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Carenza di medici di base in Italia: un confronto europeo e nazionale
Inoltre, esistono notevoli differenze tra regioni: in quelle del Nord i medici di base hanno un carico di assistiti più elevato di quelle del Sud. Guardando in avanti, il numero di medici di base che andrà in pensione nei prossimi 7 anni eccede quello in entrata: pur considerando ulteriori 900 borse annuali per la formazione dei medici di medicina generale, dovremmo perdere tra i 9.200 e 12.400 medici di base dal 2022 al 2028. Contesto europeo Con 1.408 abitanti per medico di base nel 2019, l’Italia si attesta leggermente al di sotto della media europea (1.430), la quale però è influenzata negativamente da un alto valore di questo indice nei paesi dell’Est Europa. Il deficit di medici di base al Nord ha portato a richieste di maggior finanziamento per borse di studio per completare il percorso formativo dei medici di base e di anticipare la fine del corso di formazione per la specializzazione in medicina generale. Il dato differisce dal rapporto tra popolazione e numero di medici di base riportato nella sezione precedente perché i bambini residenti sono assistiti da pediatri e non dai medici di base e perché alcuni residenti potrebbero non aver scelto un medico di base. La stima del numero di nuovi medici di base ogni anno è ottenuta, ad esempio per il 2020, dalla moltiplicazione dei nati nel 1994 (che entreranno quindi nella professione medica nel 2020) per 0,14 per cento (il rapporto costante tra nuovi medici di base e nuovi nati). La stima del numero di medici di base in uscita è ottenuta dalla moltiplicazione, ad esempio sempre per il 2020, dalla moltiplicazione dei nati ne 1952 (che andranno in pensione all’età di 68 anni nel 2020) per 0,14 per cento Fonte dati: Ista, Miur, ALMALAUREA Un articolo di Luca Favero Download SCARICA IL PDF.
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Quanti sono i soldi per la sanità?
Il finanziamento per il Fondo sanitario nazionale standard Con la pubblicazione del Documento programmatico di bilancio e della legge di bilancio arrivano, puntuali, le prese di posizione sulla sanità, una materia che continua a essere politicamente rilevante. Siccome è politicamente rilevante, non sorprende che sull’argomento i politici continuino a litigare, sfruttando anche la grande confusione che si può fare con i numeri, tra finanziamento e spesa, tra allocazioni del Documento programmatico di bilancio e della legge di bilancio. La figura 1 rende chiaramente visibile il meccanismo di “accumulo” dei finanziamenti da un anno all’altro: la legge di bilancio per il 2024 aveva assegnato 136,4 miliardi di euro al Fondo del 2025, che rispetto ai 134,9 complessivi per il 2024 significa 1,5 miliardi in più. Lo stanziamento della legge di bilancio presentata dal governo per il 2025 è di 1,3 miliardi (più alto rispetto ai circa 900 milioni di euro che erano circolati nei giorni scorsi, calcolandoli sul Documento programmatico di bilancio), che porterebbero il totale a 137,7 miliardi di euro. Per avere contezza delle cifre, basti pensare che il finanziamento nel 2019, l’anno precedente il Covid, è stato di 114,4 miliardi di euro; la differenza con il 2024 è di 20 miliardi. Ristrutturare la rete dei servizi Il vero problema è però un altro e continua a rimanere inevaso nel dibattito politico, a destra come a sinistra: come spendiamo i 137,7 miliardi di euro del Fondo sanitario, che – almeno sulla carta – dovrebbero garantire i livelli essenziali di assistenza in tutte le regioni. Qualcuno ci sta pensando, sta valutando i reparti in base ai bacini di utenza come stabilito dal decreto? È da qui che si dovrebbe poi partire per una programmazione seria del personale e per tutte le scelte legate ai contratti e alla remunerazione di medici e di infermieri.
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La spesa italiana per la difesa: quanto lontani siamo dal requisito del 2% del Pil
Il disegno di legge di Bilancio per il 2025 prevede un aumento degli stanziamenti, ma l’Italia rimane lontana dall’obiettivo, con una spesa che è prevista salire dall’1,5% del Pil nel 2024 (con un divario rispetto al requisito di 11,2 miliardi) all’1,6% nel 2025-2027 (con un divario medio di 9,6 miliardi). Il disegno di legge di Bilancio 2025, in discussione in Parlamento, ha previsto un aumento degli stanziamenti per le spese di difesa, con l’obiettivo di avvicinarsi al requisito NATO di destinare il 2% del Pil a tali spese entro il 2028. Per arrivare alla definizione utilizzata dalla NATO per verificare il raggiungimento del sopracitato obiettivo del 2% del Pil, occorre da un lato sottrarre al bilancio del Ministero della Difesa le spese non relative alla funzione difesa e dall’altro aggiungere le spese per la difesa incluse nel bilancio di altri ministeri. La spesa per la difesa nella definizione NATO nel 2024 La spesa per la difesa dell’Italia nella definizione e nelle previsioni NATO è pari a 32 miliardi di euro nel 2024, ossia l’1,5% del Pil, ben al di sotto del requisito del 2%, nonostante l’aumento rispetto a dieci anni fa (Fig. 1). Le previsioni effettuate dal Ministero della Difesa nel Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa 2024-2026 pubblicato nel giugno scorso indicava che, in assenza di interventi, la spesa nella definizione NATO sarebbe scesa leggermente, arrivando all’1,44% nel 2025 e 2026. La spesa NATO alla luce del disegno di legge di Bilancio 2025 Il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha indicato che per effetto della Legge di Bilancio la spesa NATO salirebbe all’1,54% del Pil nel 2024, all’1,57% nel 2025, all’1,58% nel 2026 e all’1,61% nel 2027. Per il 2025 gli stanziamenti salgono, rispetto alla precedente Legge di Bilancio, da 28,9 miliardi a 31,3 miliardi (+2,4 miliardi); quelle per il 2026 salgono da 28,7 miliardi a 31,2 miliardi (+2,5 miliardi).
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Le spese fiscali continuano ad aumentare
Più di metà delle spese fiscali costa meno di 7 milioni di euro, a riprova del fatto che esiste un numero enorme di micro-interventi destinati a categorie ristrette. Questo utilizzo delle spese fiscali (1) causa una perdita di gettito prolungata nel tempo; (2) crea distorsioni e costi a carico dei contribuenti; (3) pro-capite, beneficia maggiormente i contribuenti più ricchi. Anche prima del Covid erano state presentate diverse proposte di riforma del fisco, spesso accomunate dall’intenzione di rimodulare alcune aliquote riducendo le spese fiscali (tax expenditures), cioè la lunga lista di deduzioni, detrazioni e regimi opzionali. Inoltre l’anno scorso, nonostante nel Rapporto programmatico in materia di spese fiscali il Governo dichiarasse “necessario procedere alla riduzione, semplificazione e riordino delle spese fiscali”, diversi ristori anti-crisi sono stati concepiti ed erogati sotto forma di spese fiscali, sia grandi (Superbonus 110%) sia piccole (bonus acqua potabile). Per queste ragioni la mediana del costo delle spese fiscali censite a fine 2020 è meno di 7 milioni di euro, a conferma del fatto che esiste un numero enorme di spese fiscali di minimo importo (Fig. 2). I problemi causati da questo utilizzo delle spese fiscali sono molteplici: L’effetto sui conti pubblici: a parte l’ovvia perdita di gettito, esiste anche un problema particolare per i crediti di imposta, che costituivano 66 delle 602 spese fiscali censite a fine 2020. Dato che è inverosimile che un contribuente che dichiara meno di 20 mila euro all’anno (categoria a cui appartiene il 58 per cento dei soggetti Irpef) sostenga spese ingenti in questo ambito, saranno i contribuenti i più ricchi a beneficiarne di più.
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Sanità pubblica tra problemi e narrazioni
I risultati mettono in luce come una quota rilevante di cittadini abbia una percezione scorretta di quello che è successo nel SSN negli ultimi vent’anni. Non è un caso che, se ci confrontiamo con altri Paesi europei, è sì vero che spendiamo meno di Germania e Francia, ma continuiamo a spendere un pochino di più della Spagna (largamente simile al nostro sistema) e certamente molto di più della Grecia. È interessante notare che a pensarla così sono soprattutto i più istruiti, forse perché il dibattito pubblico è stato fortemente distorto da una narrativa che ha spinto nella direzione dei “tagli” e della “macelleria sociale”. Questa interpretazione sembra essere confermata anche dai risultati sul confronto europeo: un italiano su due pensa che il nostro Paese spenda meno o addirittura molto meno della media europea, probabilmente accomunando l’Italia alla Grecia, Paese nel quale la spesa pubblica pro capite è la metà di quella italiana. Ma mentre i posti letto sono stati tagliati e (alcuni) piccoli ospedali sono stati chiusi, si è fatto poco sul fronte dello sviluppo dei servizi territoriali (e di qui, chiaramente, tutta l’enfasi del Piano nazionale di ripresa e resilienza per una riforma della sanità territoriale). Queste le percezioni, mentre i numeri sottolineano come, pur con differenze regionali, il pubblico sia largamente maggioritario sul fronte delle cure ospedaliere e il privato più attivo solo sul fronte dei servizi territoriali (in particolare per i servizi che avvicinano sanità e assistenza sociale). Una seconda questione è il tema dell’ospedale e del territorio: abbiamo chiesto agli intervistati se la tutela della salute debba coinvolgere maggiormente l’ospedale (che deve diventare un hub per la fornitura dei servizi) oppure debba coinvolgere maggiormente i medici di medicina generale (che devono diventare dipendenti del SSN).
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L’evoluzione dei finanziamenti alla sanità in Italia
Dopo una fase di rapida crescita, il trend si è interrotto a seguito delle due recessioni (crisi finanziaria del 2008 e crisi del debito sovrano europeo del 2010-2011). I partiti di governo hanno sempre ribattuto a questa accusa sostenendo che l’attuale governo è quello che ha messo più soldi nella storia d’Italia sulla sanità, arrivando a 134 miliardi di euro per il 2024. Si riscontrano sostanzialmente tre fasi distinte: una prima fase che dura fino all’innesco della crisi finanziaria del 2008-2009, una seconda fase che segue fino alla crisi del Covid ed una terza caratterizzata dalla pandemia. La prima è una fase di forte espansione del finanziamento, che passa in termini nominali da 66 miliardi nel 2000 a 97 miliardi nel 2009 (cioè, dal 5,5 al 6,8 in percentuale del Pil). Ma con l’avvento della pandemia si registra un aumento ben più consistente del finanziamento in corso d’anno: il finanziamento cresce di circa 6 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, che consente di raggiungere il 7,3 per cento del Pil (anche per la consistente riduzione dell’attività economica). Quando si torna a tempi normali, fuori dall’emergenza anche per l’economia, il finanziamento riprende i trend precedenti: in termini nominali si arriva nel 2023 a 129 miliardi di euro, il 6,2 per cento del Pil; per il 2024, si arriverebbe ad un finanziamento tra i 134 e i 135 miliardi di euro. Se le stime Def sull’inflazione (1,2 per cento) e sulla crescita reale del Pil (1 per cento) si rivelassero corrette, rispetto al 2023 si osserverebbe un finanziamento costante in percentuale del Pil (6,2 per cento) e una modesta crescita in termini reali (2,6 per cento) dopo tre anni di riduzione.
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Dati e divergenze: il confronto regionale nei servizi pubblici
Già ora le differenze regionali nei servizi sono evidenti, con il Nord che ottiene risultati migliori rispetto al Sud in quasi tutti gli indicatori considerati (LEA per sanità, posti-km per il trasporto pubblico locale, Invalsi per istruzione e posti asili nido). L’analisi dei servizi gestiti da diversi livelli di governo mostra inoltre una correlazione positiva tra reddito, capitale sociale e qualità dei servizi. L’esistenza di diseguaglianze tra diverse aree del Paese emerge chiaramente anche dalle opinioni dei cittadini raccolte attraverso una indagine recente condotta dall’Istituto Demopolis per la “Fondazione con il Sud”. A livello regionale, l’analisi si concentra sulla sanità e le diseguaglianze verranno misurate sul punteggio ottenuto nei monitoraggi dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), un indicatore chiave per valutare la qualità e l’efficacia dei servizi sanitari offerti nelle diverse Regioni. e 4 vengono mostrati i punteggi LEA, ovvero i punteggi ottenuti dalle amministrazioni regionali nel monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza, che sono tutte le prestazioni e i servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini. Le Regioni del Nord, generalmente più ricche e con un capitale sociale più sviluppato, sono infatti quelle che presentano un tasso di copertura dei posti asili nido più ampio rispetto alle Regioni del Sud, dove tali indicatori sono inferiori. Infine, anche in ambito di competenze locali, come i servizi degli asili-nido e del trasporto pubblico locale, le Regioni del Sud incontrano notevoli difficoltà nel raggiungere i livelli di servizio delle Regioni del Centro-Nord.
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Il merito nella PA: la riforma funzionerà?
Un disegno di legge (ddl) approvato il 13 marzo dal Consiglio dei Ministri mira a migliorare il sistema di valutazione dei dipendenti pubblici e le procedure di avanzamento di carriera nella Pubblica Amministrazione (PA). Il primo è un piano programmatico, che definisce obiettivi e indicatori di misurazione della performance, sia generali che per i singoli dirigenti; il secondo è una relazione di fine anno che confronta i risultati, organizzativi e individuali, con gli obiettivi. La relazione finale viene validata dall’“Organismo Indipendente di Valutazione” (OIV) di ogni Amministrazione, che deve verificare “il funzionamento complessivo del sistema della valutazione” e la “trasparenza e integrità dei controlli interni”, elaborando anche una relazione annuale a riguardo. Il problema finora è stato che gli obiettivi sono determinati da chi deve raggiungerli (i dirigenti) e da chi sceglie i componenti degli OIV (l’organo di indirizzo). La conseguenza è che gli obiettivi sono spesso poco ambiziosi e, secondo la Corte dei Conti, autoreferenziali, e gli indicatori di performance ai quali sono collegate le valutazioni sono spesso vaghi e riferiti più alle risorse utilizzate che al risultato. La Corte dei Conti, data la scarsa qualità della valutazione, ha raccomandato al Governo di verificare competenza, esperienza e integrità dei membri degli OIV e di coinvolgere adeguatamente utenti esterni alla PA, attualmente esclusi. La misurazione e la valutazione della performance dei dipendenti non dirigenti è definita dalle linee guida n.5/2019 ; queste indicano che di solito la valutazione del personale viene effettuata da parte del superiore, suggerendo di aggiungere anche procedure alternative come la valutazione dal basso, tra pari o da soggetti esterni.
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La crescita economica del Portogallo dopo il 2013
Quelle sul lavoro e sull’istruzione/formazione sono state implementate in pieno, e negli anni seguenti l’occupazione è cresciuta molto, con un maggiore aumento dei contratti a tempo indeterminato rispetto a quelli temporanei. Le riforme su concorrenza e burocrazia sono state implementate in modo meno efficace, anche se è migliorato il contesto in cui operano le imprese, compresa l’interazione tra queste e la pubblica amministrazione, e si sono ridotti i tempi della giustizia. Le riforme Come riportano la Commissione Europea nel suo rapporto di valutazione ex-post del programma e uno studio del FMI a riguardo, i problemi del Portogallo non erano limitati a pochi settori, ma riguardavano l’intera economia. Le riforme effettuate sul mercato del lavoro sono: Disincentivazione dei contratti temporanei: l’alta buonuscita prevista dai contratti a tempo indeterminato e i vincoli ai licenziamenti rendevano i contratti temporanei (la cui regolamentazione era semplificata) più convenienti per le imprese. Secondo uno studio accademico, il mark-up (la differenza tra prezzo di vendita e costo di produzione) delle imprese in 190 mercati è rimasto globalmente stabile dal 2012 al 2016, diminuendo solo in alcuni settori, come turismo ed edilizia, dove la concorrenza è aumentata. Gli oneri amministrativi sulle imprese sono leggermente maggiori rispetto alla media dell’Eurozona, mentre la performance è particolarmente debole nella valutazione degli effetti sulla concorrenza delle nuove norme e nella trasparenza del processo normativo, in termini di regole su lobbying e conflitti di interesse. Sul lato dell’offerta, il principale motore della crescita è stato l’aumento dell’occupazione, visto che la produttività del lavoro è cresciuta poco: dal 2013, il Pil per ora lavorata è cresciuto dello 0,4% annuo (0,5% nell’area Euro), attestandosi al 71% della media dell’Eurozona, circa lo stesso livello del 2000.
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La Cassa Integrazione Guadagni: numeri e riforma
La presente nota illustra le principali caratteristiche degli strumenti di integrazione salariale, analizzando i numeri prima e durante la pandemia, effettuando un confronto con alcuni paesi europei e illustrando quelli che sembrano essere i punti chiave della riforma. Lo scopo della Cassa Integrazione Guadagni (CIG) dovrebbe essere quello di garantire un reddito dignitoso ai lavoratori in presenza di difficoltà temporanee dell’impresa, preservando il rapporto di lavoro. Questa si rivolge ai lavoratori delle aziende industriali ed edili e “sostituisce la retribuzione dei lavoratori a cui è stata sospesa o ridotta l'attività lavorativa per situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all'impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali e per situazioni temporanee di mercato”. La CIGO è autorizzata con pagamento a conguaglio del datore di lavoro a chi ha un contratto di lavoro subordinato e anzianità minima di 90 giorni in azienda. L’importo integrato è pari all’80 per cento della retribuzione per le ore lavorative non prestate, con massimali pari a 998,18 e 1.199,72 euro (importi lordi, rispettivamente relativi a quando la retribuzione mensile è pari o inferiore a 2.159,48 euro, o superiore a tale ammontare). La CIG Straordinaria (CIGS) è attivabile in presenza di crisi aziendali (durata massima di 12 mesi), ristrutturazioni o contratti di solidarietà (durata massima di 24 mesi). L’obiettivo è quello di assicurare che i dipendenti possano migliorare le proprie competenze ed essere quindi potenzialmente impiegabili in altre aziende, pur in costanza di rapporto di lavoro con l’impresa.
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Il treno (non) ha fischiato: viaggio in una Sicilia a 26 km/h
In questa nota troviamo che la velocità effettiva per le tratte ferroviarie tra i capoluoghi di provincia siciliani è di 26-28 km/h a seconda dell’orario di partenza, quasi il 40 per cento in meno della velocità effettiva in Piemonte e Toscana (usate come regioni di confronto). Per lo sviluppo di un’area, anche la rete di trasporti locali è però importante, e lo stato della rete ferroviaria locale in Sicilia è molto debole. Per misurare questa debolezza rispetto alle altre regioni d’Italia questa nota calcola quella che definiamo “velocità di percorrenza effettiva” (VPE), ottenuta come rapporto tra il tempo necessario per raggiungere la destinazione e la distanza spaziale tra i capoluoghi di provincia della Sicilia, della Toscana e del Piemonte. Riguardo alla durata, per le fasce orarie di cui sopra, abbiamo considerato la media della durata di viaggio di ogni treno che connette due capoluoghi di provincia partendo nella fascia indicata, così come riportate sul sito di Trenitalia. Come si è detto, la rete siciliana è di 1.370 km, ossia 53 metri di ferrovia per chilometro quadrato di territorio, contro 64 e 75 metri per chilometro quadrato di territorio rispettivamente per Toscana e Piemonte. La Tav. 2 mostra che il numero medio di treni per viaggiare verso i capoluoghi di interesse nella fascia oraria dalle 8:00 alle 9:00 è inferiore a 1 per la Sicilia, contro valori di 1,3 in Piemonte e 2,7 in Toscana. Infatti, il proposito che nel piano commerciale di Ferrovie dello Stato si avvicina di più a una tratta veloce, da realizzare in data da destinarsi e comunque non prima del 2027, è una riduzione di 60 minuti dei tempi di percorrenza tra Palermo e Catania.
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Crescita del Pil, l’Italia batte l’Eurozona?
Il vero problema è la Germania, che probabilmente ha risentito più degli altri delle tensioni geopolitiche manifestatesi nel 2022, data la sua straordinaria apertura al commercio e agli investimenti internazionali e la sua forte interrelazione sia con la Russia che con la Cina. I dati della crescita del 2022 rispetto al 2019 mostrano una distanza rispetto alla media dell’Eurozona di oltre un punto percentuale, che si accorcia se si considerano i dati trimestrali più recenti. Pil ed export italiani danno segnali incoraggianti I dati più recenti sull’andamento del Pil italiano sono positivi e tali da indurre molti analisti a sottolineare che l’Italia va meglio degli altri Paesi dell’Eurozona, come a indicare che gli storici problemi strutturali sono stati superati. Come si vede dalla Tav. 1, nel periodo compreso tra il 2019 e il 2022, il Pil dell’Italia è aumentato cumulativamente dell’1 per cento, a fronte di valori più bassi per Francia (0,8 per cento), Germania (0,6 per cento) e Spagna (-1,3 per cento). Nonostante si tratti di Paesi molto più piccoli, i loro tassi di crescita si sono attestati a livelli talmente elevati da consentire una crescita media dell’Eurozona (in cui i quattro maggiori Paesi contano per circa il 75 per cento) del 2,4 per cento. Anche escludendo l’Irlanda, i cui dati sono gonfiati dai profitti delle multinazionali che le hanno consentito di mettere a segno un incredibile +35,1 per cento, il tasso di crescita medio (non ponderato) dei Paesi piccoli è del 5,7 per cento, ben superiore all’1 per cento dell’Italia. Cresce però meno di molti altri Paesi, compresa la Spagna (+3,8) che, pur essendo il Paese che più ha sofferto per le conseguenze economiche del Covid, è attualmente uno dei Paesi più dinamici e sembra avviarsi a superare tutti gli altri grandi Paesi dell’Eurozona.
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Cos’è e come funziona lo scudo anti-spread della BCE
Si tratta di un programma di acquisto di titoli, di importo potenzialmente illimitato, destinato a Paesi che, pur essendo in linea con le regole o raccomandazioni europee, fronteggino un aumento dello spread ingiustificato da fattori economici. La BCE si è riservata una certa discrezionalità sulle condizioni di utilizzo, peraltro descritte semplicemente da un comunicato stampa senza che esistano altri documenti interni che ne fissino le caratteristiche specifiche. Nel Piano Strutturale di Bilancio a Medio Termine dell’Italia, recentemente approvato dalla Commissione europea, il rapporto debito pubblico/Pil sale dal 134,8% a fine 2023 al 137,8% nel 2026, per poi iniziare una lenta discesa: nel 2031 (l’anno finale del “periodo di aggiustamento” del deficit) saremmo ancora al 132,5%. Il TPI Quando la BCE iniziò ad alzare i tassi di interesse, a metà del 2022, si temeva che l’effetto potesse essere più forte per i Paesi ad alto debito e alto spread che per gli altri, col rischio di innescare una crisi finanziaria. Mentre l’obiettivo delle OMT è quello di sostenere uno Stato in difficoltà che sta subendo attacchi dai mercati a causa di errori di policy, il TPI vuole correggere gli attacchi speculativi ingiustificati da fattori fondamentali. La BCE si è però riservata una certa discrezionalità nel valutare come questi criteri debbano pesare nel decidere se un Paese è idoneo al TPI. Verrà adottata discrezionalità anche nel valutare se l’attivazione del TPI sia coerente con il raggiungimento dell’obiettivo primario della BCE, ossia il controllo dell’inflazione. La decisione di attivare il TPI sarà basata su una valutazione approfondita degli indicatori di mercato e di trasmissione, una valutazione dei criteri di ammissibilità e un giudizio sulla proporzionalità dell’attivazione degli acquisti nell’ambito del TPI rispetto al raggiungimento dell’obiettivo primario della BCE ”.
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Il personale socio-sanitario: un confronto europeo
Considerando solo l’UE-27, nel 2019 gli infermieri (4,4 milioni) sono risultati in media più numerosi dei medici (1,7 milioni), con un rapporto intorno a 3:1; per l’Italia, il rapporto diventa 2:1, segnalando una prevalenza relativa di medici rispetto agli infermieri. Inoltre, l’Italia presenta una quota di medici specialisti maggiore della media europea (78 per cento rispetto al 68 per cento) e una di medici di base inferiore (22 per cento rispetto al 26 per cento). Per quanto riguarda i livelli stipendiali, in rapporto al Pil pro-capite lo stipendio dei medici specialisti italiani è relativamente più alto della media europea, mentre lo stipendio degli infermieri è marginalmente più basso della media europea. Considerando solo l’UE-27, nel 2019 il numero di infermieri (4,4 milioni) è risultato non sorprendentemente (vista anche l’attività di assistenza nel settore dei servizi sociali) più numeroso di quello dei medici (1,7 milioni), con un rapporto di 3 infermieri per ogni medico. In tutti i paesi dell’UE per i quali Eurostat dispone di dati comparabili, ad eccezione dell’Irlanda, ci sono molti più medici specialisti (media EU-20: 68 per cento sul totale della categoria dei medici) che medici di base (26 per cento), seguiti da una categoria residuale ‘’altri medici’’ (6 per cento) (Fig.5). Di contro, l’Irlanda ha la quota maggiore di generalisti in percentuale al totale dei medici (55 per cento, contro una media europea del 26 per cento), seguita da Paesi Bassi (46 per cento), Francia (44 per cento) e Belgio (37 per cento); l’Italia si colloca fra le ultime posizioni (22 per cento). In base ai dati OCSE, nel 2020 lo stipendio medio lordo annuo di un infermiere impiegato negli ospedali a parità di potere d’acquisto in Italia è di 38.379 dollari mentre quello di un medico specialista di 110.348 dollari, un rapporto di 1:3 (Fig.6).
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La spesa pubblica per la natalità resta bassa
Nonostante l’introduzione di nuove misure, come il “bonus bebè” e la decontribuzione per madri lavoratrici, il rapporto tra spesa per la natalità e Pil dovrebbe rimanere stabile fino al 2027, su un livello inferiore rispetto ai principali Paesi europei. L’impatto della spesa sulla natalità è incerto, ma la letteratura economica suggerisce che i trasferimenti monetari (attualmente oltre il 90% della spesa) siano meno efficaci delle misure per conciliare la vita familiare e professionale, come i congedi parentali e gli asili nido. Quanto spendiamo a questo fine? La spesa pubblica per la famiglia Il concetto di “spesa per la natalità” non è precisamente definito, ma i dati Eurostat sulla spesa pubblica per la famiglia sono un buon punto di partenza. Negli ultimi trent’anni la spesa per le famiglie in Italia è aumentata rispetto al Pil (Fig. 2), da 0,74 punti nel 1995 a 1,25 punti nel 2021 (22 miliardi di euro, contro i 10 del 1995, al netto dell’inflazione). Le misure per la natalità dal 2022 Per focalizzarci specificatamente sulle spese per la natalità negli ultimi anni, abbiamo considerato la somma di cinque voci: L’ Assegno Unico Universale (AUU) è la principale misura con 19,8 miliardi spesi nel 2024 (Tav.1). Tenendo conto della Legge di Bilancio per il 2025, la spesa per la natalità aumenterebbe leggermente in valore assoluto al netto dell’inflazione nel 2025-27, rimanendo invece pressoché costante in percentuale al Pil, comunque sopra al livello del 2023 di 0,1 punti (+2,5 mld a prezzi costanti). Le misure esistenti sono efficaci? Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), l’AUU è una misura progressiva che ha aumentato i benefici per circa tre quarti delle famiglie, con un impatto maggiore sui redditi più bassi, risultando efficace dal punto di vista redistributivo.
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Sanità a confronto: l’efficienza dei sistemi sanitari OCSE
Il rapporto ha due obiettivi: (i) identificare gruppi di Paesi con sistemi sanitari simili e (ii) valutarne le performance, allo scopo di individuare legami tra le caratteristiche dei sistemi e il loro grado di efficienza. In questi casi, i sistemi vengono classificati in gruppi ( cluster ) in modo che gli elementi di ciascun gruppo siano “simili” tra loro e sufficientemente diversi rispetto a quelli di altri gruppi, allo scopo di valutare quale gruppo performa meglio. Possiamo dire che l’esercizio OCSE si concentra sul grado di libertà riconosciuto ai pazienti in merito alla scelta della copertura di base, dei fornitori di servizi, dell’accesso alle cure specialistiche e ospedaliere, nonché delle eventuali coperture assicurative in aggiunta a quella pubblica di base. Il tasso di mortalità standardizzato per età è definito come la media ponderata dei tassi di mortalità specifici per età, dove i pesi sono le proporzioni dei gruppi di età in una popolazione standard, e permette quindi di confrontare la mortalità di Paesi con strutture demografiche diverse. Sebbene non si individui un sistema migliore, quello meno efficiente sembra essere il gruppo dei Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), caratterizzato da un mix tra fornitura pubblica e privata, un unico assicuratore che fornisce la copertura di base e ampia scelta dei fornitori di servizi. In quel caso, l’Italia si collocava al settimo posto tra i Paesi OCSE, con un punteggio pari a 1,6 anni di guadagno potenziale nell’aspettativa di vita, a fronte di una media OCSE di 2,3 anni. Tra il 2010 e il 2019, sono infatti diminuiti sia la spesa sanitaria in percentuale al Pil che il tasso di mortalità (Tav. 4), condizioni che implicano un aumento di efficienza perché si riducono le risorse consumate (gli “input”) mentre migliorano i risultati di salute (gli “outcome”).
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Da dove verranno i nuovi posti di lavoro: dal pubblico o dal privato?
febbraio 2023 Intermedio Una recente frase di Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, ha ravvivato uno storico dibattito sui meriti relativi dello Stato e del privato nel generare ricchezza e posti di lavoro. Di seguito si mostra che, se nei prossimi anni vi sarà creazione di posti di lavoro, questa deriverà quasi certamente dal settore privato. Un certo scetticismo sulla capacità del sistema economico di creare “spontaneamente” occupazione e soprattutto posti di lavoro di qualità può essere giustificato dal fatto che tra il 2008 e il 2019 l’occupazione ha subito forti oscillazioni in funzione dei cicli dell’economici, ma non è aumentata. In questa nota non cerchiamo di dirimere la questione, dato che è pressoché impossibile dire se siano più importanti i posti di lavoro creati dallo Stato o dalle imprese. Infatti, se è vero che funzioni fondamentali e basilari come, la difesa, la sicurezza, l’istruzione, la ricerca e la sanità sono svolte prevalentemente dallo Stato, è altrettanto vero che il settore privato produce la gran parte dei beni e servizi di cui hanno bisogno i cittadini-consumatori. L’occupazione privata invece ha subito una perdita di quasi 1 milione di posti di lavoro fra il 2008 e il 2013, ed è aumentata a ritmi piuttosto sostenuti; tra il 2014 e il 2019 la crescita è stata del 5,4 per cento, corrispondente a circa il milione di posti di lavoro persi negli anni precedenti. Questa relazione è stata oggetto di moltissime contestazioni e perfezionamenti, ma nessuno ha mai messo in dubbio che solo la crescita economica è in grado di creare posti di lavoro.
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Come gestire la Pubblica Amministrazione? I Public Service Agreement britannici
Questo sistema, seppur nominalmente abolito nel 2010, è stato in parte mantenuto dai governi successivi e ha consentito di indirizzare maggiormente l’operato di ministri e dirigenti pubblici verso obiettivi concreti e coerenti con quelli del governo. I difetti principali dei PSA erano la mancanza di incentivi monetari per chi raggiungeva i risultati e la difficoltà da parte dei ministeri di allineare l’operato delle loro sotto-unità agli obiettivi generali indicati dal governo. Fin dalla loro nascita nel 1998, quando Tony Blair era Primo Ministro e Gordon Brown Cancelliere dello Scacchiere (ossia ministro del Tesoro), i PSA erano basati su “accordi” (per quanto informali) tra il ministero del Tesoro, che metteva a disposizione risorse, e i vari ministeri, che le ricevevano. Questi accordi informali contenevano una lista di risultati concreti e misurabili che i ministeri dovevano raggiungere entro un orizzonte temporale fissato, solitamente di medio periodo (da 2 a 4 anni, ma con obiettivi intermedi annuali). Di contro, a evolversi fu innanzitutto il numero di target (600 nel 1998, 160 nel 2000, 130 nel 2002, 110 nel 2004 e 30 nel 2007), che diminuì progressivamente per consentire maggior spazio di manovra a ministeri e sotto-unità nello stabilire come raggiungere obiettivi principali di più ampio respiro e sempre più spesso trasversali tra vari ministeri. Questo fenomeno potrebbe essere stato causato dalla necessità di adattare l’azione di ogni unità al contesto specifico, che è peraltro una delle critiche principali ai PSA. L’importanza ricoperta dai PSA nell’operato quotidiano del settore pubblico britannico trova riscontro anche nelle testimonianze degli stessi dirigenti pubblici. Inoltre, i PSA si sono costantemente evoluti grazie all’interesse dei politici all’apice del Partito Laburista e del governo britannico per la messa a punto di uno strumento di indirizzo e controllo dell’azione della PA, ritenuto fondamentale per dare credibilità e seguito ai progetti di riforma del New Labour.
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Le proposte del ddl Bilancio in materia di sanità
Le proposte per l’impiego dei fondi puntano a contenere il problema delle liste d’attesa e si concentrano sul rinnovo dei contratti del comparto sanitario, su altre misure a sostegno del personale sanitario e sull’imposizione di un tetto massimo al settore farmaceutico. Il ddl prevede infatti un incremento del finanziamento del Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard (FSNS) di 3 miliardi di euro per il 2024, 4 miliardi per il 2025 e 4,2 miliardi per il 2026. Il rifinanziamento del FSNS e i fondi addizionali per la Sicilia si aggiungono a quelli già stanziati dalla Legge di Bilancio per il 2023, che prevedono 2,3 miliardi per il 2024 e 2,6 miliardi sia per il 2025 che per il 2026. Ci sono quindi 5,6 miliardi di risorse aggiuntive per il 2024 per il SSN: il fondo per il 2024 arriva a una cifra compresa tra i 134 e i 135 miliardi, mentre la spesa programmata si attesta a 136 miliardi. L’evoluzione del finanziamento del SSN determinato in sede di legge di bilancio è presentata nella Fig. 1 a partire dal 2019, l’anno prima dell’inizio della pandemia, quando il FSNS valeva 114 miliardi di euro e il Ministro della Salute Roberto Speranza aveva appena ottenuto 2 miliardi di euro per il 2020. La quota di spesa sanitaria privata diretta sulla spesa complessiva, pur con qualche oscillazione, è rimasta sostanzialmente stabile in questo ultimo decennio e si è anzi ridotta negli anni post-Covid per l’incremento del finanziamento pubblico. Il disegno di legge, infatti, menziona solo la possibilità per le regioni e le province autonome di utilizzare per l’abbattimento delle liste d’attesa “una quota non superiore allo 0,4 per cento del livello di finanziamento indistinto del fabbisogno sanitario nazionale standard per l’anno 2024” (art.
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Come affrontare il problema del mismatch?
Infatti, il tasso di qualification mismatch complessivo per il mercato italiano è del 38,5 per cento contro il 39,9 per cento in Germania, il 41 per cento in Spagna e il 34,4 per cento della media OCSE. Questa over-qualification si registra nonostante il numero di individui che entrano nel mercato del lavoro con un titolo di studio terziario sia tra i più bassi nell’UE e tra i Paesi OCSE. Nel 2022, il numero di professionisti specializzati nel loro settore è molto più alto nei Paesi Bassi (36,7 per cento) che non in Italia, che registra un dato inferiore anche alla media dell’Eurozona (26,6 per cento). Si tratta dunque di un problema strutturale che ha radici molto profonde: i settori più rilevanti per l’economia nazionale non richiedono figure altamente specializzate né un maggior livello di investimenti in R&;S. Ciò comporta una bassa domanda di laureati e anche un’allocazione inefficiente di questo capitale umano. Fra i pochi che si iscrivono all’università, la percentuale di studenti che concludono il percorso di studi entro il termine teoricamente previsto del programma è solo il 21 per cento: il 19 per cento per gli uomini e il 22 per cento per le donne. In questo contesto, un’altra opzione – che punta a dare risposta alla richiesta di figure tecnico-professionali con competenze intermedie da parte delle imprese – è quella di riformare il sistema di istruzione del Paese. Nel sistema tedesco, infatti, questi istituti sono di livello paragonabile alle università o ai politecnici, ma permettono di formare individui con capacità specifiche che rispondono alle esigenze delle imprese compensando almeno in parte i problemi di over-qualification o under-qualification di cui si è detto.
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La partenza a rilento di Transizione 5.0
Questa nota lo confronta con strumenti più efficaci come gli ammortamenti di Industria 4.0 e i crediti d’imposta di Transizione 4.0. Il Super-ammortamento comportava una supervalutazione del 140% degli investimenti in beni strumentali (acquistati o in leasing) mentre l’Iper-ammortamento comportava una supervalutazione del 250% degli investimenti in strumenti e macchinari, dispostivi e tecnologie innovative (in base a una lista allegata alla legge). L’impresa potrà considerare come costo ogni anno il 20% dell’investimento, ovvero 20.000 euro per i successivi 5 anni, riducendo la propria imposizione ogni anno di 4.800 euro (pari all’aliquota IRES del 24% per 20.000 mila euro), per un totale di 24.000 euro. Con l’ Iper-ammortamento , il costo del macchinario viene aumentato del 150%, portando la quota annua deducibile a 50.000 euro, e una riduzione di imposta ogni anno di 12.000 euro, per un totale di 60.000 euro. In effetti (vedi la già citata audizione UPB), nonostante l’80% delle imprese beneficiarie di Industria 4.0 fosse costituito da micro e piccole imprese, il 73,7% dei fondi è andato a medie e grandi imprese. Con Transizione 4.0, lo squilibrio è diventato meno marcato: anche in questo caso, micro e piccole imprese hanno rappresentato una quota significativa (77,6%), ma la quota assorbita da medie e grandi imprese è scesa al 54,5%. Facendo lo stesso esempio fatto in precedenza, a fronte di un investimento di 100.000 euro il beneficio varia da 35.000 euro a 45.000 euro (con risparmi percentualmente minori per investimenti di maggiore entità).
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Programmi economici di PD e centrodestra: un confronto
È utile avvisare il lettore che: salvo rare eccezioni, i programmi non dicono nulla sui costi delle misure proposte; in genere le misure sono espresse in modo generico, per cui è molto difficile quantificare le spese; di conseguenza, non è presente il vincolo del bilancio pubblico. Politica estera Il ruolo internazionale svolto dall’Italia è un punto cruciale in entrambe le coalizioni, che rivendicano gli impegni assunti a) nell’Alleanza Atlantica, b) nel sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione Russa, c) nella piena adesione al processo di integrazione europea. In materia di rapporti con l’Europa, entrambi si propongono di intervenire nel negoziato che si sta aprendo sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita per rivedere le regole fiscali e la governance europea in maniera tale da poter attuare politiche maggiormente orientate alla crescita. Il centro-destra indica invece la via di “un'Unione Europea più politica e meno burocratica”, un’espressione che suggerisce che i poteri dei singoli stati membri debbano essere rafforzati, coerentemente con l’obiettivo di migliorare la “tutela degli interessi nazionali”. Ciò indica che sia PD che la coalizione di centrodestra condividono, almeno nelle grandi linee, i principali programmi di spesa (222 miliardi se si include anche il fondo complementare). Il costo stimato varierebbe da poco meno di cinque miliardi nel primo anno a oltre nove nel decimo anno di entrata in vigore, con una spesa complessiva decennale di 75 miliardi di euro. Lavoro Il centrodestra propone di abolire il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo con “misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro”.
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Il Fondo di Solidarietà Comunale: obiettivi e criticità
Questo Fondo ha caratteristiche potenzialmente interessanti come modello perequativo anche per altri livelli territoriali di governo, in particolare per il passaggio graduale dei meccanismi di riparto dalla spesa storica a indicatori di costi e fabbisogni standard. Questo richiede di accompagnare i processi di decentramento e di rafforzamento dell’autonomia locale con schemi perequativi che tuttavia, come stabilito dalla principale legge interpretativa delle norme costituzionali (Legge delega 42/2009), non possono limitarsi a finanziare l’esistente, ma devono essere basati su criteri oggettivi. Il modello perequativo che più ha cercato di attuare questi principi è sicuramente il Fondo di Solidarietà Comunale (FSC) che redistribuisce le risorse ai Comuni. Le origini del Fondo di Solidarietà Comunale Il Fondo di Solidarietà Comunale è stato introdotto con la Legge di Stabilità per il 2013 in sostituzione del Fondo sperimentale di riequilibrio comunale introdotto l’anno prima. Il primo, che scomparirà gradualmente entro il 2030, è destinato al riequilibrio delle risorse storiche e viene assegnato sulla base di criteri di tipo compensativo e, per i soli Comuni delle Regioni a Statuto Ordinario, di tipo perequativo. Ma naturalmente, una cosa è aumentare la capacità di gestione autonoma delle proprie risorse da parte degli enti locali, un’altra è eliminare del tutto la possibilità di usare uno strumento anche quando questo è utile. Si prenda per esempio il caso degli asili nido: avere una dotazione uniforme di asili nido in rapporto all’utenza sul territorio italiano è un obiettivo di politica nazionale che risponde a esigenze di maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro e di rilancio della maternità.
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Crisi demografica e sostenibilità del debito
Mentre nel breve periodo, a seconda dei diversi scenari ipotizzati, la traiettoria del rapporto debito/Pil resta confortante, seppur legata all’attuazione di politiche severe di controllo della dinamica della spesa, nel lungo periodo la situazione si inverte e il debito rischia di crescere fino a livelli insostenibili. Anche questo scenario naturalmente risente di ipotesi specifiche (che discutiamo in dettaglio più avanti), ma il suo andamento è soprattutto influenzato dal rapido declino demografico e dall’andata in quiescenza nei prossimi vent’anni delle ancor popolose generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Purtroppo, mentre le stime sulla crescita economica e sui tassi di interesse nel lungo periodo sono caratterizzate da ampi margini di incertezza, quelle demografiche tendono a essere più affidabili, in quanto basate sulle generazioni attualmente viventi, sulla loro speranza di vita e sui loro comportamenti riproduttivi. In questa nota discutiamo in dettaglio le stime contenute del Def, per poi studiare gli andamenti demografici che vi stanno alla base alla luce di stime ancora più recenti di quelle contenute nel documento di bilancio. Il problema è che a un rapido invecchiamento della popolazione si contrappone una bassa quota della popolazione che lavora, il che rende problematici sia il finanziamento dei sistemi di welfare (pensioni, sanità, assistenza) che, di conseguenza, la sostenibilità delle finanze pubbliche nel loro complesso. In più, si ipotizza che continui il processo di crescita della speranza di vita che, entro il 2070, dovrebbe raggiungere gli 87 anni per gli uomini e i 91 per le donne, con tutto quello che questo implica, per esempio, in termini di necessità di assistenza ai non autosufficienti. Secondo la definizione fornita dall’Eurostat, Il tasso di fecondità totale è il numero medio di figli che una donna metterebbe al mondo nel caso in cui, nel corso nella propria vita riproduttiva, fosse soggetta ai tassi specifici di fecondità per età misurati in un dato anno.
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Le scelte in vista della legge di bilancio
La nostra opinione è che la scelta giusta sia quella di confermare, a grandi linee, gli obiettivi di fondo del Def, se mai con una maggior prudenza giustificata dall’incertezza del quadro macroeconomico e dell’evoluzione in corso d’anno del fabbisogno del settore pubblico. Con la riclassificazione, infatti, sono stati tolti lo 0,2 per cento del Pil (circa 4 miliardi) dal deficit del 2023 e ben lo 0,8 per cento del Pil (circa 16 miliardi) dal deficit del 2024; questi crediti sono stati classificati nei deficit degli anni precedenti dal 2020 al 2022. Ciò significa che al netto della riclassificazione, l’obiettivo per il 2023 non è del 4,5 per cento, ma del 4,7 (a fronte di un 5,4 per cento del 2022, sempre al netto della riclassificazione). A riguardo si può notare che già nel 2022 il Pil reale dell’Italia è risultato più alto – di circa un punto percentuale – che nel 2019, ma il deficit è stato e rimane anche nel 2023 molto più alto. In particolare, il bilancio primario era in attivo (+1,8 per cento del Pil) nel 2019, è risultato in deficit (-3,6 per cento) nel 2022, ed è previsto nel Def ancora in deficit (-0,8 per cento) nel 2023. Sappiamo anche che la Commissione, pur tenendo conto del processo di rientro di molti Paesi verso questo obiettivo, ha detto che nel 2024 potrebbe aprire una procedura di infrazione (EDP) nei confronti dei Paesi che non soddisfano il vincolo. Alla luce di questi dati, l’UPB prevede una crescita del Pil nominale al 6,5 per cento nel 2023 (dunque più alta di quella del governo dello 0,7 per cento) e al 3,6 per cento nel 2024 (dunque più bassa di quella del governo dello 0,7 per cento).