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Il disegno di legge Foti: attacco alla Corte dei conti o misura di efficientamento?
Se approvato, i funzionari pubblici saranno esonerati da responsabilità per colpa grave dei danni erariali (questo al fine di limitare la “paura della firma”) per tutti gli atti che hanno superato il controllo preventivo della Corte dei conti. Si modifica quindi la funzione di controllo della Corte dei conti, il che ha sollevato un forte dibattito in ambito giurisprudenziale sui potenziali risvolti della riforma. Il funzionario può essere chiamato a rispondere dell’illecito sotto diversi profili, tra cui quello della responsabilità amministrativa, che riguarda specificamente il danno patrimoniale arrecato alla PA. [1] Il giudizio sulla responsabilità amministrativa spetta alla Corte dei conti. Tuttavia, negli anni è emersa la necessità, riconosciuta anche dalla Corte costituzionale (vedi sentenza 132/2024 al link ), di riformare il sistema della responsabilità amministrativa per non ostacolare l’azione della PA. Un controllo eccessivo potrebbe infatti disincentivare il funzionario pubblico dal prendere decisioni utili per la comunità. Inizialmente previsto fino al 31 luglio 2021, lo scudo fu rinnovato negli anni, ma solo temporaneamente, visto che la Corte costituzionale ha indicato, nella sentenza sopra riportata, che solo uno scudo temporaneo è costituzionale; al momento è in vigore fino al 30 aprile 2025. Conclusioni Il ddl Foti ha il merito di voler riformare il sistema della responsabilità amministrativa al fine di garantire una maggior efficienza della PA, e di farlo attraverso l’azione del parlamento. Rendere possibile una richiesta di controllo preventivo, al di sopra di certi importi, è ragionevole, ma come proposto dalla Corte costituzionale dovrebbe essere accompagnato da un rafforzamento dell’efficacia di intervento della Corte dei conti.
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Gli ostacoli alle fonti energetiche rinnovabili
Gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni A seguito degli Accordi di Parigi del 2015, l’Unione Europea aveva definito i propri obiettivi in materia di energia e clima con il documento: “Energia pulita per tutti gli europei”, adottato nel 2019. Questi obiettivi sono stati resi più stringenti nel Green Deal Europeo che ha previsto: a) la neutralità climatica (ossia emissioni zero) nell’UE entro il 2050; e b) la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Per esempio, dei 20 GW di progetti per i quali è stata fatta istanza per il settore eolico dal 2017 al 2021, attualmente ne sono stati autorizzati solo 0,64 GW. Cosa frena l’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili? Per rispondere, vediamo quali autorizzazioni sono richieste. Sopra certe soglie, che dipendono dal tipo di impianto e che variano da regione a regione, è necessaria una Verifica di Assoggettabilità (VA) per accertare se un progetto deve essere sottoposto a Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). La Comunicazione al Comune è prevista per alcuni tipi di piccoli impianti per la produzione di elettricità e pompe di calore da fonti rinnovabili, assimilabili ad attività di edilizia libera. I principali obiettivi per il 2030 erano: la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 40 per cento rispetto al 1990, la copertura del 32 per cento dei consumi di energia con fonti rinnovabili e il miglioramento dell'efficienza energetica di almeno il 32,5 per cento. Per questi l’installazione è libera, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore in materia antisismica, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitaria, di efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico e contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
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Il commissariamento delle opere pubbliche sarà utile per sbloccare i cantieri?
L’esecuzione delle opere costerà 83 miliardi e sarà finanziata sia con risorse nazionali che risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza; quest’ultime andranno a copertura dei costi dei progetti che si prevede di ultimare entro il 2026. La portata del commissariamento potrebbe essere però ancora più ampia: il Governo ha infatti annunciato di voler commissariare altri 44 progetti per un costo complessivo di 13 miliardi, il che porterebbe a 101 il numero di opere commissariate e a 96 miliardi le spese. Il piano di commissariamento del Governo Lo scorso aprile il Ministro delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili (MIMS) ha annunciato un ampio piano di commissariamento per lo sblocco di diverse opere pubbliche. Nello specifico il piano interessa: 16 infrastrutture ferroviarie dal costo di 60,8 miliardi; 14 infrastrutture stradali dal costo di 10,9 miliardi; 1 infrastruttura metropolitana dal costo di 5,8 miliardi; 11 infrastrutture idriche dal costo di 2,8 miliardi; 3 infrastrutture portuali dal costo di 1,7 miliardi; 12 infrastrutture di pubblica sicurezza dal costo di 0,5 miliardi. Le opere per cui si stima una spesa maggiore sono dunque quelle ferroviarie; tra le infrastrutture ferroviarie commissariate rientrano infatti le linee ad alta velocità Brescia-Verona-Padova, Salerno-Reggio Calabria e Palermo-Catania-Messina, per le quali sono previste spese per ben 30 miliardi, il 35 per cento di quelle complessive. Fanno capo a quest’ultime, in particolare, i commissari incaricati della realizzazione delle opere ferroviarie (che provengono da RFI - Rete ferroviaria italiana), delle opere stradali (che provengono da ANAS) e delle opere portuali (che provengono da ADSP - Autorità di sistema portuale). I poteri dei commissari e la rapidità di esecuzione delle opere L’elenco di progetti infrastrutturali che il Governo intende commissariare non si esaurisce con le 57 opere pubbliche per cui sono già stati nominati i commissari.
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Le opere pubbliche incompiute in Italia: un aggiornamento
La situazione è particolarmente positiva per le province autonome di Trento e Bolzano e per le regioni del Nord Italia, con eccezione della Lombardia, che però, essendo la regione di gran lunga più grande, ha anche un numero di opere in corso di esecuzione molto più elevato delle altre. Al contrario, il numero di opere pubbliche incompiute è più alto nelle province del Sud Italia, in particolare per l’Italia insulare (Fig. 1). Il Sud della penisola ha inoltre un numero di opere pubbliche incompiute ogni 100.000 abitanti di gran lunga superiore rispetto al Nord e Centro, confermando il quadro appena descritto (Fig. 2). La tendenza generale dal 2016 al 2020 Il numero di opere pubbliche incompiute è calato tra il 2016 e il 2020: si è passati infatti da 698 a 393 opere non ultimate (Fig. 5). Il numero di opere incompiute è rimasto però invariato nel 2020 (e probabilmente è cresciuto tenendo conto che il dato del 2020 non comprende la Puglia): è possibile che la pandemia di Covid-19 abbia contribuito al rallentamento del completamento delle opere pubbliche incompiute fino a quel momento. Ciò vale in particolare per le regioni del Sud dove è destinata una quota di investimenti (rispetto alla popolazione) più alta rispetto alle altre macro aree e che in passato hanno mostrato maggiori difficoltà a completare gli investimenti. La somma delle cause è 468, superiore al numero delle opere (393): questo perché vi sono 75 opere pubbliche che sono rimaste incompiute per due o più ragioni.
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Intervista di Milano Finanza a Carlo Cottarelli
Per riuscire a raggiungere questo risultato la coalizione di governo dovrà ritrovare rapidamente l’unità dopo la spaccatura che si è venuta a creare per l’elezione del presidente della Repubblica. Anche la rielezione di Mattarella è un’ottima notizia per il Paese ma è arrivata alla fine di un processo travagliato che ha fatto emergere spaccature tra le coalizioni e all’interno degli stessi partiti. A prevalere sono stati personalismi ma ora la speranza è che prevalga invece il senso di responsabilità, con il Parlamento che nei prossimi mesi dovrà approvare riforme cruciali per il Paese e per avere accesso ai 50 miliardi di finanziamenti europei previsti per quest’anno. Sarebbe messa a rischio la crescita economica che in ogni caso, ad oggi, appare più un rimbalzo rispetto al crollo del 2020 provocato dalla pandemia che una vera ripresa stabile. Quali sono invece i rischi che l’inflazione freni la ripresa con la Fed e la BCE che sembrano pronte ad una stretta monetaria? Secondo l’interpretazione della Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, il fenomeno dell’inflazione non è transitorio, dovuto cioè ad un rimbalzo dell’economia post pandemia, ma è la conseguenza di politiche economiche che in passato sono state troppo espansive. La BCE potrebbe rivedere i propri piani di acquisto che per l’Italia, per il 2022, valgono 60 miliardi di titoli di Stato, ovvero il 60% del deficit pubblico.
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Con i fondi del Recovery crescita assicurata ma il valore del piano si vedrà alla distanza
Questo richiede investimenti in capitale fisico e “umano” (non mi piace questo termine, ma è quello comunemente usato per indicare la nostra ricchezza umana). Il Piano vuole rimuovere le condizioni che frenano l’investimento privato in Italia attraverso appropriate riforme: la semplificazione della normativa, l’efficientamento della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia sono le cose che le imprese richiedono da anni come condizione per investire di più in Italia. Oltre alle riforme il piano prevede un forte aumento della spesa pubblica (digitalizzazione, infrastrutture, pubblica istruzione, sanità) per rendere il paese più moderno e per arricchirne il capitale umano. Il ruolo della spesa pubblica è anche un altro: dare una spinta diretta alla domanda di beni e servizi. I progetti non sembrano essere stati sottoposti a un’analisi costi-benefici, della cui importanza sembra che ormai ci siamo scordati, inebriati forse da un’improvvisa abbondanza di risorse (anche quelle derivanti dagli acquisti di BTP da parte della BCE) a cui non siamo abituati. È difficile che riforme strutturali (la giustizia, la pubblica amministrazione, eccetera) siano implementate a pieno se non sono sostenute da una genuina volontà popolare di considerarle prioritarie. Se battiamo il virus la ripresa ci sarà e continuerà finché durano i finanziamenti europei (il che però richiede che l’inflazione, che comincia a dare segni di risveglio, resti bassa, altrimenti la BCE dovrà stringere i cordoni della borsa).
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La ricerca e l’innovazione tecnologica in Italia
Anche escludendo gli Stati Uniti e i paesi asiatici, nel 2021 risulta all’undicesimo posto per domande di brevetti da registrare all’Ufficio Europeo dei Brevetti rispetto alla popolazione, essendo superata, tra gli altri, da Francia, Germania e Regno Unito. Tuttavia, il ruolo dell’Italia è marginale negli altri principali micro-settori tecnologici; in particolare nei settori ad alto tasso di conoscenza (computer, semiconduttori, biotecnologie, farmaceutico) il peso sul totale delle domande va dallo 0,7 al 2,1 per cento. Tale valore è superiore a quello della Spagna (1 per cento), ma più basso di quello della Francia (5,6 per cento) e molto inferiore rispetto alla Germania (13,8 per cento). Tale tasso è in linea con i paesi con un minore numero di brevetti, e molto più alto di Francia e Germania che presentavano un numero relativamente elevato di brevetti già nel 2012. La composizione dei brevetti italiani è più orientata verso l’ingegneria meccanica (es. macchinari e trasporti) rispetto sia alla media dei paesi che presentano brevetti all’EPO sia ai principali paesi europei (Fig. 5). Tuttavia, il peso dell’Italia rispetto all’estero è basso anche nel campo dell’ingegneria meccanica: 1.884 brevetti (5 per cento delle domande complessive), contro i 2.751 della Francia (7 per cento) e i 7.781 della Germania (21 per cento). Infine, l’Italia ha un ruolo marginale nei settori ad alto tasso di conoscenza, che svolgono un ruolo cruciale nella competizione tecnologica globale: computer (0,7 per cento), semiconduttori (1,4 per cento), biotecnologie (1,5 per cento) farmaceutico (2,1 per cento).
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Come cambia la sanità territoriale?
Una delle maggiori necessità, resa evidente anche dai più recenti esercizi di monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), è quella di rafforzare le cure territoriali, cioè l’insieme dei servizi sanitari e socio-assistenziali erogati al di fuori dell’ospedale. Al centro di questo nuovo sistema di cure primarie dovrebbero esserci i medici di medicina generale, che però sono sempre meno e sempre più anziani, anche per la scarsa attrattiva della professione per i laureati in medicina. Frequente è anche la situazione di multi-cronicità (o multi-morbidità): le persone che convivono con più di una patologia cronica sono già più di un quinto della popolazione complessiva [4] . Le patologie croniche richiedono un approccio assistenziale diverso dalla gestione delle acuzie: il paziente richiede una “presa in carico” da parte di un professionista, perché necessita di interventi periodici per lunghi periodi di tempo e di una stretta integrazione tra servizi sanitari e socio-assistenziali. I cantieri infiniti della sanità territoriale Il problema italiano è che – nonostante la necessità di cure primarie sia riconosciuta da tempo – le riforme che sono state proposte negli anni non sono mai state effettivamente implementate e, ancora oggi, le cure primarie sono un problema irrisolto in molte regioni. L’organizzazione dell’assistenza territoriale risale alla legge n. 833 del 1978, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e che ha posto al centro della medicina di famiglia i medici di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS). A ciò segue l’urgenza di alleggerire gli oneri amministrativi e la critica sia al nascituro sistema delle Case della Comunità, giudicato una «soluzione in cerca di un problema», che al passaggio dei MMG alla dipendenza pubblica poiché creerebbe «posti fissi» anziché favorire medici con una «mentalità imprenditoriale e innovativa».
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Conti pubblici a rischio?
Nei primi cinque mesi del 2023, il fabbisogno di cassa del settore statale è stato pari a 81,8 miliardi di euro, ben 46 miliardi in più che nello stesso periodo del 2022. L’aumento è preoccupante anche tenendo conto del fatto che la variazione del debito pubblico lordo (l’altra variabile chiave per le regole europee) è molto vicina al fabbisogno di cassa del settore statale. Nel seguito della nota argomentiamo che non è impossibile che gli obiettivi vengano raggiunti, ma è indubbio che il dato del fabbisogno faccia suonare un campanello d’allarme. Anche l’aumento delle pensioni – per la parte che è rimasta indicizzata all’inflazione – è un fattore che pesa sul fabbisogno e sull’indebitamento di quest’anno (per 21 miliardi) e che continuerà a pesare sui prossimi anni. Nel secondo passaggio si individuano una serie di fattori straordinari che possono spiegare perché il fabbisogno dell’anno possa ancora collocarsi in prossimità dell’obiettivo, che nel Def è del 5,6 per cento del Pil nello scenario programmatico (corrispondente a 113,1 miliardi). La stima è di 3,5 miliardi nei primi quattro mesi; l’effetto sul primo quadrimestre di quest’anno è stato di 5,9 miliardi mentre nei primi quattro mesi del 2022 la spesa fu di 2,4 miliardi. Poiché l’aumento del fabbisogno è di 46 miliardi, si potrebbe concludere che c’è un aumento strutturale del fabbisogno pari a 2,7 miliardi al mese; il che su 7 mesi significherebbe un aumento di circa 19 miliardi.
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DEF: le migliori prestazioni dei conti pubblici rispetto alle attese nel 2021 e le implicazioni per il 2022
La riduzione di oltre due punti percentuali dell’indebitamento netto rispetto a quanto atteso sei mesi fa è dovuta a maggiori entrate e – in minor parte – a minori spese primarie, mentre la spesa per interessi è leggermente cresciuta per effetto dell’inflazione. Le entrate Il miglioramento delle entrate è dovuto ai contributi sociali (+5,2 per cento) e in minor misura alle imposte indirette (+2,7 per cento) e dirette (+2,5 per cento), mentre le altre entrate in conto capitale sono state inferiori di 2,8 miliardi (-33,2 per cento). Inoltre, hanno contribuito fattori che vanno oltre al miglior ciclo del Pil: il miglior andamento delle imposte dirette è dovuto anche alle imposte sostitutive sulle rendite finanziarie, che hanno riflesso l’andamento favorevole dei mercati finanziari nel corso del 2020. Le spese La minore spesa primaria per 16,7 miliardi è estesa a tutte le principali voci di spesa primaria corrente, ma le cause sono diverse: Il calo di 4,8 miliardi delle spese previdenziali è trainato dalla minor spesa per ammortizzatori sociali (4,2 miliardi), e quindi dalla maggiore crescita. La revisione verso l’alto delle entrate è di soli 19,5 miliardi, nonostante le misure prese sul lato della tassazione per coprire l’aumento delle spese correnti per effetto dei decreti-legge 4 (“Sostegni ter”), 17 (“Costi energia”) e 21 (“Emergenza Ucraina”) del 2022. In particolare, la crescita dei contributi sociali osservata nel 2021 prosegue anche nel periodo 2022-2025: se nel 2021 i contributi sociali erano risultati di 12 miliardi in più di quanto previsto dalla NADEF, nel 2022, restano quasi 11 miliardi superiori al previsto. Ciononostante, l’effetto di trascinamento non è completo per due motivi: Il tasso di crescita del Pil nel 2022 è stato rivisto verso il basso (alla fine il Pil nominale ora previsto per il 2022 è simile a quello previsto nella NADEF).
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Come procede la spending review in Italia?
Misure più impattanti sono state invece ottenute rimuovendo misure espansive introdotte prima del 2020 (come il Reddito di cittadinanza), bloccando il Superbonus 110%, che aveva gonfiato la spesa per sussidi all’edilizia fuori proporzione, e limitando l’aumento delle spese (per esempio per pensioni e sanità) al di sotto del tasso di inflazione. In altri termini, la vera revisione della spesa è consistita nel taglio di recenti aumenti di spesa o è stata attuata attraverso l’inflazione, con l’implicazione di tagli lineari per tutti gli enti di uno stesso settore (es. ospedali) coinvolti, indipendentemente dal loro grado di efficienza. Anche superata la crisi, il suo livello nel 2023 era però leggermente più alto che nel 2014 (42,9 per cento contro il 42,7 per cento per la spesa corrente e 49,2 contro 46,3 per la spesa primaria totale; Fig. 1). Passi essenziali di questi processi sono la divisione della spesa pubblica in diversi programmi di spesa, l’individuazione per ogni programma di indicatori per valutare se gli obiettivi del programma sono stati raggiunti e la revisione periodica di questi programmi attraverso, appunto, processi di spending review . L’obiettivo non è necessariamente il taglio della spesa totale: se la spesa deve essere tagliata dev’essere determinato in base a fattori macroeconomici (la sostenibilità delle finanze pubbliche, data una pressione fiscale desiderata) e la necessità di avere politiche di sostegno o di contenimento della domanda aggregata. In particolare, negli ultimi anni, le leggi di bilancio hanno solitamente incluso una sezione di revisione della spesa che includeva tagli di vario genere rispetto al quadro a legislazione vigente delle spese dell’amministrazione centrale e degli enti territoriali. La legge di bilancio 2019 non conteneva nuovi tagli di spesa, forse come riflesso dell’approccio del governo giallo-verde formatosi a maggio del 2018 che, come visione generale, considerava i tagli di spesa controproducenti per la crescita economica.
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Un commento alla NADEF 2021
Le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica La Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) descrive un quadro macroeconomico in miglioramento rispetto a quanto previsto nel DEF di aprile (Tav. 1). Già nel 2022 il PIL raggiungerà il livello del 2019 e nel 2023 supererà il livello che avrebbe raggiunto se la crescita fosse continuata come era stato previsto nel 2019, ossia prima della crisi Covid (Fig. 1). L’ipotesi sottostante queste stime è che i tassi di interesse rimangano ai livelli attuali per tutto l’arco della previsione; il rapporto debito pubblico/PIL si attesta a fine anno al 153,5 per cento, in netto ribasso rispetto alle previsioni di aprile (159,8 per cento). Questo è ciò che accade nello scenario della NADEF: il deficit (nel senso di indebitamento netto) strutturale scende di 2,1 punti di PIL nel 2022, 1,0 nel 2023 e 0,6 nel 2024. Secondo la NADEF, un aumento di 100 punti base del tasso di rendimento del BTP a 10 anni avrebbe un impatto modesto nel breve periodo ma consistente nel lungo: rispetto al programmatico, il tasso di crescita del PIL sarebbe infatti più basso di 0,1 punti percentuali nel 2022, 0,6 nel 2023 e 0,8 nel 2024. Questa dinamica si osserva anche con riferimento al rapporto debito/PIL, che rispetto allo scenario programmatico sarebbe più alto di un punto percentuale nel 2022 e di oltre 6 punti nel 2024 (giungendo al 152,5 per cento). Il punto cruciale è che il rapporto debito/PIL ricomincerebbe a salire già dal 2023 al verificarsi di uno dei seguenti due eventi: un aumento (non temporaneo) di un punto del tasso di interesse sui BTP e una crescita del PIL più bassa rispetto a quella programmata di 1,0 p.p.
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Gli effetti del Covid-19 sull’apprendimento
Le prove Invalsi 2022, se confrontate con il periodo pre-pandemico, segnalano una notevole perdita di competenze tra gli studenti, con effetti eterogenei per tipologia di scuola, territorio e background socio-economico e con potenziali effetti avversi nel lungo periodo in termini di minor crescita economica. La chiusura prolungata delle scuole durante la pandemia ha infatti ridotto gli spazi di socialità con effetti negativi sull’apprendimento e, più in generale, sul desiderio degli studenti di investire in sé stessi per un futuro migliore. A questo si aggiungono ampi divari tra le diverse tipologie di scuola: gli studenti dei licei ottengono punteggi molto elevati rispetto ai coetanei che frequentano istituti tecnici, professionali e centri di formazione (Tav. 2). Inoltre, la percentuale di coloro che raggiungono il livello minimo di matematica al quinto anno in Italia è pari all’80 per cento nel caso di licei scientifici, 49,8 per cento nel caso di istituti tecnici, 17,8 per cento nel caso di istituti professionali e 43,2 per cento nel caso di altri licei. Questo può essere dovuto a vari fattori: il primo motivazionale, in quanto la scelta di intraprendere un percorso di studi universitario non è obbligatoria, ma deriva da una decisione personale che può spingere lo studente a impegnarsi di più per recuperare gli svantaggi indotti dalla pandemia. Per esempio, un programma di tutoraggio online lanciato da alcune università italiane durante la pandemia a favore degli studenti svantaggiati delle scuole medie, valutato rigorosamente dai ricercatori, si è mostrato capace di migliorare sensibilmente sia le prestazioni degli studenti che la loro generale condizione psicologica. Per maggiori informazioni sulle prove Invalsi vedasi: https://www.invalsiopen.it/ [10] Tutti gli studenti delle classi interessate svolgono la prova di italiano e quella di matematica, mentre la prova di inglese non è affrontata dagli studenti della seconda elementare e del secondo anno della scuola secondaria di secondo grado.
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Rischio paralisi
Una legge di bilancio adeguata alle esigenze del Paese è in corso di approvazione e stanzia fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali e per un primo taglio delle tasse. Infatti, le riforme approvate o in via di approvazione utilizzano spesso lo strumento della legge delega: il Parlamento delega il governo a scrivere decreti legislativi aventi forza di legge, ponendo solo dei vincoli, più o meno stretti, che dovranno essere rispettati. È così per la riforma della giustizia civile, per quella della giustizia penale, per parti della riforma della concorrenza e, soprattutto, per la riforma del fisco dove la legge delega in corso di approvazione in parlamento contiene vincoli particolarmente vaghi, lasciando quindi un amplissimo grado di discrezionalità al governo. Nella legge di bilancio per il 2023 sarà necessaria una sua riduzione e la presenza di Draghi a palazzo Chigi durante la preparazione della prossima legge di bilancio consentirebbe probabilmente un’uscita più bilanciata dalle attuali politiche espansive. Ma, visto che non lo si può clonare, occorre scegliere tra le due posizioni, soprattutto ora che sembra che il presidente Mattarella non sia disponibile per un secondo mandato (cosa che, al di là dei motivi personali, mi sembra anche preferibile da un punto di vista istituzionale). Viene ventilata da alcuni l’ipotesi di portare avanti comunque la legislatura, anche dopo un possibile passaggio di Draghi al Colle, attraverso un governo tecnico che porti avanti il corrente programma di riforme. Ma che esistano ancora forti incertezza sul futuro dell’Italia, a mio giudizio condizionale dall’incertezza sul futuro del governo, è provato dal persistere dello spread, l’indicatore più sintetico del rischio attribuito all’investimento nei nostri titoli di Stato, su livelli elevati rispetto a quelli degli altri Paesi del Sud Europa.
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Il debito pubblico inizierà a scendere quando il deficit sarà sotto controllo
Ciò richiede un’inversione di tendenza: possiamo chiamarla tecnicamente “differenza fra disavanzo tendenziale e programmatico” ma sempre di quello si tratta: la modifica percentuale del deficit deve essere negativa, cioè una riduzione anche solo dello zero virgola. I tempi sono quelli concordati con Bruxelles, inseriti nel patto di Stabilità e confermati dall’accordo europeo del 20 luglio: quattro anni che possono arrivare a sette per i Paesi che si impegnano nelle riforme strutturali. Cosa si legge in queste pagine trascurate del Def? «Intanto che in mancanza di misure strutturali, ovvero le agognate riforme, il debito è destinato a impennarsi fino al 151% nel 2031 e poi chissà. Con le riforme, invece, ci sarà sì un ulteriore ritocco verso l’alto fino al 141% (dall’attuale 137%) nel 2026, sempre per i costi del superbonus, e poi si dovrebbe imboccare finalmente il lento recupero che ci porterà al 136% nel 2031, per poi procedere ulteriormente sulla via virtuosa». Tutte avrebbero un riscontro in termini di punti di Pil. Il rammarico è che di queste riforme si sente il bisogno da decenni ma raramente abbiamo avuto un governo che, ci piaccia o no, è dotato di una maggioranza così forte. Il problema è che è arduo valutare misure per la natalità in termini di crescita: possono servire dieci o vent’anni perché le nuove famiglie si convincano che si possono fare figli, e poi altri venti perché questi si affaccino sul modo del lavoro». Tornando alla manovra, esiste il “tesoretto”? «Le Finanze hanno comunicato che fra gennaio e luglio le entrate fiscali sono migliorate di 19 miliardi, il 6,2%, e manca ancora una parte di contribuenti visto che per l’Irpef c’è tempo sino a fine mese.
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L’inquinamento da polveri sottili PM10 e PM2.5 in Italia e Europa
Oltre alla maggiore efficienza energetica e alla diffusione di fonti rinnovabili (Progetto Life Prepair condotto dalle regioni Emilia Romagna, Piemonte, Veneto e Lombardia), altri diversi fattori hanno causato tale miglioramento: limiti di emissione più stringenti nei settori energia e industria (direttiva europea 2008/50/EC recepita dalla legislazione italiana con D.Lgs. che stabilisce i limiti di inquinamento di PM10 e PM2,5), produzione di automezzi e utilizzo di carburanti meno inquinanti, introduzione del gas naturale nella produzione elettrica e per il funzionamento degli impianti di riscaldamento domestici (ENEA, 2017). L’Italia è uno dei paesi più inquinati d’Europa e il più inquinato dell’Europa occidentale, con un grado di concentrazione di PM2.5 di circa il 47 per cento superiore a quello della Germania (Fig. 4). L’organizzazione Mondiale della Sanità ha inoltre proposto, come obiettivo da raggiungere entro il 2030, il non superamento della concentrazione di 50 µg/mc di PM10 giornalieri per più di 3 giorni annui nei comuni capoluoghi di provincia. Opportunità che prevede inevitabilmente dei sacrifici e dei cambi di abitudini da parte dei cittadini, ma che potrebbero restituire città più vivibili, efficienti, salutari e a misura di uomo. I dati sono contenuti in Ecosistema Urbano, un rapporto di Lega Ambiente che presenta dati ambientali per varie città attraverso 18 parametri (uso efficiente del suolo, verde urbano, presenza di biossido di azoto, …) raggruppati in 5 macroaree (aria, acqua, rifiuti, mobilità e ambiente). Anche secondo l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (vedi “Piano nazionale di ripresa e resilienza #NextgenerationItalia e lo sviluppo sostenibile, Esame dei provvedimenti rispetto ai 17 obiettivi dell’agenda 2030”, p. 80) il raggiungimento degli obiettivi relativi alla costruzione di edifici energeticamente più efficienti contribuirà alla riduzione delle polveri sottili.
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L’occupazione nel settore pubblico in Italia
Non è chiaro quale sia il piano di medio termine del Governo in termini di occupazione pubblica, ma ci sono indicazioni che il numero netto di assunzioni possa essere elevato, nonostante la digitalizzazione della pubblica amministrazione possa portare a risparmi di personale. Il 2021 si è chiuso con un rapporto tra unità di lavoro annue e popolazione del 5,7 per cento, contro una media degli ultimi 40 anni del 6,1 per cento. Questi dati comportano che: Se il rapporto tra occupazione pubblica e popolazione fosse stato nel 2021 pari al valore medio del periodo 1980-21, gli occupati pubblici avrebbero dovuto essere 3,60 milioni di unità di lavoro annue, invece di 3,36 milioni. Dato che la popolazione italiana è prevista scendere nei prossimi anni, se si volesse tornare nel 2026 allo stesso rapporto tra occupati e popolazione osservato nella media del periodo, l’occupazione pubblica dovrebbe salire da 3,36 milioni di unità nel 2021 a 3,54 milioni nel 2026, ossia 180mila unità in più. L’età media del personale nel settore pubblico è aumentata più dell’età media della popolazione italiana, anche se nel periodo 2019-20 è avvenuto l’opposto in conseguenza del pensionamento di molti dipendenti pubblici con Quota 100 (Fig. 2). In un intervento del 13 aprile 2022 ( https://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/13-04-2022/il-saluto-del-ministro-brunetta-ai-32-neoassunti-alla-funzione-pubblica ) il ministro Brunetta ha indicato che “L’obiettivo è riportare il numero di dipendenti pubblici, tra cinque anni, a quota 4 milioni contro i 3,2 milioni attuali e abbassare di 5-6 anni l’età media, ora sopra i 50 anni”. Focalizzarsi sulle unità di lavoro annuali piuttosto che sul numero dei dipendenti è più appropriato per misurare l’input effettivo di lavoro fornito dai dipendenti pubblici.
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I costi e le misure del Decreto Aiuti ter
Le risorse stanziate dal decreto Il 16 settembre il governo ha approvato il nuovo Decreto Aiuti ter al fine di aiutare famiglie e imprese ad affrontare i problemi generati dalla crisi energetica e dall’inflazione. Seguono una serie di interventi quali: l’inasprimento delle sanzioni per le imprese che delocalizzano e le modalità attraverso le quali gli extra profitti, ottenuti dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, vengono destinati a famiglie e imprese più colpite dal rincaro energetico. Misure per il contenimento della spesa per energia elettrica Per le imprese energivore (ossia quelle con un forte consumo di energia elettrica) viene innalzato a 2,4 miliardi il fondo per coprire l’aumento del credito d’imposta dal 25 al 40 per cento sui maggiori oneri sostenuti nei mesi di ottobre e novembre 2022. La distribuzione delle risorse Gli interventi del Decreto Aiuti ter possono essere suddivisi in quattro categorie: a) misure destinate agli individui legate al reddito (20 per cento); b) interventi a sostegno delle imprese e del terzo settore (67 per cento); c) aiuti universali (3 per cento); d) altri aiuti (10 per cento) (Fig.1). a) Misure destinate agli individui legate al reddito Gli interventi del Decreto Aiuti ter che richiedono, per poter essere fruiti, un reddito inferiore ad una certa soglia sono il bonus per l’acquisto di abbonamenti per i trasporti pubblici e l’indennità anti-inflazione. Il Ministero dei trasporti ha stanziato 240 milioni per il bonus trasporti, garantendo una copertura massima di 4 milioni di beneficiari (nel caso in cui ogni potenziale beneficiario fruisca di un importo pari al massimo previsto dal decreto, 60 euro). Di questi beneficiari, 8,1 milioni sono pensionati, 2,9 milioni lavoratori autonomi e i restanti 11,5 milioni ricadono tra i lavoratori dipendenti e le altre categorie previste dal Decreto (es. lavoratori domestici, percettori del Reddito di Cittadinanza e lavoratori stagionali).
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Le tendenze di medio termine dei conti pubblici
Secondo le stime del governo, il deficit (nella definizione di indebitamento netto della PA) è al 5,4 per cento del Pil nel 2023 – ma su quest’anno pesano i crediti edilizi riclassificati dall’Eurostat e i residui sostegni contro il caro energia decisi nella scorsa legge di bilancio. Il formato della tavola è quello che la Commissione europea chiede agli Stati membri di inserire nel Documento Programmatico di Bilancio; ovviamente i dati sono quelli dell’ultimo documento che è stato licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 16 ottobre. I principali dati del confronto: le spese Tornando alla Tav. 1, si vede che fra il 2019 e il 2024 la spesa pubblica aumenta di 2,2 punti percentuali, il che significa che è dalla spesa che viene il contributo principale all’aumento del deficit (che, ricordiamo, aumenta di 2,8 punti). Ciò nonostante, il fatto che negli ultimi 20-25 anni il Pil dell’Italia sia cresciuto pochissimo, meno che in tutti i precedenti decenni del dopoguerra e meno che negli altri principali Paesi, serve a ricordarci che la variabile decisiva è la qualità degli investimenti, più ancora che la loro quantità. È anche utile menzionare che fino a oggi la crescita economica della Germania è stata superiore a quella dell’Italia malgrado un tasso di investimenti che si è attestato prevalentemente attorno al 2 per cento del Pil. [3] La spesa per interessi . Dunque, nel 2024 si aggiunge uno 0,2 per cento, che è attribuibile principalmente al fatto che la legge di bilancio proroga, per l’intero 2024, tutte le misure di sgravio in essere, incluse quelle decise nel maggio scorso ed entrate in vigore solo a luglio. Verosimilmente ciò è dovuto alla circostanza che il governo considera come acquisito (e dunque parte del tendenziale) il contenuto del decreto fiscale, che è stato trasmesso alla Camera il 27 ottobre, e dunque prima della legge di bilancio, anche se non è ancora stato promulgato.
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Cuneo fiscale per il lavoro dipendente: un confronto internazionale e gli effetti della legge di bilancio 2022
Nel 2021 l’Italia aveva il quinto cuneo fiscale più alto sia fra i paesi Ocse e sia fra quelli dell’area euro: per un lavoratore dipendente con uno stipendio lordo medio, il cuneo era del 46,5 per cento, contro una media del 41,4 per cento nell’area euro. In particolare, è passato dal 41,2 per cento al 38,6 per i lavoratori con il 67 per cento del reddito medio, dal 37,9 al 35,4 per le famiglie con un solo reddito pari al reddito medio e dal 40,9 al 39,2 per cento per le famiglie con due redditi, uno medio e uno medio-basso. Salvo poche eccezioni (per paesi che non prevedono imposte sul reddito o contributi previdenziali in busta paga), le componenti delle trattenute che formano il cuneo fiscale sono dunque tre: Imposte personali sul reddito a carico del lavoratore, incassate dallo stato centrale o dalle amministrazioni locali. Riguardo la diversa allocazione del cuneo fiscale nei paesi dell’eurozona, la porzione del cuneo fiscale a carico dei lavoratori è in media del 61 per cento, mentre per il 39 per cento è a carico dei datori di lavoro. Il cuneo fiscale per altre tipologie di lavoratori Oltre al caso di un lavoratore single senza figli con uno stipendio medio, l’Ocse fornisce dati sul cuneo fiscale di lavoratori dipendenti di altre tipologie, in relazione allo stipendio e alla composizione del nucleo familiare. La parte a carico dei lavoratori è calcolata come [(Imposta sul reddito + contributi a carico dei lavoratori) /cuneo fiscale], mentre la parte a carico del datore di lavoro è (contributi a carico del datore di lavoro/cuneo fiscale). Escludendo l’Italia, La media pesata dei paesi dell’eurozona per Pil pro capite in termini reali è 61 per cento (percentuale del cuneo fiscale a carico dei lavoratori) e 39 per cento (percentuale del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro).
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Osservazioni al Disegno di Legge di Bilancio 2021-2023
Quadro complessivo di finanza pubblica Il quadro di finanza pubblica in cui si inserisce il Disegno di Legge di Bilancio (DDL) per il triennio 2021-23 è quello presentato nel Documento Programmatico di Bilancio 2021 (DPB) elaborato a metà ottobre (Tav.1). La Manovra Il disegno di legge di bilancio prevede misure espansive per 30,8 miliardi nel 2021, 34,8 miliardi nel 2022 e 32,5 miliardi nel 2023; le coperture previste ammontano a 6,2 miliardi per il 2021, 22,7 miliardi per il 2022, 35,9 miliardi per il 2023 (si veda Tav.2). L’indebitamento netto aumenta quindi rispetto al quadro a legislazione vigente di 24,6 miliardi nel 2021 e 12,0 miliardi nel 2022; diminuisce di 3,5 miliardi nel 2023. Basandosi sulle informazioni contenute nella Nadef 2020 sull’uso dei fondi europei, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio stima che le retroazioni fiscali potrebbero essere sovrastimate di almeno un quarto (oltre 3 miliardi nel 2022 e oltre 5 miliardi nel 2023). Nello specifico, il “Fondo di rotazione” avrà una dotazione di 35,3 miliardi nel 2021, 41,3 nel 2022 e 44,6 nel 2023, per un totale di 121,2 miliardi. Questo orientamento, eccezionalmente espansivo, della politica di bilancio è giustificato dalla gravità della crisi sanitaria ed economica ed è resa possibile dai massicci acquisti di titoli di Stato da parte dell’Eurosistema, nonché dalla disponibilità di risorse imponenti provenienti dalle istituzioni europee. Al netto delle risorse previste dal NGEU, secondo la Nadef la spesa per investimenti fissi lordi della PA dovrebbe avere il seguente profilo: 41,2 miliardi del 2019, 44,6 miliardi nell’anno in corso, 47,5 miliardi nel 2021, 50,6 miliardi nel 2022 e 49,7 nel 2023.
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Un commento al disegno di Legge di Bilancio 2022
Sugli ammortizzatori sociali viene estesa la copertura degli strumenti di integrazione salariale, ma non sono posti correttivi che evitino un uso troppo prolungato di tali strumenti per le imprese che non sono sostenibili economicamente. La manovra per il 2022 La manovra di finanza pubblica delineata dal DDL per il 2022 prevede misure espansive che ammontano a 37 miliardi, con coperture pari a 13,8 miliardi e un maggiore indebitamento netto, rispetto al quadro a legislazione vigente, di 23,2 miliardi (Tav. 1). Il deficit pubblico scende, ma meno di quello che sarebbe stato possibile a legislazione invariata, nonostante la crescita sia più forte di quanto previsto nel quadro programmatico del Documento di Economia e Finanza. Questo sbilanciamento è rafforzato dalle misure di copertura, che sono costituite per la maggior parte da aumenti di tasse più che da tagli di spesa. Le misure espansive Il rifinanziamento al 2022 di strumenti già esistenti , senza fondamentali riforme strutturali, vale quasi la metà dei 37 miliardi di misure espansive e include, tra le altre cose: Il Reddito di Cittadinanza , che viene rifinanziato per 1,2 miliardi, portandolo a regime a 8,8 miliardi annui (stesso livello del 2021). Saldo netto da finanziare e indebitamento netto Il deficit in termini di Saldo netto da finanziare (SNF) è maggiore rispetto all’indebitamento netto per 17,5 miliardi nel 2022, 19,1 miliardi nel 2023 e 10,4 miliardi nel 2024. La misura produce maggiori uscite in termini di SNF per 4,3 miliardi nel 2022 e 4,5 miliardi nel 2023 e 2024 (mentre gli effetti in termini di indebitamento netto sono già stati registrati al momento del pagamento delle pensioni).
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Pro e contro del programma economico di Giorgia Meloni
La prima è la forte sottolineatura dell’importanza delle imprese e della libertà di impresa. “La ricchezza la creano le imprese con i loro lavoratori, non lo stato tramite editto o decreto”. Vivaddio, bene! Non c’è che da sperare che alle parole seguano i fatti. Mi ha convinto l’acuta consapevolezza della difficoltà dell’attuale congiuntura e la sottolineatura che il segno meno previsto per la crescita del pil del 2023 è uno dei peggiori in Europa e che non si tratta di una congiuntura isolata perché l’Italia non cresce da vent’anni. “Negli ultimi vent’anni l’Italia è cresciuta complessivamente del 4 per cento, mentre Francia e Germania di più del 20 per cento”.
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Post mortem per il Superbonus: extra deficit, extra debito e rallentamento in atto nel settore delle costruzioni
L’ipotesi più plausibile per spiegare l’extra deficit è che vi sia stata una corsa per usufruire delle ultime deroghe rispetto al decreto di febbraio 2023, con certificazioni dubbie sull’entità dei lavori e sul loro stato di avanzamento. In sostanza, si sarebbe trattato dell’ultima coda di frodi, o comunque di abusi di un meccanismo che elimina il normale contrasto di interesse fra chi compra e chi vende, ed è quindi un vero e proprio invito alla frode. L’extra deficit 2023 Il consuntivo Istat, pubblicato lo scorso 1° marzo, ha certificato che la previsione del governo sul deficit 2023 formulata a fine settembre era errata di ben 39 miliardi di euro, pari all’1,8 per cento del Pil (per tutti i dati si veda l’Appendice). Si tratta di un errore di proporzioni gigantesche in una previsione fatta tre mesi prima della chiusura dell’esercizio, in assenza di fattori esterni eccezionali (Covid, crisi internazionale ecc.), che probabilmente non ha precedenti e che getta un’ombra sinistra su tutte le proiezioni formulate dal governo per i prossimi anni. Dalla nostra analisi, emerge la conferma di ciò che ha più volte affermato il Ministro dell’Economia: il Superbonus 110% è all’origine del problema, il che conferma l’estrema problematicità di questo sussidio. Tuttavia, non sono pubblici i dati di base dell’Agenzia delle Entrate che consentirebbero di capire in cifre l’esatta entità del problema e la tempistica con la quale si è manifestato, nonché gli effetti che questi crediti avranno sul debito pubblico dei prossimi anni. Gli effetti del blocco sul settore delle costruzioni e sul Pil Da gennaio di quest’anno il Superbonus è sostanzialmente abolito e la sua abolizione non è stata certo un capriccio del governo, ma è dovuta al fatto che, lungi dall’autofinanziarsi, il Superbonus sta recando notevoli squilibri ai conti pubblici.
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Superbonus: effetti minuscoli sul Pil e costi enormi per lo Stato
Gli incentivi sono stati ben lungi dall’autofinanziarsi; sommando il superbonus e il bonus facciate, hanno avuto un costo complessivo, fino a dicembre 2023, di 170 miliardi e hanno generato un maggior gettito per lo stato di soli 70 miliardi. Un incentivo che non ha effetti sul potenziale di crescita dell’economia, quando viene meno, è destinato a produrre un effetto negativo più o meno della stessa ampiezza di quando è stato introdotto. Quindi, anche senza fare complicati calcoli, si può facilmente concludere che l’effetto netto sul Pil dell’anno 2024 e seguenti è essenzialmente nullo; come se gli incentivi non ci fossero mai stati. Nel caso dei bonus edilizi, gli effetti negativi di fine corsa potrebbe anche essere maggiori degli effetti positivi iniziali se, come è probabile, qualche proprietario di immobile è stato indotto ad anticipare investimenti che sarebbero stati fatti comunque negli anni successivi. Soprattutto, se si ragiona su effetti di medio o lungo termine, la pietra di paragone sono gli incentivi agli investimenti produttivi e all’innovazione: industria 4.0 e seguenti. Questi incentivi sostengono la domanda nel breve periodo, anche più degli incentivi edilizi, ma, soprattutto, danno vigore al potenziale di crescita dell’economia. Politiche keynesiane di semplice stimolo alla domanda, senza apprezzabili effetti sull’offerta aggregata, sono condannate a lasciare dietro di sé rovine: più debito e nessun contributo al Pil. Una lezione antica: speriamo che sia stata imparata.