Da almeno un quindicennio, anche come risposta dei governi alla crisi finanziaria globale del 2008, si è avviata una forte competizione tra gli Stati occidentali, a cui ormai si aggiunge la Cina, nel finalizzare una imponente batteria di sussidi pubblici alle imprese del settore privato e pubblico-privato, finalizzati ad accelerare la transizione verde e quella digitale. Questa nota si sofferma dapprima sulla competizione tra Cina, USA ed Europa nel settore dei veicoli elettrici e dei componenti (principalmente batterie). Segue una riflessione critica sulla nozione che i sussidi siano un fattore “distorsivo del mercato”. Più in generale si propone una politica industriale volta a promuovere l’avanzamento della frontiera tecnologica e organizzativa del sistema produttivo, in un contesto in cui lo Stato non opera principalmente come imprenditore pubblico, ma agisce da catalizzatore delle energie del settore privato alla “scoperta” dei vantaggi comparati potenziali al di là di quelli ereditati dalla storia.
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Verso una “guerra dei sussidi” e l’incerto futuro degli autoveicoli elettrici
Gli anni recenti hanno visto una vera e propria esplosione di interesse da parte delle maggiori istituzioni economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, OCSE) e un riaccendersi del dibattito giornalistico e accademico sulla politica industriale come strumento di difesa-aggressione competitiva sui mercati. Ciò è avvenuto in particolare dopo la provocazione del governo Trump con il famoso slogan “Make America great again”, a cui è seguito il sorprendente attivismo del governo Biden sul rilancio della microelettronica in campo civile e militare, nonché in Europa il contemporaneo appello verso una nuova “autonomia strategica” in presenza dei rapidissimi mutamenti nella geografia competitiva globale, incalzata dalla Cina e dalle economie dinamiche dell’Asia.
È aumentata la frequenza degli aiuti diretti (sostegno alla produzione) rispetto ad altri strumenti come crediti d’imposta, prestiti agevolati e crediti all’esportazione. In termini di numero degli interventi, il settore manifatturiero è gradualmente diventato il maggior beneficiario rispetto all’agricoltura anche se, rapportati al valore monetario del commercio internazionale, i sussidi agricoli pesano il 15 per cento contro l’8 per cento dei sussidi manifatturieri: un’incidenza nettamente superiore a quella dei dazi che colpiscono solo l’8 per cento degli scambi agricoli contro il 2 per cento degli scambi di manufatti.
Al centro dell’attenzione oggi si pone il tema del futuro dell’industria dell’auto, che tra veicoli finiti e componenti copre un quinto dell’industria manifatturiera mondiale, e oggi ha già iniziato una lunga e difficile transizione verso il nuovo paradigma dei veicoli elettrici (EV), non solo ibridi. Transizione che – ancor più della “guerra dei chip” nel cruciale settore ad alta intensità di capitale della componentistica microelettronica – sconvolge gli scenari previsivi dell’occupazione (e di conseguenza della sostenibilità del welfare state) nei Paesi ricchi.
Bisogna prendere atto che tra i grandi Paesi del mondo quasi tutti mantengono con maggiore o minore successo un’industria nazionale dell’auto (USA-Canada, Giappone, Corea del Sud, India, Messico, Brasile, Germania, Francia, Italia, Spagna) e tra i Paesi europei di minore dimensione troviamo Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Serbia. Pochi sono i Paesi avanzati privi di qualche impianto di autoveicoli (la Svizzera, Singapore, ormai anche l’Australia, che nel 2017 ha chiuso la sua ultima fabbrica Holden con 955 dipendenti, sensibilmente meno dei 50.000 di quando anni fa operavano fabbriche in partnership con USA, Giappone e Regno Unito).
La Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è già oggi in posizione dominante con il 70 per cento di auto elettriche e ibride vendute nel mondo, e attraverso una consolidata tradizione di investimenti nell’industria estrattiva dei Paesi emergenti controlla quote imponenti del mercato di metalli e delle terre rare, ingredienti cruciali nella produzione di batterie e componenti dell’industria della microelettronica. Nelle batterie si sta profilando una vera rivoluzione: per superare la Cina, che oggi produce il 75 per cento dei pezzi venduti nel mondo, la giapponese Toyota sta investendo pesantemente su delle batterie allo stato solido che promettono enormi vantaggi in termini di costo e di sicurezza anti-incendio rispetto alle attuali celle liquide agli ioni di litio.
Il maggior produttore cinese di EV (BYD) nel 2023 ha venduto 1,9 milioni di veicoli, battendo Tesla (1,4 milioni). Nel 2022 l’Europa ha importato dalla Cina circa il 54 per cento delle auto elettriche. L’Occidente sta cominciando a chiedersi se e quanto puntare già oggi su una graduale alleanza con la Cina (i cui costi del lavoro stanno crescendo, ma saranno ancora per diversi anni assai inferiori rispetto ai nostri) per incentivare i loro principali produttori attuali (tra cui BYD, SAIC [ex MG], Geely, NIO) ad aprire fabbriche negli Stati Uniti e in Europa, naturalmente rispettando gli standard sociali del mercato del lavoro occidentale.
Con 332 milioni di abitanti, gli Stati Uniti stanno sostenendo la transizione verso i veicoli elettrici con l’IRA (Inflation Reduction Act), che destina 369 miliardi di dollari per promuovere produzione e consumo di veicoli, batterie, pannelli solari, turbine e pale eoliche, fino alle lavatrici eco. Biden ha rafforzato le difese contro gli EV importati dalla Cina (dazi del 25 per cento, esclusione dei consumatori USA dai crediti del “Buy American”).
Con 450 milioni di abitanti, per contrastare il mutamento climatico (tema centrale dei cosiddetti “global commons”) l’UE punta su un Net-Zero Industry Act (o Green Deal Industrial Plan), che attinge ai fondi del Next Generation EU per il 2021-2026. La Commissione europea è autorizzata a contrarre prestiti, per conto dell’Unione, sul mercato dei capitali fino a 750 miliardi di euro (a prezzi 2018). Altri aiuti di Stato nazionali sono in programma per implementare un Critical Raw Materials Act (minerali, metalli, terre rare) che prevede accordi commerciali con Regno Unito, Canada, Messico, Cile, Australia e Nuova Zelanda.[1]
Al Forum di Davos del 17 gennaio 2024 il cancelliere tedesco Schulz ha chiesto agli USA che l’industria europea sia esente dai vincoli del “local content” previsto dall’IRA. Ancora a Davos la presidente Ursula von der Leyen, promuovendo il Clean Tech Act, ha chiesto di allentare le norme europee sugli aiuti di Stato per evitare che Cina e USA arrivino a distruggere le tecnologie verdi dell’UE.[2]
Come suggerito anche da Giuliano Amato, sarebbe utile collegare il dibattito su sussidi e regole della concorrenza sul mercato interno al grande tema schumpeteriano (da “Prometeo liberato”) dell’innovazione tecnologica e organizzativa come motore dello sviluppo sociale. Tema purtroppo non esplicitamente affrontato nel recentissimo Rapporto Letta sul Mercato Interno.[3]
In questo quadro, non sorprende che i governi dei Paesi vecchi e nuovi protagonisti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica (USA, Regno Unito, Germania, Francia, Benelux, Giappone, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, a cui ormai si affiancano Cina, India e Israele) concepiscano la propria politica economica in chiave geostrategica. Il che significa che le scelte di alleanza politica internazionale e di spesa pubblica sono sempre più dominate dall’obiettivo di garantire la sicurezza e la capacità di sviluppo sostenibile dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni nazionali, sottraendosi al rischio di una dipendenza eccessiva e vincolante da produttori monopolistici fuori controllo. E può comportare il ricorso a mosse strategiche e tattiche di minaccia-ritorsione verso l’esterno (“tit for tat”).
Peraltro è noto che i percorsi dell’innovazione tecnologica vedono moltiplicarsi gli intrecci fra impieghi militari e civili (dual use), aprendo un ventaglio di opportunità di accordi temporanei e alleanze più durature fra Paesi anche molto diversi per storia, cultura, religione e tradizioni, ma uniti dall’aspirazione a una convivenza pacifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali e della salvaguardia della vita nel pianeta.
I molti proclami sulla “autonomia strategica” dell’UE dovrebbero calarsi molto concretamente in programmi di politica industriale che abbiano al centro non tanto la difesa di segmenti industriali fragili, perché esposti al progressivo emergere della concorrenza dal basso dei Paesi emergenti (i BRICS allargati in primo piano),[4] quanto il disegno e l’implementazione di progetti di ricerca e sviluppo cooperativi tra i Paesi membri. Per l’Europa cronicamente frammentata e priva di un governo federale ha molto senso favorire attività di R&S cooperativa pur tra imprese concorrenti per raggiungere economie di scala continentali (nel gergo si parla di “co-petition”). Esiste già da almeno tre anni la figura degli IPCEI (Important Projects of Common European Interest), che faticano a volare alto nell’orizzonte della politica industriale dell’UE.[5]
Protezionismo da dazi e sussidi “distorsivi del mercato”: una precisazione concettuale
Di seguito ci soffermiamo sul tema specifico dei sussidi (incentivi) pubblici alle imprese, lasciando da parte il vastissimo campo delle “politiche orizzontali” che pure sono spesso complemento essenziale per assicurare l’efficacia degli stessi sussidi “verticali” alle imprese, promuovendo le economie di scala impedite dalla frammentazione delle politiche nazionali. Le politiche orizzontali sono al centro del grande progetto del “Mercato interno” ancora largamente incompiuto, su cui si sofferma il citato Rapporto Letta. Come noto, le principali politiche orizzontali sono investimenti pubblici in infrastrutture fisiche (in primo piano il sistema dei trasporti per la mobilità sostenibile) e digitali (telecomunicazioni), commesse pubbliche (procurement), scuola e formazione professionale, garanzie assicurative alle esportazioni, contributo pubblico al finanziamento della R&S privata, regime dei brevetti, normative sugli standard tecnici, incentivi e vincoli ai movimenti dei capitali, finanza per venture capital. parchi tecnico-scientifici e incubatori di startup in distretti e Zone Economiche Speciali. In tutti questi campi l’efficacia della spesa pubblica e della politica della concorrenza dipendono naturalmente da una serie di condizioni da valutare Paese per Paese.
I sussidi o incentivi alle imprese, insieme a dazi e contingenti quantitativi sull’importazione e alle “voluntary export restrictions” sulla produzione altrui, fanno parte della grande famiglia del protezionismo a difesa della produzione nazionale. Si tratta di misure che indubbiamente interferiscono con lo spontaneo funzionamento dei mercati. Ma il concetto di “intervento distorsivo del mercato” va qualificato. A meno di aderire fideisticamente alla teoria liberistica pura secondo cui i mercati da soli producono automaticamente l’allocazione delle risorse più efficiente e coerente con il miglior mondo possibile, va ricordato che (da sempre, innegabilmente) i protagonisti del mercato non sono entità impersonali e neutre, ma soggetti umani e politici dotati di un diverso “potere di mercato”, in grado di influenzare pesantemente gli esiti del gioco. Un gioco da cui discendono condizioni sociali della massima importanza come la distribuzione dei redditi e della ricchezza tra i cittadini, le opportunità di crescita dell’occupazione e di diffusione del benessere nella società. Parafrasando il linguaggio provocatorio della grande economista di Cambridge (UK) Joan Violet Robinson, appassionata keynesiana, potremmo dire che, in assenza di politiche progressivamente volte a correggere la spontanea divisione internazionale del lavoro, molti Paesi asiatici, a cominciare da Giappone e Corea del Sud, sarebbero ancora oggi tra i maggiori produttori di riso e altri prodotti agricoli primari, restando in coda alle classifiche delle economie di mercato in termini di reddito per abitante.
Per la classe politica la tentazione del protezionismo per guadagnare consensi elettorali è sempre dietro l’angolo, ma anche le teorie ortodosse del libero mercato hanno sempre ammesso la possibilità di promuovere l’industria nazionale con appropriati incentivi allo Stato nascente (“infant industry”), come anche ricorrendo a provvedimenti di difesa contro eccessi di aggressività da parte di Paesi rivali che, per esempio, praticano politiche di “prezzi predatori” per eliminare la concorrenza.
Inoltre non si dimentichi che, mentre dazi, tasse e restrizioni quantitative agli scambi commerciali tra Paesi penalizzano la crescita tagliando pezzi più o meno importanti della domanda nazionale, sussidi e incentivi alle imprese nazionali mirano a stimolare un’offerta che si riversa sui mercati, con la conseguenza che la maggiore offerta del Paese sussidiato può ragionevolmente generare lungo le filiere produttive globali una domanda aggiuntiva di componenti e prodotti intermedi prodotti in altri Paesi, attivando un virtuoso moltiplicatore degli scambi internazionali.
Un supporto empirico a questa argomentazione viene da un recente lavoro del Fondo Monetario Internazionale su dati Global Trade Alert di 193 Paesi negli anni 2009-2021.[6] Lo studio, facendo ricorso a sofisticate tecniche econometriche per stimare l’effetto di interventi di politica industriale da parte di un Paese sugli equilibri preesistenti (modelli di “difference-in-difference” o alternativamente modelli “gravitazionali”), arriva a concludere che a differenza dei dazi all’importazione i sussidi alla produzione nazionale aumentano il peso degli scambi internazionali rispetto agli scambi puramente domestici. I sussidi possono dunque avere hanno un significativo impatto di “trade creation”, sia pure con sensibili differenze tra Paese e Paese. Tale conclusione va accolta con tutte le cautele interpretative richieste da esperimenti econometrici di crescente complessità, costruiti su dati di serie storiche combinate con dati panel su insiemi di Paesi assai eterogenei quanto a struttura dell’economia e trasparenza o affidabilità statistica. Il medesimo lavoro suggerisce inoltre che l’effetto pro-trade dei sussidi non sembra produrre sensibili cambiamenti nel modello di specializzazione settoriale e geografica dei Paesi interessati: il che non conforta i sostenitori dei sussidi come arma per modificare in profondità i vantaggi comparati del Paese nell’arena internazionale. L’argomento è ovviamente di centrale importanza per la teoria del protezionismo, ma non può certo essere liquidato sulla base di un solo esercizio econometrico.
Politica industriale “mission oriented”, “diffusion oriented” o “discovery oriented”?
Sussidi verticali e in generale forme di politica industriale attiva, mirate a orientare le scelte di investimento privato e pubblico, appartengono alla famiglia delle politiche industriali “mission oriented”, distinte dalle politiche “diffusion oriented” secondo una terminologia proposta diversi anni fa dall’economista australiano Henry Ergas[7] e rapidamente adottata dalla letteratura. A differenza da una politica puramente “diffusion oriented”, che punta a favorire l’innovazione di processo e di prodotto sull’intero spettro delle attività economiche (agricoltura, industria, servizi), una politica si qualifica come “mission oriented” quando l’erogazione degli incentivi obbedisce a priorità settoriali e/o territoriali definite dal governo in un quadro di indirizzi “strategici” volti a rafforzare o modificare il modello di specializzazione internazionale del Paese. Non si tratta di “pianificazione” né di “programmazione” imposta al mercato, ma piuttosto di allocazione della spesa pubblica e del prelievo fiscale sulle imprese coerenti con le linee-guida concordate con i principali stakeholder nel processo produttivo (parti sociali datoriali e del lavoro, rappresentanti delle professioni e della società civile), il tutto filtrato dalla volontà parlamentare.
Per quanto riguarda le imprese a controllo di capitale pubblico, è da attendersi che, nel rispetto delle regole europee e nazionali della concorrenza, esse facciano scelte di investimento con le suddette linee-guida del governo. Al tempo stesso le imprese a capitale privato (nazionale o estero) adottano la propria strategia di investimento in piena libertà rispondendo agli incentivi messi a disposizione dal governo.
Almeno in linea di principio, incentivi e sussidi non sono disegnati dal governo in funzione degli interessi di singole imprese o gruppi di imprese (“pick the winner”) ma unicamente in funzione degli obiettivi di sviluppo e crescita della produttività. Semmai il governo è periodicamente chiamato a valutare i risultati conseguiti dal Paese, eventualmente rimodulando i requisiti di accesso ai benefici pubblici, fino ad arrivare all’esclusione di singole aziende beneficiarie (“pick the loser”). Quest’ultima scelta è ovviamente politicamente sensibile, quindi scarsamente adottata.
A volte il diavolo sta nei dettagli. Parlando di sussidio pubblico a investimenti innovativi, per ridurre il rischio che l’incentivo si trasformi nel tempo in una rendita monopolistica di posizione senza più generare effetti diffusivi nel settore coinvolto, non basta prevedere nella legge una revisione del progetto dopo un certo numero di anni; molto meglio stabilire fin dall’inizio che l’incentivo verrà a cadere a meno che l’apposito comitato di valutazione dell’efficacia proponga di estenderlo nel tempo.[8]
Per favorire una duratura e trasparente azione collettiva di collaborazione pubblico-privato, coinvolgendo il mondo accademico presidio della ricerca di base, Paul Romer suggerisce la costituzione di appositi collegi di valutazione (“Self-Organizing Industry Boards”) sulla traccia del consorzio non-profit SEMATECH formato nel lontano 1967 in partnership fra governo americano e le maggiori aziende statunitensi produttrici di semiconduttori.[9] Il consorzio SEMATECH, inizialmente finanziato per un totale di 500 milioni di dollari dal Dipartimento della Difesa tramite l’agenzia DARPA (Defense Advanced Reasearch Projects Agency), dal 2015 è confluito nella società di consulenza informatica TECHCET.
Un importante criterio-guida nel disegno di una politica industriale, moderna e non ideologica, è quello suggerito da due economisti dello sviluppo, ben consapevoli dei limiti teorici ed empirici della teoria ricardiana dei vantaggi comparati. Ricardo Hausmann e in particolare Dani Rodrik,[10] entrambi con lunga e variegata esperienza come consulenti di governi di Paesi emergenti, sensibili al ruolo centrale dell’innovazione tecnologica e organizzativa come fattore chiave (schumpeteriano) dello sviluppo, propongono una politica industriale che potremmo battezzare “discovery oriented”. La considerazione di fondo è alquanto semplice, anche se meno semplice è disegnare il modello organizzativo di tale politica. I vantaggi assoluti e comparati di un Paese discendono solo in parte dalla sua dotazione di risorse naturali e dalla sua storia politica: con riferimento ai Paesi avanzati, in buona misura i vantaggi derivano dalla fantasia, dalla curiosità e dalla determinatezza con cui singoli inventori, ma più spesso piccoli o grandi gruppi di ricercatori, esplorano e scoprono le opportunità di sfruttare conoscenze tecniche e scientifiche maturate nel mondo intorno, per trovare soluzioni nuove e far crescere nuovi mercati. Le tecnologie evolvono con rapidità e modalità spesso imprevedibili, generando non solo rischi imprenditoriali (in qualche modo calcolabili) ma una cronica incertezza che ne ritarda l’adozione o addirittura cancella la disponibilità imprenditoriale a scommettere sul mercato. Qui si innesta l’opportunità che lo Stato si offra in certo modo come partner assicurativo contro l’elevato rischio di insuccesso dell’innovazione, incoraggiando i soggetti privati a continuare l’esplorazione e la ricerca del successo competitivo.[11]
Accanto a esempi di importanti innovazioni spuntate sul mercato dalla libera iniziativa, la storia del Novecento fornisce diversi casi in cui solo un massiccio e preciso impegno progettuale e finanziario dello Stato ha consentito l’emergere di nuove leadership economico-produttive nel mondo.
Per citare il caso degli Stati Uniti, anche se vi sono opinioni e ricostruzioni storiche diverse in proposito, pochi possono negare che il finanziamento pubblico della R&S (National Science Foundation e altre fonti) combinato con la spesa militare e il programma spaziale da parte del governo federale da molto tempo abbia avuto un ruolo incisivo nel costruire progressi decisivi in campi diversi, dalla rivoluzione di internet ai semiconduttori, allo sviluppo della biomedicina, alla scoperta dei nuovi vaccini, alla chimica dei nuovi materiali, all’esplorazione dello spazio, allo studio dei cambiamenti climatici.[12] Nell’ambito della ricca letteratura di storia economica contemporanea, a cavallo tra l’economia politica e l’economia aziendale, si segnalano i contributi di Michael Porter, Alfred Chandler e l’Industrial performance Centre del MIT.[13]
Argomentando a favore di una politica di “vertical targeting” accanto a quella tradizionale di “horizontal targeting”, Philippe Aghion sottolinea che una sana politica concorrenziale è alimentata anche dal mettere le imprese tra loro in concorrenza per l’assegnazione dei sussidi.[14]
Conclusioni
In un contesto di rivalità oligopolistica, la politica industriale si caratterizza crescentemente per una sua dimensione “geostrategica”, in cui obiettivi di sviluppo economico e tecnologico si intrecciano alla politica di difesa e sicurezza (anche alimentare), energia, salute, trasformazione digitale della società.
La politica per la competitività internazionale delle imprese nazionali continua ad avvalersi di dazi e altre barriere agli scambi che penalizzano la domanda e frenano l’integrazione tra sistemi produttivi, a differenza dai sussidi (incentivi all’offerta) che generano effetti “pro-trade”. Purtroppo l’accentuata rivalità commerciale tra Paesi avviene in un contesto reso più fragile e imprevedibile dalla parziale delegittimazione della WTO imposta da Trump nel 2016, anche se proprio la maggior conflittualità rispetto al passato richiederebbe da parte dei governi comportamenti responsabili e volontà di applicare una fondamentale “rule of law”. Il dibattito dottrinario sulle motivazioni e gli strumenti della politica industriale si arricchisce di contributi e riflessioni critiche, facendo emergere una missione pubblica di “discovery” dei vantaggi comparati dei Paesi, con modalità lontane dall’antagonismo protezionistico e invece maggiormente orientate a una logica di cooperazione tra gli attori protagonisti pubblici e privati.
[1] Nel 2022 gli aiuti di Stato totali europei hanno raggiunto i 672 miliardi di euro, per il 71 per cento assorbiti da Germania e Francia. Ma al netto delle ferrovie e di altri servizi d’interesse generale (SIEG) come trasporti pubblici, servizi postali e sanitari, nel 2021 gli aiuti di Stato europei sono stati 334 miliardi di euro, pari al 2,3 per cento del Pil.
[2] Il ministro francese Le Maire ha affermato che sussidi di 4-6 volte superiori a quelli consentiti dalle norme Ue sconvolgerebbero “la parità di condizioni che è il fulcro delle relazioni commerciali transatlantiche”. E la commissaria Vestager rifiuta di accettare passivamente che l’industria europea emigri negli USA per beneficiare dei sussidi dell’IRA. Finora più di 100 aziende europee della filiera degli EV hanno annunciato investimenti prossimi negli Stati Uniti mentre la VW attende il benestare dalla Commissione europea per un impianto di batterie in Europa orientale che si candiderebbe a ricevere dagli USA 10 miliardi di euro di incentivi previsti dall’IRA.
[3] E. Letta, “Much more than a market. Speed, security, solidarity. Empowering the Single Market to deliver a sustainable future and prosperity for all EU citizens”, aprile 2024.
[4] I cinque Paesi membri originari (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sono già orientati ad accogliere come nuovi membri Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran.
[5] Agli IPCEI fa riferimento l’art. 107 par. 3 lett. b del TFUE, e in Italia la legge 160/2019 (Bilancio pluriennale dello Stato 2020-2022). Finora hanno preso il via e sono ancora soggetti al lento varo della disciplina delle circolari applicative due progetti su Microelettronica, due su Batterie, due su Idrogeno e l’ultimo su Infrastrutture e Servizi.
[6] L. Rotunno, M. Ruta, “Trade Spillovers of Domestic Subsidies”, International Monetary Fund, 1° marzo 2024.
[7] H. Ergas, “Why Do Some Countries Innovate More than Others?”, CEPS Papers No. 5, 1984.
[8] D. Rodrik, “Industrial Policy: Don’t Ask Why, Ask How”, Middle East Development Journal, 1(1), 2009, pp. 1-29, p. 22.
[9] P.M. Romer, “Implementing a National Technology Strategy with Self-Organizing Industry Investment Boards”, Brookings Papers on Economic Activity. Microeconomics, 2, 1993, pp. 345-399.
[10] R. Hausmann, D. Rodrik, “Economic development as self-discovery”, Journal of Development Economics, 72, 2003, pp. 603-633.
[11] “If you want to succeed, raise your failure rate” (Thomas Watson, fondatore IBM).
[12] In molti casi l’esplorazione dei progressi tecnologici si è avvalsa dell’interazione tra laboratori di ricerca fondamentale e applicata, a finanziamento esclusivamente o prevalentemente pubblico, in altri Paesi come Germania, Giappone, Svizzera, Singapore e Taiwan.
[13] M.E. Porter, The Competitive Advantage of Nations, Londra, Palgrave MacMillan, 1990; A.D. Chandler, Scale and Scope. The Dynamics of industrial capitalism, Harvard, Harvard University Press, 1990; M.L. Dertouzos, R.K. Lester, R.M. Solow, Made in America, Cambridge, The MIT Press, 1989 (tr. it. Made in America, Edizioni Di Comunità, 1991); S. Berger, How We Compete: What Companies Around the World are Doing to Make it in Today’s Global Economy, New York, Currency-Doubleday, 2006. Negli anni recenti ha avuto una certa eco mediatica, ma non priva di rilievi critici, il pamphlet di Mariana Mazzucato, “The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths”, 2013 (tr. it. Lo Stato innovatore, Laterza, 2014). Molto critico nei confronti dello Stato imprenditore è F. Debenedetti, Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea della politica industriale, Venezia, Marsilio, 2016.
[14] P. Aghion, “The smart State”, in P. Diamond, T. Dolphin, R. Liddle, Progressive capitalism. Pillars for a new political economy, Londra, Rowman & Littlefield International, 2015.