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Il debito pubblico inizierà a scendere quando il deficit sarà sotto controllo

09 settembre 2024

Il debito pubblico inizierà a scendere quando il deficit sarà sotto controllo

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Intervista di Eugenio Occorsio a Giampaolo Galli su Affari&Finanza.

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«La rivoluzione, quella che l’Europa ci chiede nella finanza pubblica, ha un nome semplice: sguardo lungo. Invece del monitoraggio anno per anno dobbiamo guardare alle tendenze di lungo periodo per assicurare la sostenibilità del debito. Ciò richiede un’inversione di tendenza: possiamo chiamarla tecnicamente “differenza fra disavanzo tendenziale e programmatico” ma sempre di quello si tratta: la modifica percentuale del deficit deve essere negativa, cioè una riduzione anche solo dello zero virgola. Invece si ragiona con un punto fermo, quello zero virgola è positivo, cioè un aumento del deficit». Giampaolo Galli, economista con un PhD al Mit, dirige l’Osservatorio sui conti pubblici e insegna all’Università Cattolica. Identifica i “bullet point” dove arginare il debito pubblico che a fine anno arriverà a 3 mila miliardi. «Il punto di partenza, per stare alle indicazioni della Commissione, è appunto il deficit. Solo quando si sarà ridotto (oggi è del 4,3% dopo il livello monstre del 7,2% nel 2023 per la contabilità anticipata del superbonus) e sarà stato portato nei pressi del 3%, si avvierà la riduzione del rapporto debito/Pil».

Sembra un obiettivo lontano.

«I tempi sono quelli concordati con Bruxelles, inseriti nel patto di Stabilità e confermati dall’accordo europeo del 20 luglio: quattro anni che possono arrivare a sette per i Paesi che si impegnano nelle riforme strutturali. C’è un’altra clausola spesso dimenticata: una volta completato l’aggiustamento, occorre aver messo in sicurezza il bilancio pubblico in modo tale che per i dieci anni successivi non ci sia il rischio che i conti deraglino nuovamente».

È credibile un meccanismo di così lungo termine quando i tempi della politica, non solo in Italia, sono per definizione di corto respiro?

«A parte che è previsto che in occasione delle elezioni politiche venga accordata al Paese una pausa di riflessione e di eventuali modifiche, è l’unica via per garantire stabilità all’Unione. È la pietra angolare su cui edificare l’Europa del futuro di cui parlano Draghi e Letta: un grande mercato unico solido e coeso, dotato di un bilancio proprio con cui finanziare beni comuni come la difesa, in grado di tenere testa ai giganti mondiali. È la base di tutto. Lo stesso Def 2024 contiene un ampio capitolo dedicato alle prospettive di lungo termine di deficit e debito che considerano variabili fondamentali come la demografia, i tassi d’interesse, gli avanzi primari ancora da conseguire».

Cosa si legge in queste pagine trascurate del Def?

«Intanto che in mancanza di misure strutturali, ovvero le agognate riforme, il debito è destinato a impennarsi fino al 151% nel 2031 e poi chissà. Con le riforme, invece, ci sarà sì un ulteriore ritocco verso l’alto fino al 141% (dall’attuale 137%) nel 2026, sempre per i costi del superbonus, e poi si dovrebbe imboccare finalmente il lento recupero che ci porterà al 136% nel 2031, per poi procedere ulteriormente sulla via virtuosa».

Quali sono le riforme più urgenti?

«Qualcuna già avviata come la giustizia civile e in parte la concorrenza. Molte altre da attuare, molte già previste nel Pnrr: contrattazione da reimpostare su base decentrata d’accordo con i sindacati, competizione nel trasporto pubblico, politiche attive del lavoro, formazione, integrazione di più immigrati. Tutte avrebbero un riscontro in termini di punti di Pil. Il rammarico è che di queste riforme si sente il bisogno da decenni ma raramente abbiamo avuto un governo che, ci piaccia o no, è dotato di una maggioranza così forte. È un’occasione forse irripetibile. Che possano realizzare i loro disegni lo dimostrano con misure divisive come l’autonomia differenziata e il premierato. Per il salto di qualità servono competenze, coordinamento, volontà politica: come dimostrano i ritardi sul Pnrr sono piuttosto carenti».

Il governo punta sulla politica per le famiglie. È sbagliato?

«No, purché non tocchino l’assegno unico e magari rinuncino al braccio di ferro con la Ue sulla questione degli immigrati non residenti, e poi realizzino asili nido e misure per conciliare famiglia e lavoro. Il problema è che è arduo valutare misure per la natalità in termini di crescita: possono servire dieci o vent’anni perché le nuove famiglie si convincano che si possono fare figli, e poi altri venti perché questi si affaccino sul modo del lavoro».

Per fare cassa si insiste sulle privatizzazioni anche se una tantum. Si può procedere ancora?

«Qualcosa si può fare con Poste ed eventualmente un’altra piccola tranche di Eni. Però il discorso potrebbe non finire qui: penso alla Rai, purché ci siano regole che evitino la formazione di monopoli privati (non vorrei che la comprasse Elon Musk), e, perché no, alle FS».

Un bel carrozzone di Stato in cronico deficit...

«Dipende dal contratto di servizio e dai criteri di finanziamento. Da anni è invalso l’uso di finanziare in anticipo il contratto minimizzando le perdite».

Tornando alla manovra, esiste il “tesoretto”?

«Le Finanze hanno comunicato che fra gennaio e luglio le entrate fiscali sono migliorate di 19 miliardi, il 6,2%, e manca ancora una parte di contribuenti visto che per l’Irpef c’è tempo sino a fine mese. Però nello stesso tempo nell’“assestato di bilancio”, la previsione pubblicata dal Tesoro l’8 agosto, c’è una rivalutazione delle entrate per 26 miliardi affiancata da una rivalutazione delle uscite di pari valore. Insomma, è tutto da vedere».

Che fine ha fatto la spending review?

«Quasi non ce n’è parola nei documenti. Eppure, di spese da tagliare ce ne sarebbero, a partire dalla giungla di deduzioni e detrazioni fiscali. Per cominciare si potrebbe ridurne la regressività riservandole ai meno abbienti. Invece sono i più ricchi ad avvantaggiarsene. Serve una struttura dedicata presso il Mef come quella che aveva creato Carlo Cottarelli dieci anni fa, che invece si è dissolta nel disinteresse generale».

Un articolo di

Giampaolo Galli

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