ridotti negli ultimi anni per il primo grado di giudizio, ma sono aumentati per il secondo grado di giudizio. Inquadramento generale La giustizia tributaria, che ha giurisdizione su tutte le controversie relative ai tributi di ogni categoria (sia nazionali sia locali), alle caratteristiche dei terreni e al classamento delle unità immobiliari, ed è disciplinata dal d.lgs. n. 545/1992, comprende due gradi di giudizio: le Commissioni tributarie provinciali (CTP), presenti in ciascun capoluogo di provincia, che giudicano in primo grado, e le Commissioni tributarie regionali (CTR), con sede in ciascun capoluogo di regione, che giudicano in appello. La funzione giudicante delle Commissioni tributarie è svolta da un collegio di tre giudici presieduto da un presidente di sezione, [2] incarico che può essere svolto da un magistrato in servizio o in pensione. Anche secondo quest’altro indicatore, nell’ultimo quinquennio l’Agenzia delle entrate ha sensibilmente migliorato il proprio indice di vittoria, passando dal 69,4 per cento del 2015 al 76,2 del 2020, mentre l’andamento seguito dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli è stato di segno opposto, con un calo che l’ha vista passare dall’88,3 del 2015 al 69,8 del 2020. Tale indice è costruito su base annuale come rapporto tra il numero di pronunce di merito e di legittimità favorevoli (in tutto o anche solo in parte) all’agenzia fiscale e il totale delle pronunce di merito e di legittimità che hanno coinvolto l’agenzia fiscale in un dato anno. Sulla base degli stessi dati è possibile anche calcolare un indice di vittoria netto, costruito come rapporto tra le pronunce di merito e di legittimità totalmente favorevoli all’agenzia fiscale e il totale delle pronunce di merito e di legittimità che hanno coinvolto l’agenzia fiscale in un dato anno.
-
Esiste un legame tra Pil e felicità?
Dopo aver presentato alcune evidenze del documento, la nota si focalizza sul rapporto tra il grado di soddisfazione di vita e il Pil pro-capite, evidenziando l’esistenza di una forte correlazione. Il documento cerca dunque di valutare il livello di soddisfazione di vita in un gran numero di paesi molto diversi fra di loro. Questa tendenza non è comunque limitata al 2020: nell’ultimo decennio i paesi avanzati hanno infatti registrato un Happiness score superiore di circa un punto rispetto a quello dei paesi emergenti, e di due punti rispetto a quello dei paesi in via di sviluppo (Figura 1). Più precisamente, il punteggio medio ottenuto dai paesi avanzati tra il 2010 e il 2020 è di 6,652, mentre quello ottenuto dai paesi emergenti e in via di sviluppo è rispettivamente di 5,497 e 4,496. Esiste una relazione tra felicità e Pil pro-capite? La Tavola 1 sembra suggerire una qualche forma di relazione tra la soddisfazione per la propria vita, così come misurata dall’Happiness score, e il grado di sviluppo economico di un paese. Utilizzando un semplice modello di regressione lineare con un panel di 1.913 osservazioni su 161 paesi e 16 anni con il Pil pro-capite (valutato con le parità di potere d’acquisto) come variabile esplicativa dell’Happiness score, il coefficiente di regressione stimato risulta pari a 0,76, con un t statistico di 21. Il fatto sorprendente è che queste correlazioni riguardano una variabile, l’Happiness Score, apparentemente scollegata dal Pil, in quanto calcolata solamente sulla base delle risposte alla richiesta, molto generica, di valutare la propria vita su una scala da 0 a 10.
-
Il trasporto pubblico locale a Roma: come è stato gestito negli ultimi anni?
giugno 2021 Facile Tra il 2015 e il 2019, la qualità del servizio di trasporto pubblico a Roma - erogato da Atac, società partecipata dal Comune - è peggiorata significativamente. Tuttavia, ciò non è dipeso da un migliore risultato operativo, bensì dalla riduzione degli accantonamenti per i rischi e dalla sospensione di parte degli interessi passivi per effetto del concordato preventivo del 2017. Il servizio di trasporto pubblico locale a Roma è gestito, tramite affidamento diretto (cioè senza alcun bando di gara) da Atac S.p.A., società partecipata interamente dal Comune di Roma Capitale. Nello stesso periodo, anche il divario tra il servizio previsto dal contratto e quello effettuato (in termini di vetture-km) è aumentato sensibilmente, specialmente nel trasporto in superficie dove è passato dal 7 al 17 per cento. Tutto ciò si riflette nel peggioramento degli indicatori del grado di apprezzamento del servizio da parte dei cittadini (tra il 2015 e il 2019, il Customer Satisfaction Index è calato del 26 per il trasporto in superficie e del 6 per cento per la metropolitana). Dopo numerosi esercizi chiusi in rosso, Atac è passata da una perdita di 120 milioni nel 2017 a un utile di 0,8 milioni nel 2018 e di 7,6 milioni nel 2019. Inoltre, nel 2019 la società ha ricalcolato i debiti utilizzando il valore attualizzato (ossia il valore scontato dei pagamenti futuri – i rimborsi e gli interessi – verso i creditori) che risulta minore del valore nominale: la differenza ha generato dei proventi finanziari, di natura contabile e una tantum, di circa 2 miliardi.
-
Rapporto su alcuni aspetti della riforma fiscale
Ai lavori della Commissione hanno partecipato anche Gilberto Gelosa, Maurizio Postal e Tommaso di Nardo. La Commissione non è entrata nella questione delle possibili fonti di copertura delle riforme considerate. Le alternative sono peraltro chiare: revisione di altri aspetti della tassazione diretta, aumenti della tassazione indiretta, recupero dell’evasione fiscale, risparmi sulla spesa. La Commissione concorda che il finanziamento delle riforme proposte con coperture stabili è essenziale per la credibilità e il successo della riforma stessa. Il testo completo del rapporto è scaricabile in formato PDF cliccando nell'apposito box a sinistra Un articolo di Commissione di esperti promossa dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) Download Scarica il PDF.
-
Il rincaro dell’energia e la transizione ecologica
Una possibilità è quella di usare per questa finalità i proventi delle aste dei permessi di emissione di CO2; se adottata in maniera trasparente, questa misura migliorerebbe l’accettabilità sociale del carbon pricing. Il rincaro dei costi dell’energia Da gennaio ad oggi, il prezzo del gas naturale è salito da 16 a 75 euro/MW, con una crescita di circa 45 euro solo negli ultimi tre mesi. Il costo dei permessi di emissione della CO2 nell’ambito dell’Emissions Trading System europeo (ETS) è salito da circa 30 euro/tonnellata di CO2 a 60 euro. Circa l’80 per cento degli aumenti dell’energia elettrica è attribuibile al gas naturale, mentre non più del 20 per cento è legato al rincaro dei permessi di emissione. Per l’energia elettrica, sul mercato tutelato, la voce della bolletta relativa alle spese di approvvigionamento è cresciuta del 47 per cento tra il secondo e il terzo trimestre del 2021 e la media del 2021 è maggiore del 19 per cento rispetto ai livelli precedenti al Covid-19 (dati Arera). La transizione ecologica crea delle diseguaglianze anche all’interno della stessa fascia di reddito, a seconda del settore di occupazione (es. i lavoratori nei settori ad alta intensità di CO2 sono difficilmente convertibili) e della locazione geografica (es. chi vive in aree rurali utilizza di più il trasporto privato). Il gettito delle aste dei permessi è distribuito tra gli Stati membri, in base allo storico delle emissioni, e ai Fondi di Modernizzazione e Innovazione (che assorbono circa il 15 per cento delle risorse).
-
Le opere pubbliche incompiute in Italia: un aggiornamento
La situazione è particolarmente positiva per le province autonome di Trento e Bolzano e per le regioni del Nord Italia, con eccezione della Lombardia, che però, essendo la regione di gran lunga più grande, ha anche un numero di opere in corso di esecuzione molto più elevato delle altre. Al contrario, il numero di opere pubbliche incompiute è più alto nelle province del Sud Italia, in particolare per l’Italia insulare (Fig. 1). Il Sud della penisola ha inoltre un numero di opere pubbliche incompiute ogni 100.000 abitanti di gran lunga superiore rispetto al Nord e Centro, confermando il quadro appena descritto (Fig. 2). La tendenza generale dal 2016 al 2020 Il numero di opere pubbliche incompiute è calato tra il 2016 e il 2020: si è passati infatti da 698 a 393 opere non ultimate (Fig. 5). Il numero di opere incompiute è rimasto però invariato nel 2020 (e probabilmente è cresciuto tenendo conto che il dato del 2020 non comprende la Puglia): è possibile che la pandemia di Covid-19 abbia contribuito al rallentamento del completamento delle opere pubbliche incompiute fino a quel momento. Ciò vale in particolare per le regioni del Sud dove è destinata una quota di investimenti (rispetto alla popolazione) più alta rispetto alle altre macro aree e che in passato hanno mostrato maggiori difficoltà a completare gli investimenti. La somma delle cause è 468, superiore al numero delle opere (393): questo perché vi sono 75 opere pubbliche che sono rimaste incompiute per due o più ragioni.
-
I Btp Green: un segnale di attenzione verso l’ambiente
Il tasso di rendimento annuo all’emissione è stato dell’1,575 per cento, valore prossimo a quello di un Btp tradizionale con la stessa scadenza. Il quadro di riferimento per l’emissione Il documento “Quadro di riferimento per l’emissione di titoli di Stato Green” contiene, tra le altre informazioni, le linee guida che definiscono le spese finanziabili con le risorse raccolte attraverso l’emissione dei titoli green (di seguito “spese ammissibili”). Nel testo del “quadro di riferimento” si legge: “Gli attivi finanziati dallo Stato a fronte dell'emissione di titoli di Stato Green non costituiscono alcun tipo di garanzia a favore degli investitori. Di conseguenza, gli investitori che sottoscriveranno i titoli di Stato Green non avranno a carico i potenziali rischi derivanti dai progetti ritenuti ammissibili al finanziamento tramite le emissioni di titoli di Stato Green, né sarà accordato alcun tipo di trattamento preferenziale rispetto agli altri detentori di titoli di Stato. Il rendimento per l’investitore Al fine di confrontare il rendimento dei Btp Green con quello di un Btp tradizionale, si possono considerare un Btp con scadenza all’1/09/2044 (ISIN: IT0004923998) e un Btp con scadenza all’1/09/2046 (ISIN: IT0005083057). Il rendimento di un Btp tradizionale fittizio con scadenza al 30/04/2045 ricavato tramite interpolazione è di circa 1,54 per cento; questo valore è molto prossimo all’1,547 per cento del Btp Green. Ciò significa che dal punto di vista dell’investitore acquistare un Btp tradizionale o un Btp Green dovrebbe essere più o meno indifferente, a meno che l’investitore non attribuisca un valore aggiunto all’attributo “green”, in tal caso il Btp Green sarà più conveniente.
-
Un commento alla NADEF 2021
Le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica La Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) descrive un quadro macroeconomico in miglioramento rispetto a quanto previsto nel DEF di aprile (Tav. 1). Già nel 2022 il PIL raggiungerà il livello del 2019 e nel 2023 supererà il livello che avrebbe raggiunto se la crescita fosse continuata come era stato previsto nel 2019, ossia prima della crisi Covid (Fig. 1). L’ipotesi sottostante queste stime è che i tassi di interesse rimangano ai livelli attuali per tutto l’arco della previsione; il rapporto debito pubblico/PIL si attesta a fine anno al 153,5 per cento, in netto ribasso rispetto alle previsioni di aprile (159,8 per cento). Questo è ciò che accade nello scenario della NADEF: il deficit (nel senso di indebitamento netto) strutturale scende di 2,1 punti di PIL nel 2022, 1,0 nel 2023 e 0,6 nel 2024. Secondo la NADEF, un aumento di 100 punti base del tasso di rendimento del BTP a 10 anni avrebbe un impatto modesto nel breve periodo ma consistente nel lungo: rispetto al programmatico, il tasso di crescita del PIL sarebbe infatti più basso di 0,1 punti percentuali nel 2022, 0,6 nel 2023 e 0,8 nel 2024. Questa dinamica si osserva anche con riferimento al rapporto debito/PIL, che rispetto allo scenario programmatico sarebbe più alto di un punto percentuale nel 2022 e di oltre 6 punti nel 2024 (giungendo al 152,5 per cento). Il punto cruciale è che il rapporto debito/PIL ricomincerebbe a salire già dal 2023 al verificarsi di uno dei seguenti due eventi: un aumento (non temporaneo) di un punto del tasso di interesse sui BTP e una crescita del PIL più bassa rispetto a quella programmata di 1,0 p.p.
-
La riforma della PA: cosa manca nel PNRR
Un aspetto problematico di questa riforma, presente sia nel PNRR sia nelle schede tecniche, è la riforma del cosiddetto “ciclo della performance”, introdotto in teoria un decennio fa per focalizzare la PA verso una gestione della spesa pubblica orientata ai risultati. Dei tanti aspetti toccati dalla proposta di riforma della PA contenuta nel PNRR, qui ci concentriamo sulla gestione e sulla valutazione delle amministrazioni pubbliche tramite la definizione di obiettivi monitorabili, di indicatori di performance specifici, di un processo di valutazione dei risultati e del relativo premio al merito. Nonostante la riforma del 2009, in Italia la gestione e la valutazione della PA tramite la definizione di obiettivi chiari e misurabili non si è mai affermata in pratica. Limitare a poche righe nel testo principale del PNRR il trattamento della questione segnala che questa riforma non è certo considerata una priorità da parte del governo e, implicitamente, dalle forze politiche che lo sostengono. In questo modo le amministrazioni centrali faranno riferimento a un unico insieme di obiettivi; Il legame tra ciclo della performance e valutazione del raggiungimento degli obiettivi individuali e dei premi per i dirigenti sarà una parte significativa della loro remunerazione. Infatti, a differenza degli interventi, per esempio, per riformare il reclutamento dei dipendenti pubblici o per la digitalizzazione, l’implementazione della riforma del “ciclo della performance” e del “performance budgeting” è scandita da una sola milestone (obiettivo) fissata per fine 2024. Nello specifico, questa milestone prevede una vaga “implementazione di un insieme di indicatori della performance outcome-oriented” e l’inizio della redazione semestrale di un report su questi indicatori.
-
Le ore di lavoro dei docenti italiani: i risultati di una nostra indagine
Sarebbe però utile avere maggiori informazioni ufficiali su questo tema, anche alla luce dell’opportunità di fissare un orario di lavoro complessivo ben definito per i docenti. In Italia, il numero di ore di insegnamento settimanali dei docenti è definito dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) Istruzione e Ricerca (25 per la scuola dell’infanzia, 24 per la primaria e 18 per la secondaria). Alcune di queste sono legate alla sfera strettamente scolastica, come la preparazione e la correzione di verifiche scritte o la partecipazione a collegi docenti, consigli di classe, di dipartimento e colloqui con i genitori. Le ore effettive di lavoro degli insegnanti in Italia: il risultato della nostra indagine Per quantificare le ore di lavoro aggiuntivo, abbiamo chiesto a 166 docenti delle scuole superiori di secondo grado di fornire una stima delle ore di lavoro extra-insegnamento. Il campione risultante è sufficientemente eterogeneo, sia da un punto di vista geografico (61 per cento Centro-Nord e 39 per cento Sud) che rispetto alle scuole di appartenenza (51 per cento licei, 37 per cento istituti tecnici e 12 per cento istituti professionali). Questa differenza, seppur contenuta, è riconducibile al fatto che docenti di matematica, fisica e discipline simili sono mediamente meno coinvolti in incarichi extra (20 su 57, ovvero circa il 35 per cento) rispetto a colleghi che insegnano in ambito umanistico (48 su 94, poco più del 50 per cento). Il sondaggio indica anche che i docenti più anziani lavorano in media più ore extra-insegnamento rispetto ai colleghi più giovani (19 ore aggiuntive a settimana per la fascia 41-50 anni, contro le 16 ore in più per la fascia 31-40).
-
Le spese fiscali continuano ad aumentare
Più di metà delle spese fiscali costa meno di 7 milioni di euro, a riprova del fatto che esiste un numero enorme di micro-interventi destinati a categorie ristrette. Questo utilizzo delle spese fiscali (1) causa una perdita di gettito prolungata nel tempo; (2) crea distorsioni e costi a carico dei contribuenti; (3) pro-capite, beneficia maggiormente i contribuenti più ricchi. Anche prima del Covid erano state presentate diverse proposte di riforma del fisco, spesso accomunate dall’intenzione di rimodulare alcune aliquote riducendo le spese fiscali (tax expenditures), cioè la lunga lista di deduzioni, detrazioni e regimi opzionali. Inoltre l’anno scorso, nonostante nel Rapporto programmatico in materia di spese fiscali il Governo dichiarasse “necessario procedere alla riduzione, semplificazione e riordino delle spese fiscali”, diversi ristori anti-crisi sono stati concepiti ed erogati sotto forma di spese fiscali, sia grandi (Superbonus 110%) sia piccole (bonus acqua potabile). Per queste ragioni la mediana del costo delle spese fiscali censite a fine 2020 è meno di 7 milioni di euro, a conferma del fatto che esiste un numero enorme di spese fiscali di minimo importo (Fig. 2). I problemi causati da questo utilizzo delle spese fiscali sono molteplici: L’effetto sui conti pubblici: a parte l’ovvia perdita di gettito, esiste anche un problema particolare per i crediti di imposta, che costituivano 66 delle 602 spese fiscali censite a fine 2020. Dato che è inverosimile che un contribuente che dichiara meno di 20 mila euro all’anno (categoria a cui appartiene il 58 per cento dei soggetti Irpef) sostenga spese ingenti in questo ambito, saranno i contribuenti i più ricchi a beneficiarne di più.
-
Investire in opere pubbliche portando a termine quelle incompiute
L’importo ancora da spendere per completarle non è però elevatissimo (circa 750 milioni di euro) e dovrebbe quindi certamente essere integrato dal completamento delle opere incompiute nazionali e da nuovi programmi di investimento che è necessario definire al più presto. Le aree geografiche in cui è presente il maggior numero di opere pubbliche incompiute sono le Isole e le regioni del Sud, le quali beneficerebbero maggiormente degli investimenti integrativi per completare tali opere. Le opere pubbliche incompiute nel 2018 Ogni anno il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) pubblica l’Anagrafe regionale delle opere incompiute. La spesa totale prevista inizialmente per opere pubbliche incompiute in Italia, sempre a fine 2018, era pari a 1.607 milioni di euro (Figura 2, che riporta anche la ripartizione per macroregioni). Il totale degli oneri da sostenere per completare tutte le opere pubbliche incompiute degli enti territoriali ammontava invece a 745 milioni di euro (Figura 3). La seguente Tavola riassume i dati regionali relativi al numero di opere incompiute, il totale già investito e gli oneri necessari per ultimare le opere. Le opere vengono inserite direttamente dagli enti locali appaltanti tramite il SIMOI (Sistema informatico di monitoraggio delle opere incompiute).
-
Quanto incasserà lo Stato italiano con il nuovo sistema di tassazione delle multinazionali?
Sarebbe tassato in questo modo il 25 per cento del cosiddetto “ residual profit ”, ossia i profitti delle multinazionali meno il 10 per cento del loro fatturato (quelle con profitti inferiori al 10 per cento del fatturato non sono quindi toccate dalla tassa). Al paese dove la multinazionale risiede resta quindi come base imponibile (una volta risolto il problema della doppia tassazione; vedi nota 5) la parte di profitto superiore al residual profit (quindi fino al 10 per cento del fatturato) più (anche se non viene detto esplicitamente) il 75 per cento del residual profit . Facciamo un esempio per chiarire: se un’impresa ha 100 miliardi di ricavi e 26 miliardi di profitti, la parte tassabile dai paesi non di residenza sarebbe solo di 4 miliardi (il 25 per cento dei 16 miliardi di residual profit ), mentre i 22 miliardi rimanenti sarebbero tassati dal paese di residenza. Il secondo pilastro prevede l’introduzione di un’imposta effettiva (cioè al netto di vari ed eventuali benefici fiscali) del 15 per cento sui profitti delle multinazionali con ricavi superiori ai 750 milioni di euro (inferiore quindi al 21 per cento proposto originariamente dall’amministrazione Biden). Ad esempio, se un’impresa americana paga in Irlanda le imposte sui profitti per 30 miliardi a un’aliquota del 12,5 per cento, allora il fisco americano avrebbe diritto a prelevare da tale azienda, in aggiunta alla normale imposizione domestica, 750 milioni, ossia il 2,5 per cento (15 per cento meno 12,5 per cento) di 30 miliardi. A tali esenzioni si arriverà gradualmente in 10 anni, partendo inizialmente con esenzioni dell’8 per cento del valore delle immobilizzazioni materiali e del 10 per cento dei salari (nell’accordo di luglio le esenzioni erano invece fissate al 7,5 per cento e il periodo di transizione era di 5 anni). I benefici sarebbero potuti essere ancora più consistenti: senza esenzioni, ad esempio, l’Italia avrebbe ottenuto dal secondo pilastro un gettito di oltre 3 miliardi l’anno e di oltre 8 miliardi con un’aliquota pari a quella proposta inizialmente dall’amministrazione Biden (21 per cento anziché 15 per cento).
-
Il Carbon pricing durante il Covid-19: un confronto internazionale
Per sostenere i costi della crisi Covid per la finanza pubblica, piuttosto che ricorrere esclusivamente al deficit, alcuni paesi tra la seconda metà del 2020 e il 2021 hanno preso misure per aumentare le entrate, anche attraverso forme di “carbon pricing”, che disincentivano l’uso di combustibili inquinanti . Il termine “carbon pricing” include: [2] carbon taxes, direttamente legate al contenuto di CO2 nei combustibili fossili; Emissions Trading Systems (ETS), nei quali le imprese devono acquistare un “permesso” per ogni tonnellata di CO2 emessa, rimanendo entro una certa soglia per non ricevere sanzioni. Nel sistema europeo i permessi sono acquistati dagli Stati membri tramite asta, con una parte assegnata gratuitamente, o dalle imprese che ne hanno in eccesso. I Paesi Bassi hanno introdotto una carbon tax, crescente nel tempo, sui settori dell'energia elettrica e dell'industria: da 30 euro/tCO2 nel 2021 a 125 euro nel 2030. Ricordiamo che raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi nel 2030, ossia contenere il riscaldamento globale a 1,5-2°C, richiederebbe oggi un Effective Carbon Rate (ECR, il prezzo complessivo per ogni tonnellata di CO2) di 60 euro. I paesi che tassano meno sono anche quelli che contribuiscono maggiormente alle emissioni globali: in particolare, la Cina (che raggiungerà il 38 per cento nel 2030), gli Stati Uniti, l’India e la Russia (Fig. 1). Un prezzo uniforme ridurrebbe il rischio che le imprese si trasferiscano in paesi con politiche ambientali meno rigorose (carbon leakage) e che questi rinuncino a introdurre nuove misure mentre beneficiano degli sforzi altrui (free riding).
-
Inflazione: una tassa implicita
Un BTP a 5 anni emesso ad aprile 2020 aveva un rendimento nominale dello 0,93 per cento; a quella data l’inflazione era zero, quindi il risparmiatore poteva ragionevolmente attendersi un rendimento reale non troppo diverso da quello nominale. Tuttavia, nell’ipotesi (di scuola) che l’inflazione si stabilizzi al 3 per cento – ovvero il valore raggiunto a ottobre scorso – il rendimento reale diventa negativo e pari a -1,6 per cento. Nella prima si assume che l’inflazione rimanga al livello rilevato al momento dell’acquisto del titolo; nella seconda si considera l’inflazione effettiva fino a ottobre scorso e si ipotizza che essa rimanga allo stesso livello (3 per cento) per i successivi mesi fino alla scadenza del titolo (Fig. 1). Per quantificare la tassa implicita di inflazione e valutarne l’incidenza sul rendimento percepito dal risparmiatore, sono state calcolate tre diverse tipologie di rendimenti reali: Rendimento reale calcolato come differenza tra rendimento nominale del titolo e inflazione effettiva nei dodici mesi terminanti alla data di emissione del titolo. Tuttavia, considerando previsioni di inflazione al 3 per cento, il risparmiatore avrà un rendimento reale minore di zero e pari a -1,61 per cento, ovvero la differenza fra il rendimento nominale (0,93 per cento) e l’inflazione media del periodo (2,54 per cento). Un modo per comprendere come avviene il trasferimento di risorse allo Stato è il seguente: i 100 euro che rappresentano il valore di rimborso del titolo, alla data di scadenza varranno solo 87,8 euro in termini di potere d’acquisto (si veda Appendice). Contrariamente al caso precedente, il rendimento calcolato con aspettative statiche sottostima il rendimento reale, poiché l’inflazione al momento dell’emissione era 1,91 per cento, leggermente superiore a quella ipotizzata lungo l’arco di vita del titolo (1,10 per cento).
-
La posizione del G7 sull’imposta minima globale
Sebbene questo accordo sia importante, restano molti ostacoli per la sua effettiva implementazione: l’approvazione del G20, la ratifica dei parlamenti nazionali e l’uniformazione della definizione delle basi imponibili sono passaggi obbligatori, che potrebbero richiedere svariati anni. Il G7 dei ministri delle Finanze, tenutosi a Londra il 4 e 5 giugno, ha raggiunto un importante accordo per quanto riguarda l’imposizione della tassazione globale minima e sull’allocazione della potestà impositiva. Lo scorso aprile l’amministrazione Biden, tramite il segretario del Tesoro Yellen, aveva diffuso una proposta che prevedeva l’aumento delle imposte per le multinazionali statunitensi sui profitti esteri dal 10,5 al 21 percento, e incoraggiava i paesi OCSE a adottare un’identica aliquota minima sui profitti [1] . Su quest’ultimo punto vanno registrate due principali novità rispetto alla proposta elaborata ad aprile da Janet Yellen: La riduzione dell’aliquota minima globale proposta, che cala dal 21 al 15 percento. In termini più generali, l’eventuale approvazione prevede un iter particolarmente lungo: assumendo un esito positivo dalle negoziazioni dei ministri dell’Economia del G20 di luglio, una misura del genere dovrebbe poi essere convertita dai singoli parlamenti nazionali. A tal proposito, proprio gli Stati Uniti potrebbero avere delle grosse difficoltà ad approvare l’imposta globale minima, in quanto per superare il probabile filibustering che una tale proposta potrebbe sollevare sarebbe necessaria una maggioranza del 60 per cento al Senato, per la quale servirebbero voti del partito Repubblicano. I diritti speciali di prelievo rappresentano l’unità di conto del Fondo Monetario Internazionale, il cui valore è basato su un paniere di valute (attualmente Dollaro, Euro, Renminbi, Yen e Sterlina Inglese).
-
Le conseguenze dell’inflazione sul debito pubblico
Un’inflazione di 4 punti percentuali superiore rispetto alle attese ridurrebbe il rapporto tra debito pubblico e Pil di circa 16 punti in 5 anni (con un calo aggiuntivo molto limitato negli anni seguenti). Tuttavia, se la maggior inflazione portasse la Banca Centrale Europea (BCE) a interrompere gli acquisti di titoli di Stato italiani, o persino a non rinnovare quelli in scadenza, l’effetto sui tassi d’interesse potrebbe essere tale da invertire questo effetto sul rapporto debito-Pil. Inoltre, anche in assenza di questo problema, il rapporto deficit-Pil aumenterebbe per l’effetto della maggiore spesa per interessi, rendendo più difficile rispettare le regole europee del Patto di Stabilità e Crescita quando saranno reintrodotte. Quale sarebbe l’effetto di una maggiore inflazione sulla finanza pubblica italiana e sul debito pubblico in particolare? I due canali: crescita del Pil nominale e tassi d’interesse Per farsi un’idea conviene innanzitutto capire attraverso quali canali l’inflazione può modificare il livello e la dinamica del debito pubblico. Per quanto riguarda il primo, si tratta di un “effetto denominatore”: una maggiore inflazione incrementa il Pil nominale, che è il denominatore del rapporto debito-Pil. Di conseguenza, a fronte di uno shock inflattivo inatteso, il tasso d’interesse medio, anche assumendo che i titoli di nuova emissione riflettano il nuovo livello d’inflazione, non si adatta all’inflazione finché tutto il debito esistente non è stato rinnovato con l’emissione di nuovi titoli. In seguito, la dinamica del debito sarebbe parallela a quella dello scenario senza shock, mantenendo la differenza di 16 punti quasi costante, perché l’intero stock di debito pubblico sarebbe già stato rinnovato a un tasso d’interesse che incorpora la maggior inflazione.
-
L’impatto dei prezzi delle materie prime sul costo delle importazioni italiane
Considerando uno scenario in cui i prezzi restano al livello raggiunto all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, nel 2022 questa maggiore tassa ammonterebbe a circa 66 miliardi (3,5 per cento del Pil del 2022) rispetto al 2019. Inoltre, si è tenuto conto che il Pil reale italiano nel 2021 era ancora del 3 per cento al di sotto del livello del 2019, mentre nel 2022 è previsto essere leggermente al di sopra. Nello stesso anno il valore delle importazioni di petrolio (e prodotti derivati) è stato lievemente più alto (35,8 miliardi), recuperando il livello di due anni prima: questo perché il prezzo del petrolio al 2021 era ritornato ai livelli pre-pandemici (+62 per cento rispetto al 2020). Il secondo scenario considera un aumento più modesto che, in media nel 2022, porti i prezzi all’importazione a livelli più contenuti, pari alla media tra quelli dello scenario “prezzi conflitto” e quelli del giorno prima dello scoppio delle ostilità (scenario “prezzi medi”). Il costo totale delle importazioni delle merci considerate salirebbe ulteriormente da 84 miliardi nel 2021 a 135,2 miliardi nel 2022 nello scenario “prezzi conflitto” e a 125,9 miliardi nello scenario “prezzi medi”. Focalizzandoci sullo scenario “prezzi conflitto”, la spesa aggiuntiva per importazioni sarebbe di 66,4 miliardi rispetto al 2019 (3,5 per cento del Pil del 2022; Tav. 2, scenario “prezzi conflitto”). I 9 miliardi di euro “risparmiati” rispetto allo “scenario conflitto” sono quasi totalmente imputabili al diverso prezzo del gas naturale, le cui oscillazioni future avranno un ruolo cruciale nel determinare l’ammontare finale della tassa implicita che l’Italia pagherà al resto del mondo nel 2022.
-
Le passività sull’estero della Federazione Russa e i rischi per gli investitori occidentali
Con un PIL di circa 1.650 miliardi di dollari nel 2021, il totale del debito sovrano russo del governo si attesterebbe ora intorno ai 295 miliardi di dollari. La revisione più recente è del 17/03/2022 quando S&;P ha declassato il debito sovrano a lungo termine in valuta domestica ed estera della Russia a CC, a soli due gradini di distanza dal rating di default. I provvedimenti della CBR e le riserve ufficiali I rischi non derivano dall’ammontare del debito, ma dalla circostanza che la maggior parte il debito (sia pubblico che privato) è denominato in valuta estera. Per assolvere alle sue obbligazioni in valuta estera e sostenere il valore del rublo sui mercati, la Russia puntava a utilizzare i 630 miliardi di dollari di riserve di valuta estera internazionali che aveva a gennaio (643 miliardi a febbraio secondo il sito della CBR). Possibili conseguenze sui mercati Secondo molti economisti, fra cui la Managing Director dell’IMF Kristalina Georgieva, i rischi di una crisi finanziaria diffusa in caso di default russo sono molto bassi dato che, come si è visto, il totale del debito sui mercati internazionali è relativamente modesto. In conclusione, per valutare i rischi per il sistema finanziario occidentale occorre tenere presente che il debito pubblico della Russia è relativamente basso e che gli investitori internazionali hanno ridotto gli investimenti in Russia dopo la guerra di Crimea del 2014. Volendo cercare una motivazione economica di questa mossa, si deve considerare che essa obbliga gli importatori occidentali a vendere dollari (o euro) sul mercato per procurarsi rubli; questa operazione ha l’effetto di sostenere il corso del rublo che infatti si è apprezzato dopo l’annuncio.
-
L’andamento della spesa sanitaria per i paesi del G7 negli ultimi cinquant’anni
Questo è in buona parte spiegato dal fatto che il rapporto tra spesa sanitaria e Pil ha avuto un salto durante la crisi globale 2008-09, poiché la spesa sanitaria era stata mantenuta elevata nonostante il crollo del Pil. Nel 2019 il rapporto era vicino ai livelli tendenziali degli ultimi 50 anni. Poi il Covid ha colpito… * * * Durante gli anni Settanta il rapporto tra spesa sanitaria corrente (pubblica e privata) e Pil è cresciuto rapidamente: nella media (semplice) per i paesi del G7 (Fig. 1) è passato dal 5,5 per cento nel 1971 all’11,5 per cento nel 2019. Gli anni del boom L’aumento del rapporto è avvenuto a un passo relativamente stabile dal 1970 al 2007, diventando una delle due principali cause (insieme all’aumento della spesa pensionistica) della crescita del rapporto tra spesa primaria e Pil in questo periodo. I principali fattori che spiegano l’aumento della spesa sanitaria in quel periodo sono: [3] L’invecchiamento della popolazione: più anziani ci sono, più alta è la spesa sanitaria, perché la spesa pro-capite è più elevata per gli anziani che per il resto della popolazione. Il rapporto spesa sanitaria/Pil tra il 2008 e il 2019 Ha destato un certo interesse il fatto che tra il 2010 e il 2019 nella media dei G7 il rapporto tra spesa sanitaria e Pil è cresciuto solo modestamente. In realtà, la minor crescita del rapporto negli ultimi anni pre-Covid sembra essere in gran parte spiegata dal balzo che il rapporto aveva avuto nel 2008-09 quando la crescita della spesa sanitaria era stata largamente protetta dalla caduta del Pil (Fig. 2). L’effetto combinato di questi due fattori ha fatto sì che il rapporto tra spesa sanitaria e Pil sia passato dal 9,9 per cento nel 2007 all’11,1 per cento nel 2009, l’aumento più rapido osservato in un biennio negli ultimi cinquant’anni.
-
Come è cambiata la distribuzione del reddito in Italia dagli anni Ottanta?
A livello generale, le disuguaglianze di reddito sono cresciute dopo la crisi valutaria di inizio anni ’90, per poi stabilizzarsi prima della crisi finanziaria del 2008-09 e della crisi del debito sovrano del 2011-13. Inoltre, durante le due crisi, l’andamento è stato diverso per la popolazione lavorativa e non lavorativa: la distribuzione del reddito è diventata più diseguale per la popolazione lavorativa, mentre è rimasta stabile per le persone con più di 65 anni. I risultati sotto riportati guardano alla distribuzione del reddito complessivo (da lavoro dipendente, da lavoro autonomo, da capitale) e al netto delle tasse pagate al settore pubblico e dei trasferimenti da questo ricevuto (es. pensioni e assistenza sociale). In quel periodo, il reddito medio (sempre al netto di tasse e trasferimenti) scese del 5 per cento; tuttavia, le famiglie che occupavano il 20 per cento più alto della distribuzione non subirono perdite, mentre il reddito al primo quartile scese dell’11 per cento. Tale misura del reddito è al netto delle tasse ma non dei trasferimenti ed è tratta dalla Rilevazione delle forze di lavoro di Istat (secondo la metodologia di Carta, 2019). I dati OCSE consentono anche di misurare la capacità redistributiva dello Stato attraverso l’indice Reynolds-Smolensky (d’ora in poi indice di redistribuzione), dato dalla differenza tra l’indice di Gini calcolato sul reddito lordo (da lavoro e capitale) e quello sul reddito al netto di tasse e trasferimenti. Il vantaggio di utilizzare la Rilevazione delle forze di lavoro di Istat è di avere dati con maggiore frequenza (annuale) e minor ritardo (sei mesi circa), anche se solo relativi al reddito da lavoro.
-
Se non per i conti pubblici, almeno per l’ambiente (parte 2)
Il costo previsto di tutti i 180 sussidi era di circa 54 miliardi di euro (leggermente inferiori rispetto ai 55 miliardi del 2019) mentre quello per i 46 SAD con quantificazione finanziaria è stato di quasi 22 miliardi (Tav. 1). Quali settori beneficiano dei SAD? Nel 2020, la maggior parte dei SAD erogati, sia in termini di numero (36 su 61) che di costo (11,6 su 21,6 miliardi), ha riguardato il settore energetico (Tav.2). Questa agevolazione scoraggia un uso efficiente dell’energia; [3] l’assegnazione a titolo gratuito delle quote di emissione previste dall’Emission Trading System (il sistema europeo di permessi di emissione di gas serra), con una perdita di gettito di 1,4 miliardi. Queste quote sono totalmente gratuite per i settori più esposti a rischio di delocalizzazione per motivi di costi legati alle politiche climatiche (o rischio di “carbon leakage”) mentre solo parzialmente gratuite per i settori meno esposti (la quota gratuita è scesa dall’80 per cento nel 2013 al 30 per cento nel 2020). Nel 2022 i SAD salirebbero a 27,9 miliardi se i recenti sussidi si riducessero gradualmente dopo il primo trimestre e a 34,5 miliardi se proseguissero invariati (al netto della stagionalità dei consumi di gas ed elettricità) fino a dicembre (Fig. 2). Occorre aggiungere che il finanziamento di parte dei sussidi introdotti per il primo trimestre di quest’anno è stato finanziato per 1,5 miliardi con la tassazione sugli “extraprofitti” dei produttori di energia rinnovabile, cioè riducendo (in termini netti) i sussidi ambientalmente favorevoli. miliardi il 27 settembre 2021 con DL n. 130; 3,8 miliardi legge di Bilancio 2022 e 1,7 miliardi Decreto Sostegni Ter. [9] Le stime per il 2021 ipotizzano il dimezzamento dei SAD relativi all’EU-ETS (da 1,4 miliardi a 700 milioni).
-
Le imposte patrimoniali in Italia
Nel 2020 il gettito è stato di circa 40 miliardi (5,5 per cento delle entrate tributarie e 2,4 per cento del Pil). Il peso delle imposte patrimoniali sul gettito complessivo Nel 2020 il gettito delle imposte patrimoniali era di 40,1 miliardi di euro, su un gettito totale di 711 miliardi (in calo – a causa della recessione causata dovuta alla pandemia - rispetto ai 762 miliardi del 2019). Le altre imposte patrimoniali Il restante gettito (15,4 miliardi) deriva da varie imposte: La componente più corposa è costituita dalle imposte di bollo, con gettito di 7 miliardi nel 2020. L'imposta catastale (557 milioni di euro nel 2020), che va pagata in conseguenza di una voltura riguardante il passaggio di proprietà di un'immobile, pari all’uno per cento del valore dell’immobile. Un confronto con i principali paesi UE Il livello di tassazione patrimoniale in Italia, rispetto al totale delle entrate tributarie, è leggermente più alto di quello della media dell’Unione Europea (5,5 per cento contro 5,47 per cento), mentre è significativamente più alto del valore mediano dell’Unione (2,8 per cento). Vedi: https://ec.europa.eu/taxation_customs/document/download/a1e0bcbc-d57e-4e18-bee4-2bf71de69737_en ; Il gettito del 2020 è inferiore di oltre un miliardo rispetto a quello registrato nel 2018 e 2019: ciò è dovuto al fatto che, per fronteggiare l’emergenza COVID-19, il pagamento della TASI è stato sospeso per l’anno 2020. Per un focus tematico, vedi: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-la-proposta-francese-per-riformare-l-imposta-sull-eredita [7] Eurostat considera nel computo delle patrimoniali Italiane anche i proventi da locazione di immobili (cd. Cedolare secca, 3 miliardi di gettito nel 2020) e le imposte per l’adeguamento ai principi contabili IAS (426 milioni di gettino nel 2020).