Welfare

L’autonomia differenziata nella “tutela della salute”

25 luglio 2024

Intermedio

L’autonomia differenziata nella “tutela della salute”

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La legge 86/2024, recentemente approvata dal Parlamento grazie all’attivismo del governo e in particolare del ministro Calderoli, norma l’attuazione dell’autonomia differenziata prevista dall’art. 116 della Costituzione in 23 materie, fra le quali la “tutela della salute”. La legge è il risultato di un percorso che, dopo i negoziati del 2017, comprende le pre-intese che Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno firmato nel 2018. La legge solleva numerosi interrogativi sugli effetti concreti della sua applicazione, particolarmente in tema di “tutela della salute”, una materia per la quale le Regioni godono già di spazi di autonomia e per la quale si registrano notevoli differenze nei servizi offerti, come testimoniato anche dal monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), nonostante le risorse disponibili per le Regioni siano sostanzialmente simili. In assenza di un chiaro meccanismo di convergenza verso standard di servizio comuni, la devoluzione di ulteriori spazi di autonomia potrebbe portare a un’ulteriore divaricazione delle performance, con possibili aumenti dei flussi di pazienti verso le Regioni più virtuose che potrebbero dar luogo a effetti paradossali anche in questi territori.

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Il comma 3 dell’art. 116 della Costituzione riformata nel 2001 prevede la possibilità per le Regioni di richiedere al governo “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l) “giurisdizione e norme processuali”, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) “norme generali sull’istruzione” e s) “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Si tratta di una lista di 23 materie, molto eterogenee, che comprendono, oltre alle tre del secondo comma: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. La legge 86/2024, recentemente approvata dal Parlamento, norma l’attuazione dell’art. 116, la cosiddetta “autonomia differenziata”, e rappresenta il punto di arrivo di un percorso durato oltre sette anni.[1] Vediamo innanzitutto in sintesi come si è arrivati a questo provvedimento.

Storia minima dell’attuazione dell’autonomia differenziata

Premesso che il comma 3 dell’art. 116 della Costituzione è datato 2001, il percorso della sua attuazione è iniziato solo nel 2017, quando l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto (la prima su mandato del Consiglio regionale, le altre su mandato popolare dopo un referendum consultivo) hanno intavolato un negoziato con il governo Gentiloni. Fra le materie previste nelle pre-intese oggetto del negoziato ne rientravano solo quattro delle 23 identificate dalla Costituzione: la tutela del lavoro, l’istruzione, la tutela della salute, la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Le pre-intese tra queste tre Regioni e il governo sono state sottoscritte il 28 febbraio 2018 e sono le uniche che hanno finora raggiunto questo stadio. Tuttavia, a causa della fine della legislatura, non vennero mai esaminate dalle Camere e il quadro cambiò completamente con l’avvento del governo Conte I e la nuova maggioranza.

Infatti, anche altre Regioni (Liguria, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) avviarono dei negoziati con il nuovo governo Conte I, mentre le tre Regioni che avevano raggiunto le pre-intese chiesero un ampliamento dell’elenco di materie per le quali richiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia per arrivare a nuove pre-intese rispetto a quelle firmate con Gentiloni. Ma con la fine del governo Conte I e l’arrivo del nuovo governo Conte II, il confronto tra l’esecutivo e le Regioni si è fatto più acceso, anche perché stabilire quali funzioni possano essere effettivamente devolute alle Regioni nell’ambito di 23 materie molto diverse è estremamente complicato.

Proprio per queste ragioni, ha cominciato a farsi strada l’idea di approvare una “legge quadro” che definisse il modello all’interno del quale si doveva svolgere la contrattazione su ogni funzione richiesta da ogni Regione e il governo stesso. Si arriva quindi, poco prima dello scoppio della pandemia nel 2019, alla bozza “Boccia”, la prima ad introdurre una chiara sequenza temporale che prevede, per le materie in cui si riconosce maggiore autonomia alle Regioni, la definizione preliminare dei LEP e degli obiettivi di servizio in modo da quantificare i fabbisogni standard e il relativo finanziamento. La bozza “Boccia” riprende anche il tema della perequazione infrastrutturale come condizione aggiuntiva per garantire i LEP.

Con la pandemia si blocca tutto. Poi, quando la pandemia rallenta, la discussione sull’attuazione dell’art. 116 riprende, ma la bozza viene solo leggermente modificata durante il governo Draghi, senza però fare ulteriori passi avanti significativi. È con il nuovo governo Meloni e la nuova maggioranza che il tema ha ricevuto un ulteriore impulso e, anche grazie all’attivismo del nuovo ministro per gli Affari Regionali, si arriva all’approvazione del ddl “Calderoli” prima in Senato (gennaio 2024) e poi alla Camera (giugno 2024), quindi alla legge 86/2024.

L’autonomia regionale in sanità

L’autonomia “differenziata” riguarda 23 materie, per 14 delle quali è prevista la determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP).[2] Fra queste rientra la materia “tutela della salute”, materia in realtà già da tempo regionalizzata. Come detto, l’attuale Costituzione identifica la “tutela della salute” come una delle materie di legislazione concorrente, quindi con competenze legislative sia in carico allo Stato sia alle Regioni stesse (art. 117, comma 3). L’interpretazione ampiamente condivisa è che allo Stato spetti la legislazione quadro, mentre alle Regioni la legislazione di dettaglio per l’effettiva fornitura del servizio.

Un esempio è quello degli standard di servizio: se i LEP rappresentano proprio “standard minimi di servizio” da garantire ai cittadini su tutto il territorio nazionale, i loro antenati in materia sanitaria sono i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Questi costituiscono “le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse)”.[3] I LEA sono stati introdotti all’inizio degli anni Novanta, quando le Regioni godevano già di autonomia amministrativa e funzionale in tema di tutela della salute, e sono stati perfezionati negli anni fino a creare un sistema che identificasse le prestazioni sanitarie che dovevano essere garantite a livello nazionale, con relativi indicatori e sistema di monitoraggio.[4] I LEA vengono determinati dallo Stato (art. 117, comma 2, lettera m), e le Regioni sono incaricate di programmare e gestire – negli spazi di autonomia lasciati dalle norme statali – la fornitura di questi servizi nell’ambito territoriale di competenza.

La regionalizzazione del sistema sanitario precorre però sia la riforma costituzionale del 2001 sia l’introduzione dei LEA, essendo in realtà eredità di una riforma del 1992 (d.lgs. 23 dicembre 1992, n. 502).[5] Il d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, ha poi sancito la coesistenza fra il carattere nazionale del servizio sanitario e la sua regionalizzazione, dando al SSN il ruolo di “complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali” (art. 1, comma 1). Il punto di collegamento erano proprio i LEA, definiti a livello nazionale “contestualmente alla determinazione delle risorse finanziarie” e “garantiti in modo uniforme da tutte le Regioni attraverso le Aziende sanitarie locali” (DPCM 29 novembre 2001).

Con la riforma del titolo V della Costituzione, nel 2001, si sono consolidate le competenze regionali acquisite nel tempo. Il processo di decentramento si è tradotto nell’attribuzione di autonomia legislativa e finanziaria, pur sempre sottoposta ad un quadro normativo di riferimento stabilito a livello nazionale. Il campo di azione è stato ufficialmente esteso alla “tutela della salute” e i LEA diventano parte fondamentale di questo meccanismo, in quanto monitorati a livello centrale, per garantire che la differenziazione nelle modalità di fornitura del servizio consentisse comunque a tutti i cittadini di fruire di certi standard di servizio. Qui implicitamente si legge uno dei vantaggi del decentramento: esperienze differenti nelle modalità di fornitura dei LEA possono aiutare ad identificare le migliori pratiche, che dopo questa “sperimentazione” dovrebbero essere implementate da tutte le Regioni.

Negli anni Novanta, il processo di decentramento sperimentato nella tutela della salute non si è però limitato all’autonomia amministrativa e funzionale, ma si è spinto oltre, arrivando a prime forme di autonomia fiscale. Sono da leggere in tale direzione l’introduzione dell’Irap e dell’addizionale regionale all’Irpef nel 1997, due tributi pensati per finanziare proprio la spesa sanitaria regionale. Il tentativo di responsabilizzare le Regioni dal lato del finanziamento, come suggerito dalla letteratura economica sul federalismo fiscale, è stata la soluzione pensata quegli anni per risolvere il problema delle aspettative di ripiano dei disavanzi che aveva caratterizzato la sanità regionale degli anni Ottanta.[6] Questo processo di decentramento fiscale si è poi sgonfiato nella prima parte degli anni Duemila, a partire da alcune sentenze della Corte costituzionale. Al momento, quindi, mentre si discute dell’attuazione dell’art. 116, resta inattuato l’art. 119, comma 2, in particolare per quanto attiene ai tributi e alle entrate proprie delle Regioni.

A partire dal 2004 riprendono anche a crescere i disavanzi regionali, questa volta però concentrati in alcune realtà regionali (in particolare, per dimensione assoluta, il Lazio). La risposta del governo è l’introduzione di Piani di Rientro regionali, che prevedono il ripristino di un equilibrio finanziario strutturale e il mantenimento dell’erogazione dei LEA. I Piani vengono contrattati tra il governo (in particolare il MEF per la parte finanziaria e il Ministero della Salute per quanto concerne i LEA) e la singola regione in difficoltà debitoria.[7] Con la legge di stabilità per il 2016, il governo centrale si era spinto fino ad introdurre Piani di Rientro aziendali per le singole Aziende Ospedaliere o IRCCS in difficoltà finanziarie; ma questo provvedimento non fu mai realmente applicato.[8]

Le nuove richieste delle Regioni

Nel quadro che abbiamo delineato, la legge 86/2024 apre alle Regioni la possibilità di chiedere ulteriori funzioni anche in materia di “tutela della salute”. Nessuno sa chiaramente cosa chiederanno le Regioni ma qualche suggerimento può arrivare dalle pre-intese firmate con il governo Gentiloni da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto.[9]

Quali reali conseguenze avrebbero potuto produrre questi preaccordi? Difficile dirlo perché l’autonomia regionale è comunque limitata dalla norma statale. Per esempio, in assenza di specifici finanziamenti, si può argomentare che la possibilità di rimuovere alcuni dei vincoli di spesa collegati al personale, al momento sottoposti alla normativa statale, avrebbe dovuto comunque sottostare al vincolo di bilancio che dipende da una allocazione delle risorse con criteri definiti dallo Stato. Considerazioni simili sui vincoli di bilancio, cui si aggiunge anche la normativa sui LEA, valgono per le richieste di maggiore autonomia relativa al sistema tariffario, di rimborso, remunerazione e compartecipazione relativamente ai residenti nella Regione.

Le delibere dell’AIFA possono vincolare la domanda di maggiore autonomia nel caso di richieste di valutazione di equivalenza terapeutica di farmaci (per le quali vale il principio di silenzio-assenso o, nel caso di delibera, l’estensione della valutazione a tutto il territorio nazionale) e le maggiori competenze in materia di distribuzione ed erogazione di farmaci (una richiesta avanzata specificatamente dall’Emilia-Romagna).

Infine, vi sono diverse richieste che sembrano non essere vincolate in alcun modo dalla norma statale quali la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato di “specializzazione lavoro” per i medici, come alternativa per l’accesso alle specializzazioni, e quindi di stipulare accordi con le Università del territorio, e la maggiore autonomia in termini di programmazione di interventi edilizi e tecnologici del SSN su base pluriennale.

Diseguaglianze e decentramento

Il Servizio Sanitario nazionale ha, fra i suoi principi, quello di garantire una copertura universale e un accesso uniforme ai servizi su tutto il territorio nazionale. Per questo motivo, l’autonomia regionale in materia di sanità è sempre stata fonte di discussione e spesso individuata come causa delle differenze fra Regioni. In sanità, infatti, nonostante la definizione dei LEA nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali. Le prestazioni sottostanti alla definizione dei LEA riguardano tre aree: assistenza sanitaria collettiva negli ambienti di vita e lavoro (attività di prevenzione per i singoli e per la collettività), assistenza distrettuale (attività e servizi sanitari e sociosanitari del territorio) e assistenza ospedaliera (attività e servizi offerti nei presidi ospedalieri). Fino al 2019 l’adempimento ai criteri LEA era misurato tramite la c.d. “Griglia LEA”, che forniva un punteggio complessivo e l’appellativo di “adempiente” o “non adempiente” per ogni regione. Già con la Griglia LEA erano evidenti le disuguaglianze fra le Regioni, dal momento che i punteggi più bassi si concentravano nel Mezzogiorno (fatta eccezione per la Valle d’Aosta e la Provincia Autonoma di Bolzano). Nel 2019, per esempio la Calabria risultava inadempiente con un punteggio di 125, mentre le Regioni adempienti più virtuose erano Veneto e Toscana con 222 punti. Dal 2020 il monitoraggio dei LEA viene invece effettuato con il Nuovo Sistema di Garanzia, un sistema che, fra le altre cose, impone che si raggiunga la sufficienza in tutte e tre le macro-aree di assistenza per considerare una regione adempiente. La nuova metodologia, però, conferma il quadro già dipinto negli anni precedenti: quasi sempre le Regioni inadempienti sono proprio quelle del Mezzogiorno. Nel 2022, infatti la Calabria, la Sardegna e la Sicilia hanno un punteggio insufficiente per l’area distrettuale e l’area prevenzione, Abruzzo e Molise risultano sottosoglia per l’area della prevenzione mentre la Campania non raggiunge un punteggio sufficiente nell’area distrettuale. La cattiva performance sul fronte LEA si coniuga molto spesso con la cattiva performance sul fronte finanziario: nel 2023 le Regioni sottoposte a Piano di Rientro erano proprio Abruzzo, Campania, Calabria, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia – ancora una volta le Regioni del Mezzogiorno.[10]

Le differenze nei LEA sono ulteriormente aggravate dalle differenze negli outcome di salute. Pur sapendo che ci sono tanti determinanti dietro alla salute, le differenze tra Regioni sono significative. Nel 2023 la stima Istat per l’aspettativa di vita alla nascita in Italia è pari a 83,1 anni, rappresentata nella Fig. 1 con una linea retta tratteggiata.[11] Tuttavia, guardando alle singole Regioni, è possibile constatare come nel Trentino-Alto Adige, per esempio, l’aspettativa di vita si alzi a 84,3 anni, in Lombardia a 83,9 e nel Veneto a 83,4; d’altra parte, in Calabria, Sicilia e Campania si arriva solo a 82, 81,8 e 81,4 anni rispettivamente.

Queste diseguaglianze nei LEA e negli outcome di salute si osservano nonostante le risorse siano distribuite in modo relativamente omogeneo tra le Regioni, grazie alla funzione di perequazione rispetto alla disponibilità di risorse svolta proprio dallo Stato centrale. Infatti, nonostante il finanziamento pro capite con imposte “regionali” nel 2022 vari dai 131 euro in Calabria ai 787 euro in Lombardia, il finanziamento effettivo (che tiene conto della funzione perequativa svolta dallo Stato), sempre nel 2022, varia da 2.038 euro della Campania ai 2.299 euro della Liguria.

La maggiore omogeneità nelle risorse disponibili rispetto a quanto osservato per gli esiti suggerisce che l’origine delle diseguaglianze deve ritrovarsi nel modo in cui le risorse vengono utilizzate tra le diverse Regioni. Per esempio, lo skill mix in termini di personale potrebbe avere un impatto notevole sulla capacità dei diversi sistemi sanitari regionali di fornire i servizi in modo efficiente e appropriato. Da questo punto di vista, la Fig. 2 mostra per esempio notevoli differenze in termini di personale del SSN per abitanti. Secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2022 in Italia erano impiegati 1,7 medici e odontoiatri per abitante. Tale rapporto, però, subisce importanti variazioni a livello territoriale, passando dal 2,5 in Sardegna e il 2,4 in Valle d’Aosta all’1,3 in Lombardia e Liguria. D’altra parte, se in Italia vi sono 4,5 infermieri per 1000 abitanti, il rapporto sale a ben 6,2 in Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia e scende al 3,5 in Campania e Sicilia.[12] Questo implica che il rapporto tra infermieri e medici vari da 3,5 nel Veneto a 1,9 in Sicilia (con una media nazionale di 2,6). Questo rapporto è importante perché da un lato – sulla base di considerazioni finanziarie – implica un costo inferiore per produrre i servizi laddove è più alto, perché gli infermieri hanno una remunerazione inferiore rispetto ai medici, ma dall’altro – sulla base di considerazioni legate alla produttività – consente di valutare la capacità dei sistemi di produrre i servizi. Avere solo medici (o un rapporto particolarmente basso tra infermieri e medici) dentro un ospedale impedirebbe infatti il funzionamento dell’ospedale stesso e contribuirebbe a spiegare le differenze a valle rispetto ai LEA.

Se ci limitiamo all’ospedale, queste considerazioni valgono anche per quanto riguarda il limite alla capacità produttiva del sistema, che è dettato dal numero di posti letto per abitanti, un numero peraltro definito dalla normativa nazionale. Nel 2021 la media in Italia certificata da Istat è di 390 posti letto ogni 100 mila abitanti. Tuttavia, questo numero varia significativamente a seconda della regione considerata. Il range, infatti, va dai 443 posti letto ogni 100 mila in Lombardia ai 280 posti letto della Calabria. La variazione è notevole anche se si rapporta il numero di medici e infermieri per posto letto. In questo caso, il range va dai 0,3 medici per posto letto e 0,8 infermieri per posto letto in Lombardia ai 0,7 medici per posto letto e 1,8 infermieri per posto letto in Toscana.

Le implicazioni dell’autonomia differenziata

Cosa succederà con l’autonomia differenziata alle diseguaglianze fra le Regioni? Molto dipenderà da quali funzioni verranno effettivamente devolute alle Regioni e quali finanziamenti aggiuntivi comporteranno queste nuove attribuzioni. Per come è scritta la legge, tuttavia, e dato il vincolo dei LEA è difficile pensare che su una materia sensibile come la sanità si arrivi ad un riparto delle risorse che si discosti dal pro capite (parzialmente aggiustato per la struttura per età della popolazione) che si osserva oggi.

Il vero problema è – come già notato in precedenza – che nonostante l’omogeneità relativa nella disponibilità di risorse si continuino ad osservare diseguaglianze negli esiti in termini di LEA.[13] Quello che è mancato finora, ed è illustrativo di quello che potrà accadere anche con i LEP, è l’adozione di politiche che favoriscano davvero la convergenza verso standard di servizio comuni.[14] In assenza di convergenza o, peggio, in presenza di un peggioramento delle differenze, è lecito per esempio attendersi un peggioramento anche dei flussi di mobilità dei pazienti verso le Regioni del Centro-Nord del Paese, con conseguenze negative anche per i cittadini di queste Regioni in termini di congestione dei servizi. In questo caso, l’autonomia differenziata potrebbe produrre l’esito paradossale di scontentare tutti.


[1] Si veda la nostra precedente nota: “Autonomia differenziata, il rischio dello Stato arlecchino”, 19 giugno 2024.

[2] Queste sono: norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.

[3] Vedi: “Servizio sanitario nazionale: i LEA – Cosa sono i LEA”, Ministero della salute.

[4] Per maggiori informazioni si veda la nostra precedente nota: “Cosa insegna l’esperienza dei LEA per l’autonomia differenziata”, 31 marzo 2023.

[5] Per maggiori informazioni si veda F. Taroni, “Salute, sanità e Regioni in un Servizio sanitario nazionale”, Treccani, 2015.

[6] Per maggiori informazioni si veda la nostra precedente nota: “Come viene finanziata la sanità tra le Regioni”, 31 maggio 2024.

[7] Si veda la nostra precedente nota: “I Piani di Rientro della sanità regionale: quali risultati finora?”, 5 agosto 2019.

[8] Si veda “La spending review sanitaria”, Camera dei deputati – Servizio studi, 14 febbraio 2022.

[9] Per maggiori informazioni si veda M. Bordignon, L. Rizzo, G. Turati, “Il dibattito sull’autonomia differenziata: una valutazione generale a partire dalle proposte del governo”, Centro Interuniversitario sulla Finanza Regionale e Locale (CIFREL) – Università Cattolica del Sacro Cuore, 1 maggio 2023, e “Report Osservatorio GIMBE n. 2/2024 – L’autonomia differenziata in sanità”, Fondazione GIMBE, Bologna, 21 marzo 2024.

[10] Vedi la pagina web di riferimento del Ministero della Salute.

[11] I dati di questa sezione sono provvisori al momento della stesura della nota; nel 2022 l’aspettativa di vita italiana si attestava a 82,6 anni, con il valore massimo nel Trentino-Alto Adige (83,8 anni) e il minimo in Campania (81,0 anni).

[12] Il calcolo è stato effettuato sui dati del Ministero della Salute nel documento “Personale delle A.S.L. e degli istituti di ricovero pubblici ed equiparati – Anno 2022” e sui dati Istat relativi alla popolazione residente al 1° gennaio.

[13] Si veda la nostra precedente nota: “Cosa insegna l’esperienza dei LEA per l’autonomia differenziata”, 31 marzo 2023.

[14] Si veda G. Turati, “Si fa presto a dire LEA”, Lavoce.info, 26 febbraio 2024.

Un articolo di

Massimo Bordignon, Ilaria Maroccia, Francesco Scinetti, Gilberto Turati

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