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Cosa prevede davvero la legge sull’autonomia differenziata e perché è tanto controversa

13 luglio 2024

Intermedio

Cosa prevede davvero la legge sull’autonomia differenziata e perché è tanto controversa

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Essendo oggetto di un dibattito politico tanto infuocato, la legge sull’autonomia differenziata è stata interpretata in molti modi diversi: per alcuni spacca il Paese, per altri costruisce la solidarietà nazionale perché garantisce a tutti i Lep (Livelli Essenziali delle Prestazioni). Di seguito, spieghiamo cosa dice effettivamente la legge. Alla fine, le scelte cruciali (federalismo responsabile o centralizzazione delle risorse; Stato arlecchino o omogeneità di funzioni; peso relativo delle funzioni dello Stato e delle regioni) sono rimandate. Quello che si può dire è che la legge non esclude che possano prevalere scenari assai preoccupanti sia per il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni sia per i conti pubblici. [1]

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Lo scopo della legge a prima firma del ministro Roberto Calderoli (pubblicata in GU come L. 26/06/2024 n. 86) è quella di dare una cornice unitaria per l’attuazione dell’art. 116 della Costituzione, come riformato dal governo Amato nel 2001, che prevede il trasferimento di funzioni e relative risorse alle regioni a statuto ordinario (RSO) che ne facciano richiesta. Dunque, si tratta di principi, più che di fatti. Peraltro, lo stesso art. 116 della Costituzione prevede che l’attribuzione di particolari funzioni alle regioni deve essere approvata dalle Camere “a maggioranza assoluta dei componenti”. Questa è una procedura un po’ più impegnativa di quella che si adotta usualmente (“maggioranza semplice dei presenti”) per le leggi ordinarie.

Quali materie possono essere attribuite alle regioni?

Tutte quelle che sono previste dall’art. 116 della Costituzione e cioè tutte le venti materie che attualmente sono definite “concorrenti”, ossia sulle quali vi è una competenza condivisa fra lo Stato e le RSO, più tre materie (giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, ambiente e beni culturali) che attualmente sono di competenza esclusiva dello Stato. La richiesta iniziale della regione Veneto, nel 2017, poi fortemente ridimensionata nell’accordo con il governo del 2018, era l’attribuzione di tutte le ventitré materie trasferibili. Le venti materie concorrenti sono le seguenti:

  • rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
  • commercio con l’estero;
  • tutela e sicurezza del lavoro;
  • istruzione, salvo l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale;
  • professioni;
  • ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
  • tutela della salute;
  • alimentazione;
  • ordinamento sportivo;
  • protezione civile;
  • governo del territorio;
  • porti e aeroporti civili;
  • grandi reti di trasporto e di navigazione;
  • ordinamento della comunicazione;
  • produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;
  • previdenza complementare e integrativa;
  • coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
  • valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;
  • casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
  • enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Fra le più importanti, e controverse, citiamo: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; istruzione; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; alimentazione; protezione civile; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; energia.

Come si vede si tratta di materie importanti (si pensi all’istruzione), su cui peraltro le regioni avrebbero potestà legislativa. Difficile non vedere il rischio che aumenti la complessità e la confusione normativa, con oneri burocratici aggiuntivi per i cittadini e le imprese. Ricordiamo che per le materie concorrenti la Costituzione prevede che spetti “alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Questa supremazia dello Stato verrebbe meno una volta che la materia fosse trasferita a una regione, la quale avrebbe potestà legislativa esclusiva. È auspicabile, anche se non è certo, che materie come i rapporti internazionali, le grandi reti, l’energia e l’istruzione non vengano devolute in toto, come peraltro la legge Calderoli consentirebbe, ma vengano ritagliate in modo da garantire una primazia dello Stato almeno sulle grandi questioni di principio. Va peraltro ricordato che la formulazione dell’art. 116 non sembra consentire un trasferimento massivo di funzioni alle regioni. Esso recita infatti: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. Dunque, sembra che l’art. 116 si riferisca ad ambiti particolari, al margine, e non a un capovolgimento del ruolo dello Stato e delle regioni. Vi è inoltre il richiamo ai principi dell’art. 119 che riguardano le compatibilità finanziarie nazionali, nonché la coesione e la solidarietà nazionale.

A cosa servono i Lep

I Lep sono i Livelli Essenziali delle Prestazioni e a norma di Costituzione (art. 117) vengono fissati dalla Stato per i “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Quindi, in linea di principio, i Lep riguardano la totalità dei “diritti civili e sociali”. Tuttavia, la legge ne estrapola un ampio sottoinsieme e delega il governo a definirli entro 24 mesi. Questo significa che per tutto questo sottoinsieme di materie nulla dovrebbe accadere prima di 24 mesi, anche se un notevole lavoro preparatorio (su oltre 200 Lep) è stato già fatto da una commissione tecnica presieduta del Prof. Sabino Cassese. E probabilmente il tempo necessario sarà anche maggiore perché si prevede che i decreti che definiscono i Lep siano adottati “solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanziano le occorrenti risorse finanziarie” (art. 3 comma 7). Se non ci sono i soldi, quindi, non si possono emanare i decreti sui Lep e non si possono trasferire le funzioni e le risorse. Per questo motivo, nelle prime dichiarazioni di esponenti di regioni del Nord, è emersa l’intenzione di chiedere subito l’attribuzione delle materie la cui devoluzione non è subordinata alla definizione dei Lep. Queste materie, tutte facenti parte dell’elenco delle materie concorrenti, sono le seguenti:

  • rapporti internazionali e con l’Unione europea;
  • commercio con l’estero;
  • professioni;
  • protezione civile;
  • previdenza complementare e integrativa;
  • coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
  • casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
  • enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Anche in questo caso non si tratta affatto di materie di poco conto e anche in questo caso le regioni avrebbero potestà legislativa.

Perché i Lep sono tanto importanti

I Lep sono fondamentali per assicurare parità di trattamento di tutte le regioni. L’articolo chiave che chiarisce il ruolo dei Lep è l’art. 4 comma 1, in cui si dice che, se dalla determinazione dei Lep derivano costi aggiuntivi per la finanza pubblica, il trasferimento di funzioni alle regioni che le hanno richieste può essere effettuato “solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale, ivi comprese le Regioni che non hanno sottoscritto le intese”. L’espressione non è chiarissima (forse si andrà a parare sulla spesa storica), ma è chiara la finalità: “scongiurare disparità di trattamento tra Regioni”. Quindi, per le materie per le quali sono richiesti i Lep (la maggioranza), il trasferimento di funzioni è soggetto a condizioni molto stringenti.

La disputa Nord-Sud sulle risorse

Nella narrazione del partito che fino a pochi anni fa si chiamava “Lega Nord”, i Lep erano visti come il mattone a cui agganciare i costi standard e dunque i trasferimenti statali, al fine di mettere fine allo spreco di risorse che si riteneva avesse luogo nel Mezzogiorno. Secondo gli ultimi dati disponibili elaborati dalla Banca d’Italia, nel Mezzogiorno l’eccesso di spesa rispetto alle entrate del territorio è di 3.178 euro a testa, ossia quasi 70 miliardi all’anno che provengono dalle altre regioni, le quali, in aggiunta, danno un contributo positivo al saldo di bilancio della Nazione (si veda la Tav. 1). L’esperienza dei Lea in sanità, istituiti nel 2001, ha mostrato quanto sia difficile questa equazione perché è difficile stabilire i Lea, e ancor più difficile è stabilire un prezzo unitario per ogni possibile acquisto, ed è sotto gli occhi di tutti che le disparità nei livelli di servizio non si sono affatto ridotte. Che i Lep non siano sufficienti a superare le diseguaglianze territoriali è esplicitamente riconosciuto dalla presente legge che all’art. 10, impone allo Stato di stanziare risorse aggiuntive al fine di “garantire l’unità nazionale, nonché la promozione dello sviluppo economico, della coesione della solidarietà sociale, dell’insularità, della rimozione degli squilibri economici e sociali”.

Come avverrebbe il trasferimento di funzioni

La procedura che porta all’approvazione del trasferimento delle funzioni è il cuore del provvedimento e occupa parecchi articoli (art. 2 e seguenti).

Sintetizzando, quasi tutto l’iter è rappresentato da una trattativa all’interno di una commissione paritetica fra lo Stato e ogni singola regione interessata che porta a un’intesa preliminare. La Conferenza Stato-Regioni e il Parlamento vengono informati e possono esprimere dei pareri che però non sono vincolanti. Solo al termine del negoziato lo schema di intesa viene sottoposto all’approvazione del Consiglio dei ministri che lo trasmette alle Camere; come si è detto, queste deliberano a maggioranza assoluta dei componenti. Verosimilmente, il Parlamento può solo approvare o respingere, ma non emendare; a meno di rimettere in moto la procedura della trattativa bilaterale.

Può lo Stato limitare il perimetro delle materie oggetto del negoziato?

All’inizio del negoziato fra lo Stato e la regione, può intervenire il Presidente del Consiglio per limitare l'oggetto del negoziato ad alcune materie, “al fine di tutelare l’unità giuridica o economica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie” (art. 2 comma 2).

Attribuzione delle risorse alle regioni e loro modificazione nel tempo

Nell’intesa di cui si è detto sopra, si concorda anche l’attribuzione alla regione delle risorse finanziarie, materiali e umane necessarie per l’espletamento delle funzioni trasferite (art. 5). Per le risorse finanziarie sono previste “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul proprio territorio”. Dunque, non vi sono risorse proprie che le regioni possano manovrare come ritengono meglio, il che non configura ciò che di solito viene definito “federalismo responsabile”. Non solo: ogni anno, le aliquote di compartecipazione vengono variate dal Ministro dell’Economia su proposta di commissione paritetica Stato-regione al fine di “riallineare” le risorse con i fabbisogni necessari a sodisfare i Lep (art. 8 comma 2). In pratica, le Regioni non hanno autonomia finanziaria; le chiavi della cassaforte sono in mano allo Stato centrale che le dovrebbe usare ai fini della perequazione. L’unico dubbio riguarda il fatto che la proposta deve venire da una commissione paritetica, nella quale la regione interessata difficilmente potrà essere d’accordo a rinunciare all’“eccesso di risorse” che si fosse eventualmente formato sul proprio territorio. Forse questa è l’unica finestra rimasta che potrebbe consentire alle regioni che crescono di più o fanno un uso più oculato delle risorse di trattenere le risorse sul proprio territorio.

Quanto costa l’autonomia differenziata?

Secondo l’art. 9 della legge il costo dovrebbe essere nullo. Tuttavia, alcuni costi aggiuntivi sono quasi certi. I principali dipendono dalla confusione normativa che può emergere in una situazione in cui le regioni hanno competenze diversificate su materie di grande importanza. Vi è anche il rischio di duplicazioni di costi fra lo Stato centrale e le regioni, se solo alcune regioni chiedono l’attribuzione di una determinata materia, e del venir meno di economia di scala e di scopo. Infine, vi è il rischio di costi aggiuntivi legati all’obbligo in capo allo Stato di dare alle regioni tutte le risorse che sono necessarie per finanziare i Lep.

Perché la legge è tanto controversa: possibili vantaggi e critiche

Possibili vantaggi. Chi difende questa legge sottolinea che: è bene che le decisioni vengano prese da chi è più vicino ai cittadini-elettori; che la legge nulla toglie alle regioni del Sud, ma ne responsabilizza gli amministratori; che lo status quo non ha affatto consentito di ridurre il divario in termini di reddito e di servizi fra diverse aree del Paese.

Le critiche. I critici puntano il dito sul rischio che vengano svantaggiate le regioni in ritardo di sviluppo. Ciò potrebbe avvenire qualora le regioni più ricche riuscissero ad accumulare risorse in eccesso rispetto a quanto necessario per finanziare i Lep (per esempio perché fanno un uso più oculato delle risorse), nonché a trattenere tali risorse sul proprio territorio. Quest’ultimo è un punto di grande importanza che la legge lascia irrisolto in quanto rimanda alle regole di funzionamento delle commissioni paritetiche fra lo Stato e le singole regioni; regole la cui definizione è affidata alle singole intese. Qualora le regioni con un eccesso di risorse riuscissero a trattenerle si avrebbe una sottrazione di risorse a danno o del bilancio dello Stato o delle altre regioni. Una critica diametralmente opposta punta il dito sul fatto che la legge non modifica lo status quo di un decentramento senza responsabilità. Ciò perché le regioni hanno il privilegio di spendere e lo Stato ha l’onere di tassare; la critica ha ragion d’essere se, in sede di commissioni bilaterali, lo Stato riesce a redistribuire le risorse delle regioni in eccesso. Una terza critica afferma che l’autonomia dovrebbe essere simmetrica e non differenziata; c’è il rischio di una Repubblica con il vestito di Arlecchino, in cui diventa difficilissimo, sia per lo Stato sia per i cittadini e le imprese, districarsi fra tante competenze diverse nelle diverse regioni. È peraltro probabile che la richiesta di maggiore autonomia provenga da molte regioni, in tutto il Paese; a ognuna di queste richieste corrisponderà una diversa commissione bilaterale Stato-regione, con il rischio evidente di creare un notevole caos amministrativo. Un’ulteriore critica riguarda il perimetro delle materie che possono essere trasferite. Molti ritengono che non dovrebbero essere decentrate funzioni quali l’energia, i trasporti, l’istruzione, le telecomunicazioni, l’ambiente e il commercio con l’estero.

Si sottolinea infine il rischio che lo Stato sia privato delle risorse finanziarie che sono necessarie per svolgere un compito essenziale, quale è quello della stabilizzazione ciclica a fronte degli alterni andamenti dell’attività economica.

Un commento: un compromesso che rimanda le scelte cruciali

Un primo commento è che l’esito del processo verso l’autonomia differenziata è ancora molto difficile da definire. In particolare, la legge Calderoli non fa una scelta ben chiara fra due sistemi antitetici, ossia fra ciò che in genere si considera federalismo responsabile e centralizzazione delle risorse. Nel federalismo responsabile, una regione ha risorse proprie (o in subordine addizionali ai tributi erariali) che può variare in funzione delle proprie esigenze di bilancio. In questo schema la regione ha l’onore di spendere, ma anche l’onere di tassare. Questa coincidenza di onori e oneri è ciò che dovrebbe responsabilizzare gli amministratori locali. L’altra faccia della medaglia è che, anche ipotizzando che inizialmente le risorse siano distribuite secondo un qualche criterio di equità a livello nazionale, nel corso del tempo, le regioni che crescono di più o sono in grado di fare un utilizzo più efficiente delle risorse non cedono l’eccesso di risorse allo Stato. Quindi il federalismo che responsabilizza gli amministratori locali non può garantire che le risorse siano distribuite fra le regioni secondo un criterio di equità predefinito. Per costruzione, il federalismo comporta che le regioni differiscano nel tempo, quanto a capacità di erogare servizi a imprese e cittadini.  Per contro, la centralizzazione delle risorse comporta che periodicamente le risorse vengano redistribuite fra regioni in modo da garantire che ci sia un eguale trattamento dei cittadini su tutto il territorio nazionale. Ciò significa che le regioni che risparmiano si vedono ridurre le aliquote di compartecipazione (come avviene già oggi per la sanità) e viceversa. In sostanza uno schema siffatto elimina qualunque incentivo delle regioni a risparmiare, ma garantisce la solidarietà a livello dell’intero territorio nazionale: tutti i cittadini hanno diritto (almeno in teoria) agli stessi livelli di servizio, indipendente dalla regione in cui vivono.  La legge Calderoli non sceglie fra questi due schemi che pure sono antitetici fra di loro. Come abbiamo notato sopra, la questione cruciale è come si decide il riallineamento delle risorse previsto dall’art. 8 comma 2 che è riportato di seguito.

“La Commissione paritetica [fra lo Stato e la singola regione] provvede altresì annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati per il finanziamento delle medesime funzioni. Qualora la suddetta ricognizione evidenzi uno scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi, anche alla luce delle variazioni del ciclo economico, il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata, adotta, su proposta della Commissione paritetica, le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione definite nelle intese ai sensi dell’articolo 5, comma 2 [le intese che definiscono le aliquote di partecipazione], garantendo comunque l’equilibrio di bilancio e nei limiti delle risorse disponibili.”

Stando alla lettera di questo articolo, ogni anno il ministro dell’Economia redistribuisce le risorse in modo da evitare che vi siano “scostamenti” fra i fabbisogni di spesa l’andamento del gettito, anche qualora questo sia dovuto a “variazioni del ciclo economico”. Quindi, sembrerebbe che il sistema sia perfettamente centralizzato e che la chiavi della cassaforte siano solidamente in mano al governo centrale. Come abbiamo già notato, tuttavia, la proposta di riallineamento (tramite variazioni delle aliquote di compartecipazione) deve venire dalla Commissione paritetica Stato-regione. Non è chiaro cosa succeda se una regione si oppone alla sottrazione di sottrazione di risorse proposta dal governo. Nel caso in cui l’assenso della regione si riveli effettivamente necessario si avrebbe un sistema più orientato nel senso del federalismo responsabile e meno centralistico. Ma non è ovvio che ciò possa avvenire perché sarebbe contrario al dettato letterale dell’art. 8. In sostanza la legge è un compromesso che rimanda le scelte cruciali al futuro e ai futuri rapporti di forza fra le regioni.

Un secondo commento riguarda il rischio dello Stato arlecchino. Teoricamente, si potrebbe avere un sistema in cui diverse regioni hanno diverse competenze: una regione ha l’istruzione, un’altra le reti di trasporto, un’altra ancora l’energia ecc. Si può sperare che il governo e il Parlamento siano in grado di evitare un esito tanto irragionevole. E tuttavia va notato che nella legge Calderoli non c’è una riga che impegni le regioni o lo stato a garantire una qualche omogeneità fra regioni nell’attribuzione delle funzioni. E il motivo è evidente: l’idea di fondo che ha ispirato l’intero progetto è che solo alcune regioni del Nord erano interessate a chiedere maggiore autonomia. Anche questa scelta, di importanza assolutamente cruciale, è rimandata al futuro.

Così come è rimandata la questione di quali materie verranno effettivamente trasferite. È auspicabile che nelle materie più importanti si riescano a ritagliare le competenze, in modo tale, come recita la stessa legge Calderoli, da “tutelare l’unità giuridica o economica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie” (art. 2 comma 2). Anche qui tutto è rinviato a scelte future di chi governerà il Paese quando si dovranno fare queste scelte: il trasferimento di funzioni, infatti, non dipende solo dalle richieste che faranno le regioni, ma anche da ciò che deciderà di fare lo Stato, ossia il governo e il Parlamento, a cui la scelta è demandata in ultima istanza dalla Costituzione.

Ciò che si può dire al momento è che la legge Calderoli non esclude che possano materializzarsi scenari assai preoccupanti sia per il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni sia per i conti pubblici.


[1] Una versione abbreviata di questa nota è stata pubblicata sulla rivista Eco.

Un articolo di

Rossana Arcano, Alessio Capacci, Giampaolo Galli

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