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Riusciranno gli enti territoriali a gestire le risorse del PNRR?
Una delle incognite principali riguarda il ruolo che gli enti territoriali (regioni, provincie, comuni, città metropolitane) avranno nella realizzazione del Piano, soprattutto per quanto riguarda la gestione degli ingenti investimenti previsti per rafforzare la capacità produttiva del nostro paese. Le prime sono di tipo qualitativo (per esempio approvare una riforma con certe caratteristiche); le seconde sono di tipo quantitativo e riguardano soprattutto i risultati della spesa finanziata dalle risorse europee (per esempio rendere disponibili un certo numero di posti di asili nido entro una certa data). Saranno in grado gli enti territoriali di fare tutto questo? Il problema è che quando si parla di “enti territoriali” non si parla di entità omogenee. Il problema, quindi, non può essere sottovalutato, anche perché le aree che possono avere difficoltà a gestire le risorse del PNRR sono proprio quelle che hanno più bisogno di investimenti pubblici. Ma non dobbiamo dimenticare che problemi di realizzazione degli investimenti esistono ovunque (la Lombardia aveva 24 opere incompiute sempre nel 2020) e anche a livello comunale sappiamo che esistono grosse differenze all’interno delle macro aree. Sarà però essenziale fare in modo che il personale qualificato che viene assunto abbia la possibilità di operare al di fuori delle logiche clientelari che spesso hanno caratterizzato gli enti territoriali meno efficienti. Il governo ha indicato che potrebbero svolgere questo ruolo la Cassa Depositi e Prestiti e le aziende a partecipazione statale, ma non è chiaro in che forma questa attività si verrebbe a concretizzare, per esempio in termini di risorse e di modalità di interazione.
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Le sanzioni mordono l'economia della Russia, ma l'UE deve agire sull'energia
Le sanzioni occidentali alla Russia mordono eccome, ma l’Europa può fare molto di più. Pochi giorni fa persino le Nazioni Unite, di cui pure la Russia è membro con diritto di veto, hanno pubblicato un rapporto in cui si prevede una caduta del pil russo nel 2022 di oltre il 10 per cento, 14 punti in meno della previsione ante guerra. La guerra sta avendo effetti anche sull’inflazione che si è impennata fino 17,8 per cento ad aprile dall’8 per cento di febbraio. Il tenore di vita dei russi sta andando a picco, molto più di quanto non sia successo, ad esempio, in Italia con il lockdown del 2020.
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Olimpiadi e Pil, il bilancio non è quello che sembra
Ma non è venuto in mente a nessuno che il numero di medaglie distribuite a Tokyo a tutti i paesi non era mai stato così alto? 339 gare in programma significano 1017 medaglie (anzi un po’ di più per via degli ex equo). Se guardiamo al rapporto tra medaglie vinte dall’Italia e medaglie distribuite nelle 16 Olimpiadi dal 1960, l’ultima Olimpiade è al quinto posto, dopo Roma nel 1960 (il vero record), Tokyo nel 1964, Los Angeles (1984) ed Atlanta (1996). L’attento lettore obietterà però che questo calcolo non tiene conto del fatto che, nel corso del tempo, è aumentato anche il numero delle nazioni partecipanti. Anche in questo caso i media hanno accolto le stime sulla crescita del Pil nel secondo trimestre con grida di giubilo: il Pil è aumentato del 2,9 per cento, ben al di sopra della media europea (1,8 per cento). Non mi sorprende molto perché sono mesi che dico che il Pil quest’anno crescerà al di là di quello che il governo prevedeva nel Documento di economia e finanza di aprile. Ma quello che è cambiato rispetto al passato è l’atteggiamento delle istituzioni europee che ci hanno fatto arrivare, tra il 2020 e quello che ci si può attendere per il 2021, la bellezza di 370 miliardi. La linea di credito europea (la Recovery and Resilence Facility) contiene questo nome per ricordarci che, se questa volta i soldi sono arrivati, i Paesi europei sono attesi fare riforme per evitare che al prossimo shock sia ancora necessario un aiuto esterno.
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Quei soldi all’energia sporca
Ma alcune componenti del sussidio sono molto più ampie coinvolgendo, per esempio nella parte che riguarda l’azzeramento dei cosiddetti “oneri di sistema”, ben 29 milioni di utenze elettriche domestiche e un taglio per tutti dell’Iva sul gas. Vediamo le cose più da vicino, con il caveat che il dettaglio delle misure non è ancora disponibile e resta un non trascurabile margine di incertezza su quanto è stato deciso. Secondo il ministro Cingolani, in assenza di interventi le bollette sarebbero aumentate del 40 per cento nel quarto trimestre di quest’anno a causa del maggior costo dell’approvvigionamento energetico. Per l’80 per cento il maggior costo rifletteva l’aumento del prezzo internazionale dei prodotti energetici, in particolare del gas, e solo per il restante 20 per cento l’aumento del costo che le imprese fronteggiano per comprare permessi di emissione di C02 (sulla base dell’Emission Trading System dell’Unione Europea). Ma allora perché contenere il costo della bolletta per tutti? Dato che chi ha un reddito alto consuma più energia di chi ha un reddito basso, i primi beneficeranno maggiormente della parte dei sussidi che è generalizzata. Bene, ma perché farlo anche verso le famiglie che si potrebbero permettere di pagare di più l’energia? Per anni le istituzioni internazionali e tutti coloro che hanno a cuore il futuro del pianeta hanno sottolineato le conseguenze negative di sussidi generalizzati (all’energia e non). Ma come è compatibile una politica di sussidio all’energia sporca con gli obiettivi della transizione energetica che, a parole, i Paesi europei considerano come fondamentale? Vale allora la pena di ricordare che la Commissione Europea ha raccomandato di limitare i sussidi solo a chi ne ha davvero bisogno.
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Il rimbalzo del Pil e le stime per il 2021
Attestavano un rimbalzo economico anche più forte di quello previsto dal governo nei più recenti documenti ufficiali e autorizzavano un certo ottimismo anche per il 2021. Il Pil è aumentato del 16,1 per cento, contro il 13,4 per cento previsto dal governo nella Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) di settembre. Ma è chiaro che questi dati vanno visti in combinazione con quello che era successo prima: i paesi dove il Pil era caduto più rapidamente hanno avuto un più forte ribalzo. È la Spagna il fanalino di coda (-8,7) e abbiamo battuto, in questa corsa di gamberi, anche Austria, Portogallo, Belgio, Repubblica Ceca, tutti paesi che negli ultimi anni erano andati meglio di noi. Perché? Forse perché nei periodi di maggiore difficoltà riusciamo effettivamente a cavarcela meglio di altri. Gualtieri ieri ha detto che, visti i risultati del terzo trimestre, la previsione di una caduta del PIL del 9 per cento nel 2020 contenuta nella NADEF resterebbe realistica anche se, per effetto delle restrizioni Covid, il Pil cadesse nel quarto trimestre. E con una crescita più bassa e la necessità di ulteriori interventi di sostegno (il Decreto Ristoro è un cerotto rispetto agli interventi che sarebbero necessari se ci fossero chiusure più estese) tenere il deficit pubblico al 7 per cento del Pil previsto sempre dalla NADEF per il 2021 risulterà impossibile. A questo si vanno ad aggiungere i risparmi che derivano dagli acquisti di BTP da parte della BCE. Quindi, il debito pubblico aumenterà oltre a quello che il governo ha previsto per il 2021, ma questo sarà finanziato a tassi molto bassi.
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Finisce il decennio orribile dell’economia. La crescita più bassa dall’Unità d’Italia
Il reddito prodotto (il Pil) è aumentato in media dello 0,2 per cento l’anno, meno di quanto fosse avvenuto nel decennio precedente (0,5 per cento), nonostante la crisi globale del 2008-09, e meno di quanto fosse avvenuto negli anni ’40 del secolo scorso (0,4 per cento), nonostante il disastro della seconda guerra mondiale. E nonostante sia stata pesantemente coinvolta dalla crisi dell’euro, la Spagna è crescita in media a un tasso dell’1 per cento, cinque volte il nostro tasso di crescita, grazie a una forte accelerazione negli ultimi anni. Se le notizie sul “capitale umano” sono cattive, quelle sul capitale fisico non sono migliori: il rapporto tra investimenti e Pil era del 19,4 per cento nel 2009; è ora stimato essere stato di circa due punti percentuali più basso nel 2019. In questa situazione di stasi economica, il numero di famiglie povere si è quasi raddoppiato in 10 anni raggiungendo il milione e 800mila nel 2018, per un totale di 5 milioni di poveri, di cui un milione e mezzo sono immigrati. Tra le varie aree geografiche, il Mezzogiorno ha sofferto le difficili condizioni economiche dell’ultimo decennio in modo particolare: secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ nel 2018 il Pil del Mezzogiorno era ancora di oltre 10 punti più basso di quello del 2008, mentre nel Centro-Nord il divario era di soli 2,4 punti percentuali. A ben vedere l’unica buona notizia è la nostra minore dipendenza dall’estero: nel 2009 il nostro saldo con l’estero (esportazioni meno importazioni) mostrava un passivo pari a circa il 2 per cento del PIL; ora abbiamo un attivo intorno al 2,5 per cento del Pil. Anche qui, però, occorre stare attenti. E neppure quello perso nel decennio precedente, visto che abbiamo cominciato a perdere terreno in termini di reddito pro capite dalla fine degli anni ’90, e in termini di reddito complessivo dalla fine degli anni ’80.
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Il costo del gas
Il prezzo delle bollette, che si era già impennato prima del conflitto, aumenterà ulteriormente visto l’ulteriore balzo dei prezzi internazionali soprattutto del gas naturale (non parliamo di quello che accadrebbe se il flusso di gas russo si interrompesse). Primo, in che modo l’aumento dei prezzi internazionali del gas si riflette sul costo delle bollette? I prezzi delle bollette sono in gran parte prezzi regolati. Per fissare questi prezzi ARERA usa formule che tengono conto del costo di approvvigionamento della materia prima, dei costi di trasporto, eccetera. Secondo, qual è allora il prezzo a cui l’Italia importa gas? Non si sa, però è possibile che, in questo momento, sia più basso di quello usato da ARERA come costo dell’approvvigionamento. Si è poi diffusa l’indicizzazione al prezzo del gas spot sui mercati internazionali, ma sembra che molti contratti in essere utilizzino ancora l’indicizzazione al prezzo del petrolio con un adeguamento molto ritardato nel caso i prezzi spot cambino di molto. Ma serve, in ogni caso più trasparenza, perché ci sono di mezzo, potenzialmente, parecchi miliardi di euro che possono finire nelle tasche delle imprese importatrici o di famiglie e imprese. Il governo francese ha deciso di calmierare il prezzo a cui EDF distribuisce l’elettricità, con una riduzione dei ricavi della compagnia di 8 miliardi, solo per un terzo compensato da una ricapitalizzazione, il che fa pensare che si cerchi di ridurne gli extra profitti.
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Ma il pallone non ci salverà
Grande vittoria dopo più di mezzo secolo (avevo 14 anni quando Giacinto Facchetti alzò la coppa nel 1968), vittoria meritata, vittoria di gruppo e di leadership (grazie Mancini, ma anche grazie Oriali e Vialli). Questo può essere dovuto a vari fattori (compresa la limitata disponibilità di vaccini e la necessaria priorità data alle seconde dosi), ma potrebbe riflettere anche la difficoltà di attirare i tanti che restano ancora alla finestra e che, tanto per andare sul sicuro, non si vaccinano. Il buon senso dovrebbe essere sufficiente a dirci che un paese dove i processi sono drammaticamente lenti è un paese dove la certezza del diritto viene a mancare: e la certezza del diritto è fondamentale in economia. Da anni i sondaggi delle imprese ci confermano che la lentezza dei processi è una delle principali cause del basso livello degli investimenti privati nel nostro paese. I dati CEPEJ indicano che la durata media dei processi civili che arrivano in Corte di Cassazione (probabilmente i più importanti) si è ridotta da 8 anni a 7 anni e tre mesi tra il 2016 e il 2018. La riforma Cartabia non è certo perfetta (per esempio, non dedica abbastanza attenzione agli aspetti più manageriali della gestione dei tribunali), ma va nella direzione giusta ed è auspicabile che sia approvata al più presto. Spero che non si faccia anche questa riforma in deficit: visto quanto è cresciuta la spesa pubblica negli ultimi anni, varrebbe la pena rispendere presto una seria revisione della spesa (il PNRR contiene solo vaghi impegni in proposito).
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Il governo così è al capolinea, meglio andare al voto in autunno
All’epoca sostenni anch’io che sarebbe stato auspicabile che il governo andasse avanti fino a primavera 2023 data la necessità di portare avanti importanti riforme. Ma, e questo è il secondo motivo, mi sembra che i partiti che sostengono il governo non stiano prestando la necessaria collaborazione. L’anomalia più evidente è il ruolo sproporzionato del Movimento 5 Stelle che, nei prossimi mesi, sarà sempre più propenso a muoversi per recuperare consensi, piuttosto che sostenere vere riforme. Certo, le circostanze sono cambiate: l’inflazione (che crea incertezza) è aumentata e il sostegno dato dalla BCE al mercato dei titoli di stato è sceso. Ma, a parte il fatto che anche in quest’area i partiti della coalizione hanno idee molto diverse, sembra ormai che il conflitto si stia (purtroppo) cronicizzando e che potremmo dover aspettare a lungo prima di vederne la conclusione. Ma questa regola, che fra l’altro è insensata perché un cittadino che cambia lavoro non perde i contributi versati nel lavoro precedente, potrebbe essere eliminata. Ribadisco: il governo sta facendo quello che può dati i vincoli di una coalizione che, già poco omogenea, appare sempre più disunita, con alcuni partiti che ormai sono intenzionati più a posizionarsi per le prossime elezioni che a sostenere il lavoro di Draghi.
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Dalle Borse una reazione esagerata al virus. Il vaccino per l'Italia è spingere sulle riforme
La prospettiva è purtroppo cambiata da quando l’Italia è diventata il terzo paese al mondo dopo Cina e Corea del Sud come numero di contagi. Ora è il resto del mondo che si preoccupa delle ripercussioni di una possibile crisi economica italiana scatenata dal coronavirus. È stata una reazione razionale? Quanto durerà? E cosa dovrebbe fare il governo per ridurre i rischi economici? I mercati finanziari reagiscono spesso in modo eccessivo alle notizie. Per quanto seria sia la situazione dal punto di vista medico, oggettivamente la reazione alle notizie che ci sono giunte negli ultimi giorni non giustificano una reazione dei mercati finanziari così brusca. I mercati sono composti da decine di migliaia di operatori di tutte le dimensioni che cercano di indovinare quello che sarà il comportamento degli altri operatori. A ciò si aggiunge il peggioramento congiunturale dell’economia europea e, di riflesso, di quella italiana: il nostro Pil era caduto dello 0,3 per cento nell’ultimo trimestre del 2019 a fronte di una crescita dello 0,1 per cento in Europa. Detto questo, se, nonostante gli sforzi riformisti del governo (ancora dobbiamo vederne chiari segni), l’Italia entrasse in recessione, diventerebbe difficile evitare un aumento del deficit pubblico e una accelerazione della crescita del debito pubblico rispetto al Pil. Paesi con un debito pubblico basso possono affrontare tali fasi senza apprensioni.
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L’inflazione non fa paura
A forza di aumentare la spesa pubblica in deficit e a forza di finanziare questi deficit col credito delle banche centrali (cioè stampando moneta), l’inflazione è ripartita nei principali paesi avanzati. Il dato che più ha impressionato è stato quello degli Stati Uniti dove l’inflazione nei 12 mesi terminanti ad aprile 2021 è balzata al 4,2 per cento. Nei soli primi quattro mesi dell’anno i prezzi sono cresciuti del 2,6 per cento, ossia a una velocità annualizzata di quasi l’8 per cento. Che è successo nell’area dell’euro? Nei 12 mesi terminanti ad aprile l’inflazione è ancora bassa (1,6 per cento). Il primo è quello in cui, dopo la fiammata nel primo quadrimestre di quest’anno, i prezzi rallentano via via che la domanda, dopo il rimbalzo post Covid (ammesso che ne siamo usciti), torna a crescere a ritmi più normali. Il primo scenario resta quello più probabile (il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è ancora al 6 per cento, moderando le spinte inflazionistiche), ma il primo non è certo da escludere. Ma non potrà evitare un aumento dei tassi di interesse e una revisione della propria politica di acquisti di titoli di stato se i segnali di una ripresa dell’inflazione fossero evidenti.
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Rischio paralisi
Una legge di bilancio adeguata alle esigenze del Paese è in corso di approvazione e stanzia fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali e per un primo taglio delle tasse. Infatti, le riforme approvate o in via di approvazione utilizzano spesso lo strumento della legge delega: il Parlamento delega il governo a scrivere decreti legislativi aventi forza di legge, ponendo solo dei vincoli, più o meno stretti, che dovranno essere rispettati. È così per la riforma della giustizia civile, per quella della giustizia penale, per parti della riforma della concorrenza e, soprattutto, per la riforma del fisco dove la legge delega in corso di approvazione in parlamento contiene vincoli particolarmente vaghi, lasciando quindi un amplissimo grado di discrezionalità al governo. Nella legge di bilancio per il 2023 sarà necessaria una sua riduzione e la presenza di Draghi a palazzo Chigi durante la preparazione della prossima legge di bilancio consentirebbe probabilmente un’uscita più bilanciata dalle attuali politiche espansive. Ma, visto che non lo si può clonare, occorre scegliere tra le due posizioni, soprattutto ora che sembra che il presidente Mattarella non sia disponibile per un secondo mandato (cosa che, al di là dei motivi personali, mi sembra anche preferibile da un punto di vista istituzionale). Viene ventilata da alcuni l’ipotesi di portare avanti comunque la legislatura, anche dopo un possibile passaggio di Draghi al Colle, attraverso un governo tecnico che porti avanti il corrente programma di riforme. Ma che esistano ancora forti incertezza sul futuro dell’Italia, a mio giudizio condizionale dall’incertezza sul futuro del governo, è provato dal persistere dello spread, l’indicatore più sintetico del rischio attribuito all’investimento nei nostri titoli di Stato, su livelli elevati rispetto a quelli degli altri Paesi del Sud Europa.
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Programmi credibili per i fondi Ue
Il Consiglio Europeo del 17-18 luglio ha in agenda, oltre che l’approvazione del bilancio dell’Unione Europea per il settennato 2021-27, la discussione e, si spera, l’approvazione del piano di finanziamenti europei per sostenere la ripresa economica (Recovery Fund alias Next Generation EU). Quali sono le principali caratteristiche del piano? Il piano, proposto dalla Commissione Europea, prevede che l’Unione Europea tra il 2021 e il 2024 si indebiti per 750 miliardi di euro ed eroghi queste risorse ai paesi europei attraverso prestiti e trasferimenti a fondo perduto. Le risorse saranno erogate solo dopo l’approvazione del programma da parte della Commissione e del Consiglio Europeo e solo se certi obiettivi verranno raggiunti nella attuazione del programma. I trasferimenti a fondo perduto avrebbero quindi vantaggi (il debito pubblico dei singoli paesi non aumenterebbe subito, i paesi più colpiti dalla crisi riceverebbero più di quanto dovrebbero restituire), ma, rispetto ai prestiti, non sarebbe una differenza tra il giorno e la notte. Magari alcune delle idee dei “frugali” non sono da buttar via! Ma, al di là del merito delle possibili posizioni che i frugali potrebbero prendere in futuro, la sostanza è chiara: i piccoli paesi avrebbero un ruolo più sostanziale di quello giustificabile dalla loro dimensione in termini di popolazione. Quel prezzo potrebbe comprendere un rinvio di quell’armonizzazione della tassazione in Europa che sarebbe invece necessaria per evitare l’assurdo vantaggio che i paesi medio-piccoli (tra cui l’Olanda) hanno attualmente nel praticare livelli di tassazione particolarmente bassi. Il meccanismo innovativo di erogazione dei finanziamenti in base ai progressi nell’attuazione del programma è potenzialmente valido, ma sarà una possibile fonte di tensioni tra l’Italia e l’Europa, tensioni che si potrebbero estendere a tutto il prossimo quadriennio e che, probabilmente, coinvolgerebbero più di un governo italiano.
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Il vaccino protegge il lavoro
Però l’idea di richiedere il green pass per andare al lavoro, pena la sospensione del lavoratore, contenuta in una mail della direttrice generale dell’associazione imprenditoriale ha comunque attirato molta attenzione. Ma oltre agli obblighi, consiglierei anche al governo una massiccia campagna pubblicitaria a favore dei vaccini (convincere rende più efficaci anche obblighi o incentivi), magari con la partecipazione di tanti personaggi noti al grande pubblico (che so, gli Azzurri?). del codice civile comporta l’obbligo per gli imprenditori di tutelare l’integrità fisica dei lavoratori e chi va al lavoro senza essere vaccinato, e quindi con una maggiore probabilità di aver contratto il Covid, corre il rischio di contagiare altri. Ciò detto sarebbe eventualmente più appropriato se un provvedimento di sospensione dei lavoratori non vaccinati fosse preso dallo stato, definendo in modo preciso quali situazioni di lavoro comportano rischi tale da rendere necessaria la sospensione. La questione dei vaccini per ridurre i rischi sul posto di lavoro richiama un tema ben più ampio e fondamentale, che non posso non menzionare, quello della tutela della sicurezza sul lavoro. Più in generale la mortalità sul lavoro in Italia è più alta della media dell’Europa occidentale (nel quinquennio 2015-19 è stata di 2,2 morti all’anno ogni 100.000 lavoratori contro una media di 1,75 al di là delle Alpi). Forse che le imprese tedesche e olandesi non seguono una logica del profitto? La cosa importante, che manca spesso ancora in Italia, è che quella logica del profitto sia esercitata entro regole chiare, semplici e rispettate da tutti.
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Tre mosse per limitare i danni
È vero che l’FMI prevede un rimbalzo nel 2021 (con un aumento del Pil del 5,8 per cento), ma nella situazione attuale fare previsioni per l’anno prossimo resta molto azzardato. Scendendo nel dettaglio, l’FMI prevede un calo del Pil dell’euro area del 7,5 per cento, più forte che negli Stati Uniti, che sfiorano comunque il 6 per cento e dove la disoccupazione sta esplodendo. Temo sia una previsione più o meno realistica, non tanto perché anche prima crescevamo meno degli altri, ma perché purtroppo il nostro paese, e all’interno di questo le regioni che anche negli ultimi anni erano cresciute di più, sono all’epicentro della pandemia. Si noti che questi risultati disastrosi tengono conto di politiche economiche monetarie e di bilancio estremamente espansive quali quelle che tutti i paesi del mondo stanno realizzando. Per restare all’Italia l’FMI prevede un aumento del deficit pubblico dall’1,6 per cento nel 2019 all’8,3 per cento con un debito pubblico che sale dal 135 al 156 per cento. Ma il principale sostegno ci verrà dalla BCE che quest’anno metterà a disposizione risorse nette per circa 170 miliardi (più circa 50 miliardi per acquistare titoli in scadenza nel bilancio della stessa BCE). È vero che ci sono enormi incertezze su quanto significativi siano i numeri sui contagi (dipendendo dai tamponi che si fanno), ma non credo si possa più pensare di riaprire solo quando tale numero si sia azzerato.
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Cashback, don’t come back. Galli spiega la mossa (saggia) di Draghi
Galli spiega la mossa (saggia) di Draghi 30 giugno 2021 Formiche, 30 giugno 2021 *** Cashback, chi era costui? Ogni estate che si rispetti ha il suo piccolo caso e questo inizio dalle temperature tropicali non poteva essere da meno. Misura che l’ultima cabina di regia a Palazzo Chigi ha dichiarato soppressa a partire dal 1 luglio. Ed ecco la buccia di banana che ha fatto perdere per un istante l’equilibrio al governo di Mario Draghi. Alfiere della rivolta, l’ex ministro dello Sviluppo Economico, oggi responsabile dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli per il quale “la sospensione del cashback è un errore, l’ho detto e ripetuto ieri in cabina di regia”. Per i deputati grillini, invece, “tutto può essere migliorato, e siamo pronti a considerare interventi mirati sulla misura per eliminare alcune piccole distorsioni, ma archiviare il cashback nel secondo semestre 2021, ad appena 6 mesi dalla sua nascita, è fuori da ogni logica”. A questo punto è più che lecito chiedersi se la misura della discordia sia davvero quel booster ai consumi immaginato da molti, oppure una misura da mettere in soffitta, senza troppi rimpianti. Il governo ha raggiunto nella medesima cabina di regia un compromesso che poggia sulla possibilità per i settori più in crisi e che hanno fatto ricorso a massicce dosi di Cig, di usufruire della proroga del blocco.
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No sussidi per i rincari delle materie prime
I rincari, come già segnalato su Inpiù, ci sono e sono molto consistenti. Già all’inizio di giugno, in un’audizione alla Camera, l’Ance aveva segnalato rincari del +150% per l’acciaio tondo per cemento armato, del +129% per il polietilene, del +30% per il rame. Quanto alla filiera alimentare, i rincari, rispetto a un anno fa, sono del 48% per il complesso delle materie prime alimentari, del 76% per gli olii alimentari del 46% per i cereali; ci sono punte del 119% per la soia, del 112% per il mais, del 94% per l’olio di cocco. Che può fare il governo? Nei casi in cui c’è un mercato libero, il governo non dovrebbe fare nulla. Le stesse imprese dovranno modificare la combinazione di input produttivi in modo da trovare le migliori combinazioni qualità/prezzo compatibili con le nuove realtà di mercato. Entro certi limiti, l’assenza di queste clausole fa parte del gioco: le imprese che hanno vinto le gare sapevano che andavano incontro a qualche rischio. L’auspicio è che si faccia una norma che consenta di adeguare i prezzi, dove necessario, e che non ci si inventino nuovi sussidi temporanei in un paese in cui, come diceva Prezzolini, non c’è nulla di più definitivo del provvisorio.
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Stagflazione in arrivo
Il FMI rivede verso il basso la crescita del Pil mondiale portandola al 3,6 per cento nel 2022, quasi un punto percentuale meno di 3 mesi fa. È una pesante revisione anche se niente di comparabile con la revisione di oltre 6 punti percentuali annunciata tra il gennaio e l’aprile 2020. La prima è che la previsione del FMI è basata sull’ipotesi che la guerra non si estenda oltre l’Ucraina e che il settore energetico non sia colpito da ulteriori rilevanti sanzioni, incluso quindi che l’Europa non decida di interrompere gli acquisti di gas dalla Russia. La seconda è che l’impatto della crisi Ucraina sulle varie regioni del mondo è meno omogeneo di quello del Covid. Il tasso di crescita del Pil americano è rivisto verso il basso dello 0,3 per cento, quello dell’area dell’euro di quasi quattro volte tanto: -1,1 per cento. Una crescita del 3,1 per cento comporterebbe, dopo una discesa nel primo trimestre prevista dallo stesso DEF, un tasso di crescita medio del Pil trimestrale nel resto dell’anno dello 0,8 per cento, una bella accelerazione. Quello che è invece certo è il disastro che l’attacco russo sta causando all’economia Ucraina il cui Pil è previsto crollare del 35 per cento. Nel resto del mondo abbondano i segni negativi nella tabella del Pil. Anche la Cina sta peggio ma non di molto: la revisione è solo dello 0,4 per cento e in parte è dovuta alla ripresa del Covid.
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L'uscita da Quota 100 e il bla bla bla sui giovani
Tutti sanno, e non possono non saperlo anche loro, che la demografia ci obbliga a lavorare di più. Fra meno di vent’anni, secondo i demografi, le persone con più di 65 anni supereranno il 50 per cento di quelle in età compresa fra 15 e 65. Tenuto conto della popolazione in età scolastica e che in Italia lavora meno del 60% delle persone, basta questo numero per dirci che più di metà dello stipendio di chi lavora dovrebbe andare a finanziare le pensioni. Va bene a Salvini questo numero? Che dire dunque? Forse è il caso di imitare Greta Thumberg: basta con il bla bla bla sui giovani. Per i giovani che non trovano lavoro bisogna ridurre il cuneo fiscale che è troppo alto. Gli attacchi e anche le minacce che ha subito negli anni successivi da parte di demagoghi di ogni risma sono una delle pagine buie della nostra storia recente. È venuto il momento del suo riscatto, il momento di un grande ringraziamento collettivo.
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Perché la guerra in Ucraina non scalzerà il predomino del dollaro
Mentre la moneta americana continua a essere preminente nella scena economica mondiale. La guerra in Ucraina sta spingendo la Russia e vari paesi emergenti a prefigurare valute che sostituiscano il dollaro. Questo è stato uno dei temi discussi al recente summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Il comunicato finale del 23 giugno contiene solo l’impegno a rafforzare il Cra (Contingent Reserve Arrangement) che è una sorta di concorrente del Fondo Monetario Internazionale. Ma l’idea, propugnata dalla Russia, è quella di lanciare una valuta mondiale costruendo un paniere con le monete dei Brics.
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Intervista di Fanpage.it a Carlo Cottarelli
Perché allora lo spread sta crescendo? Non si sa mai cosa fanno i mercati finanziari, lo ribadisco, ma quel che dice Francesco GIavazzi è corretto. Di quanto stiamo parlando? Non le do la cifra esatta, perché stiamo ancora rifacendo i conti, però si parla di diversi punti percentuali e diverse decine di miliardi di risparmio. Peraltro, è un effetto che potrebbe essere ancora più forte se si usasse l’indice dei prezzi al consumo. Per quanto riguarda i conti pubblici viene usata un’altro indice dell’inflazione, che si chiama “deflatore del Pil” , che cresce meno. Però se aumentano i tassi d’interesse e se aumenta lo spread tutto il debito che emetteremo d’ora in poi ci costerò comunque di più… È vero: se guardiamo ai titoli di debito che emetteremo d’ora in poi, su cui pagheremo un tasso d’interesse più alto, le cose cambiano. Sia chiaro: questo non vuol dire che non dobbiamo essere preoccupati dello spread che sale. Tenga conto che nell’estate 2012 Draghi ha spento l’incendio con un intervento pressoché illimitato, dicendo che avrebbe fatto “tutto quel che sarebbe servito”.
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Tasse multinazionali, giuste ma con gettito irrisorio
L’accordo è un atto di equità nei confronti di tutti coloro che le tasse le pagano fino all’ultimo centesimo. Il Ministro Daniele Franco ha dichiarato che probabilmente l’Italia incasserà circa 250 milioni dalla nuova tassa, più o meno lo stesso ammontare che ricava adesso dalla tassa nazionale che colpisce le sole multinazionali del web e che, in base agli accordi, verrà abolita. Ora 250 milioni non sono nulla, ma sono una cifra irrisoria rispetto alle aspettative di chi pensava che inseguendo le cattive multinazionali si potesse fare finalmente una grande operazione di redistribuzione del reddito e rendere così sostenibile un welfare che continua a caricarsi di nuovi oneri. Né la tassa esistente sulle cattivissime multinazionali del web né la nuova tassa su tutte le (grandi) multinazionali cambieranno il profilo del nostro welfare, del nostro debito pubblico, della distribuzione della ricchezza; non cambierà nulla. Soprattutto, rimarrebbe un’inezia rispetto agli oltre 100 miliardi di evasione fiscale in Italia stimati dal MEF. E’ ora di cominciare a fare sul serio la lotta all’evasione, che in Italia, purtroppo è evasione di massa. Lo dice la stessa relazione del MEF quando presenta i dati dell’evasione di lavoratori autonomi e microimprese soggette all’IRPEF: il gap è del 69,2 per cento, il che significa che queste categorie pagano poco più del 30% di quanto dovrebbero. A pensarci bene, forse uno dei vantaggi dell’accordo è proprio questo: per i politici in cerca di facile popolarità non sarà più tanto facile dire che basta tosare le multinazionali per risolvere il problema dell’evasione e magari anche quello del debito pubblico.
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Pil e legge di bilancio: una manovra a corto raggio
Il quadro macroeconomico in cui la Legge di Bilancio si inserisce è quello della Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) approvata un paio di settimane fa, i cui numeri principali erano stati finalizzati probabilmente a inizio ottobre. C’è quindi il rischio che la Legge di Bilancio, basata su un rimbalzo del Pil del 6 per cento per il 2021, rimbalzo che fino a un paio di settimane fa sembrava del tutto plausibile, possa oggi essere già obsoleta. Si tratta di 39 miliardi tra aumenti di spesa e tagli di tasse che verrebbero finanziati senza il ricorso a misure compensative di rilievo. Ma il punto fondamentale è che, al momento, non sono previste misure compensative neppure oltre il 2021, il che significa che queste misure continueranno a pesare sul deficit pubblico in modo duraturo. Ora qualcuno mi verrà a dire che anche il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente ammonito contro il rischio di una prematura riduzione del sostegno dato all’economia dalle politiche di bilancio. E dobbiamo anche sperare che l’abbondanza di risorse europee non riduca l’incentivo a essere efficienti: è il rischio, richiamato di recente da Confindustria, di trasformarci in un Sussidistan. Una domanda però: avevamo davvero bisogno di altri insegnanti o il problema della scuola è invece quello di avere insegnanti poco formati e sotto pagati? Un articolo di Carlo Cottarelli.
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La guerra e i nemici del libero commercio: sovranisti e no global
Una delle lezioni più chiare dei disgraziati anni Trenta del secolo scorso è che le guerre commerciali sono l’anticamera delle guerre vere. Il principio su cui si reggeva l’intero edificio era quello del multilateralismo che non comportava un do ut des fra singoli paesi, ma cercava di aprire i commerci a tutti i paesi o comunque a un gran numero di essi. Per decenni è prevalsa l’idea che, salvo casi particolari, multilateralismo e libero commercio erano la causa per cui ci si doveva battere nei paesi avanzati, e più ancora nei paesi poveri, contro le continue tentazioni dei paesi forti di fare accordi speciali a loro vantaggio. Gli accordi di libero scambio – assieme agli sviluppi delle tecnologie di comunicazione – hanno portato alla globalizzazione, la quale a sua volta ha reso possibile una colossale riduzione delle diseguaglianze a livello globale. Il meccanismo ha retto anche perché gli Stati Uniti, potenza egemone, pur fra alti e bassi, si sono fatti portatori delle idee del libero commercio e ne hanno sostenuto le istituzioni, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e altre. E perché al di sopra di queste vi erano le Nazioni Unite, e relative organizzazioni satellite come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), che cercavano di tessere una sottile tela di legalità internazionale e di solidarietà fra le nazioni. Nei confronti delle Cina, Trump aveva qualche buona ragione, ma ha fatto un disastro quando, da un giorno all’altro, ha trasformato la Cina in un vero e proprio nemico, nei confronti del quale erano da ritenersi lecite azioni di vera e propria guerra commerciale.
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L'UE e il peso del debito
Visto che però c’è stata parecchia confusione in proposito, vorrei chiarire cosa è accaduto e quali sono le implicazioni per l’Italia. Attenzione: per uno dei tanti bizantinismi delle procedure europee in quest’area, il rinvio della riattivazione delle regole non comporta che una “procedura di deficit eccessivo” (quella che, per esempio, parte se un paese eccede il deficit del 3 per cento del Pil) non possa iniziare prima del 2024. La raccomandazione della Commissione, peraltro reiterata di recente anche dal Fondo Monetario Internazionale, resta una raccomandazione senza effetto pratico, dato che, come notato, la riforma fiscale non è sottoposta alla condizionalità del PNRR. Passo alla cosa che forse sembra più rilevante: il mantenimento per tutto il 2023 della clausola che sospende l’efficacia delle regole europee sui conti pubblici. Quello che ci ha vincolato in passato è stata la reazione dei nostri creditori (gli acquirenti dei nostri Titoli di Stato) al nostro elevato debito pubblico. I tassi di interesse hanno cominciato a crescere in tutto il mondo, compreso in Europa, e il tasso sui BTP, anche per effetto del ritorno dello spread ai massimi da due anni, è di recente salito al 3 per cento. La BCE, a causa dell’elevata inflazione, sta per terminare il programma di acquisto dei nostri BTP e l’ultimo intervento di Christine Lagarde ha fatto pensare che già da luglio potrebbe esserci un aumento dei tassi di interesse della nostra banca centrale, con effetti inevitabili sui tassi di mercato.