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Tassa minima globale: come sta procedendo?
Il nuovo rapporto è focalizzato solo sugli sviluppi relativi al primo pilastro che prevede che le multinazionali con ricavi superiori ai 20 miliardi di euro possano essere tassate anche nei paesi in cui avvengono effettivamente i consumi dei loro prodotti, anche in assenza di una sede legale. La relazione concernente l’attuazione del secondo pilastro che introduce un’aliquota minima globale effettiva del 15 per cento sui profitti delle multinazionali con ricavi superiori ai 750 milioni di euro sarà, invece, pubblicata entro fine 2022. Si prevede, inoltre, che il completamento dei lavori avvenga entro la prima metà del 2023 con l’obiettivo di consentire l’entrata in vigore della nuova tassa globale entro il 2024 (e quindi non più entro il 2023 come annunciato in precedenza) tramite la ratifica dei paesi firmatari. Tuttavia, ci sono ancora molti ostacoli politici che impediscono la ratifica: All’interno dell’Unione Europa l’adozione di norme fiscali necessitano il voto all’unanimità dei paesi membri. Ad aprile, la Polonia aveva annunciato la volontà di porre il veto alla direttiva riguardante la tassa minima a livello europeo, come reazione al blocco dei fondi del PNRR verso Varsavia dovuto alle violazioni dello stato di diritto. Il calcolo dei ricavi ottenuti dal gruppo nel paese estero varierà a seconda che si tratti di beni fisici, servizi offerti all’interno dei confini nazionali, contenuti digitali, beni intermedi, servizi pubblicitari, servizi di transporto e prodotti/servizi sovvenzionati dalla giurisdizione in questione. Se i ricavi superano i 20 miliardi di euro per un periodo di tempo inferiore/superiore ad un anno, l’ammontare dei ricavi si adegua proporzionalmente alla durata del periodo.
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La ripresa degli investimenti pubblici
Per i prossimi anni il governo Draghi ha rivisto ulteriormente a rialzo l’obiettivo per gli investimenti pubblici, con l’intenzione di sfruttare le ingenti risorse del Next Generation EU (NGEU) per portare gli investimenti pubblici al 3,2 per cento del Pil entro il 2024. Questo soprattutto alla luce del fatto che in passato le infrastrutture italiane sono costate di più rispetto a quelle degli altri paesi europei e che nelle schede tecniche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) mancano delle analisi costi benefici degli specifici interventi. La nota è stata ripresa da questo articolo di TPI del 17 giugno 2021 * * * In generale, in presenza di una recessione gli investimenti pubblici possono essere una forma di spesa pubblica efficace, sia per sostenere la domanda aggregata sia per dotarsi di infrastrutture che innalzino la produttività nel medio-lungo periodo. Inoltre, in Italia gli investimenti pubblici sono drasticamente calati passando dal 3,7 per cento del Pil nel 2009 (un livello comunque elevato rispetto alla media storica italiana) al 2,1 per cento del Pil nel 2018 (Fig. 1). Si tratta quindi di una performance notevole, anche se non è possibile valutare in che misura l’aumento della spesa sia dovuto a un aumento dei prezzi degli investimenti, piuttosto che a un effettivo aumento nel volume degli investimenti stessi. Il deflatore degli investimenti fissi complessivi (pubblici e privati) è cresciuto solo dello 0,4 per cento nell’anno, ma questo potrebbe riflettere un calo del deflatore degli investimenti privati che sono calati rapidamente a causa della crisi. Il DEF fornisce anche un’indicazione del contributo delle risorse europee al livello degli investimenti nei prossimi anni: 0,4 punti di Pil nel 2021; 0,5 punti nel 2022; 0,8 nel 2023 e 0,2 nel 2024.
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Il trasporto su binari in Italia: un prodotto della questione meridionale
Il divario fra Nord e Sud è evidente anche dallo stato della rete e dall’età del parco treni: al meridione, infatti, quasi il 70 per cento dei treni ha più di 15 anni. Di conseguenza, di fondamentale importanza sono i fondi stanziati tramite il PNRR, i quali potranno garantire, se investiti correttamente, un servizio pubblico locale più efficiente, soprattutto al Sud. La velocità delle tratte regionali italiane La metodologia è invariata: calcoleremo la Velocità di Percorrenza Effettiva (VPE) per ogni regione nei collegamenti tra capoluoghi di provincia, calcolata come il rapporto tra la distanza tra due capoluoghi e il tempo richiesto per arrivare da una città all’altra. L’eccezione è la Puglia che ha la VPE più alta d’Italia, grazie al fatto che nei viaggi tra suoi principali capoluoghi di provincia è spesso possibile utilizzare i Frecciarossa. Rilevante è anche il caso dell’Abruzzo, dove la media regionale è abbassata dalla tratta Aquila-Teramo dove, nella fascia delle 8:00-9:00, la durata complessiva del viaggio disponibile è di 4 ore e 41 minuti (sempre per la mancanza di collegamenti diretti tra due capoluoghi, distanti solo 44 km). La Valle d’Aosta è esclusa dall’analisi della velocità, dato che la regione ha un solo capoluogo di provincia, viene però considerata per quanto riguarda gli altri indicatori riportati nel seguito della nota. Puntualizziamo, come nella precedente nota, che la VPE dipende dalla combinazione di vari fattori, ossia la velocità su binario dei treni, lo sviluppo della rete (ossia quanto è diretto il percorso che congiunge due città) e i tempi di attesa.
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Riforma del processo penale: come la valuterà l’Europa
Questa è una delle condizioni del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che doveva essere soddisfatta entro il 2021 per ricevere la prima tranche di finanziamenti dall’Europa (dopo il primo anticipo che non richiedeva condizioni). La qualità effettiva della riforma verrà invece valutata soltanto nel 2026, quando la Commissione verificherà se è stato raggiunto l’obiettivo di riduzione del 25 per cento della durata dei processi penali. La verifica è posta così in là nel tempo a causa dei tempi di attuazione della riforma, che diventerà infatti pienamente operativa soltanto a inizio 2024. Le condizioni dell’Allegato e il loro recepimento nella riforma La legge delega per la riforma del processo penale è entrata definitivamente in vigore dopo il voto favorevole del Senato questa settimana, che ha seguito quello della Camera pronunciato in agosto. La riforma verrà ora analizzata dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo, che verificheranno il rispetto di sette condizioni contenute nell’Allegato alla decisione presa dal Consiglio sulla richiesta di finanziamento dalla Recovery and Resilience Facility presentata dall’Italia (da qui in avanti l’Allegato). Su questo fronte, la riforma prevede un ampliamento della possibilità che già esiste per l’imputato, per alcune contravvenzioni, di estinguere un reato già durante le indagini preliminari attraverso l’adempimento di specifiche prescrizioni e il pagamento di una somma di denaro (articolo 1, comma 23). Nella sostanza, la riforma introduce senza dubbio diversi passi che, se realizzati in modo puntuale, potranno portare a una riduzione della durata dei processi penali e ad altri importanti miglioramenti rispetto all’attuale situazione, che vanno al di là di quanto richiesto dall’Allegato.
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Tutto quello che avreste voluto sapere sul “Recovery Fund”
Che rapporto c’è tra Next Generation EU (NGEU) e Recovery and Resilience Facility (RRF)? Il NGEU (anche noto Recovery Fund) dispone di risorse per 750 miliardi, di cui 390 miliardi in sovvenzioni (cioè finanziamenti a fondo perduto) e 360 miliardi in prestiti. La RRF è lo strumento più corposo del NGEU, che assorbe l’intero ammontare dei prestiti ed eroga ulteriori 312,5 miliardi come sovvenzioni per un totale di 672,5 miliardi (art. L’ammontare di sovvenzioni è rimasto invariato rispetto a quanto indicato nell’ultima bozza di PNRR, mentre l’importo dei prestiti è stato rivisto al ribasso di 5 miliardi a seguito dell’introduzione del sopra menzionato tetto massimo del 6,8 per cento dell’RNL. La Commissione può proporre una sospensione nei casi in cui un paese sottoposto a procedura di deficit eccessivo non adotti misure adeguate per far fronte agli squilibri eccessivi o in altre circostanze di mancato aggiustamento per i paesi che abbiano contratto prestiti per superare squilibri macroeconomici. Tuttavia, tale condizionalità è attenuata da tre fattori: La condizionalità macroeconomica è sospesa finché sono sospese le regole europee sui conti pubblici, ovvero fino a quando rimarrà attiva la clausola di salvaguardia generale (“escape clause”) del patto di stabilità e crescita, attivabile in caso di grave recessione in Europa. Almeno il 37 per cento delle risorse del piano deve essere destinato a misure che contribuiscono alla transizione verde (art.16) e 20 per cento a misure che contribuiscono alla transizione digitale. Nel caso in cui, a seguito della revisione degli importi massimi entro il 30 giugno 2022, risulti che a uno Stato membro sia stato erogato un prefinanziamento superiore al 13 per cento del contributo finanziario aggiornato, i pagamenti successivi vengono ridotti fino a compensare l’eccesso.
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Le sfide per i Comuni italiani: la spesa
È il caso dei Comuni, al momento oggetto di critiche nella stampa perché in ritardo nella realizzazione dei bandi e dei progetti relativi ai fondi del PNRR. Trattandosi dell’istituzione più prossima ai cittadini, quindi più idonea a soddisfarne le esigenze, i Comuni sono i principali titolari di funzioni amministrative che coprono una quota rilevante della loro spesa (pari al 70 per cento). In più, nel periodo di forte consolidamento delle finanze pubbliche, a partire dalla crisi finanziaria del 2008-2009, i Comuni sono stati assoggettati a vincoli di bilancio (il cd. Patto di Stabilità Interno, PSI) sempre più stringenti allo scopo di ridurne la capacità di spesa. Dal 2005 si osserva invece un’inversione di tendenza, che ha gradualmente riportato la spesa comunale (tralasciando l’anno della pandemia, dove il rapporto è falsato dalla caduta del Pil) sotto il 4 per cento del Pil. In modo preoccupante, però, questa riduzione ha interessato soprattutto la spesa in conto capitale. Così, i vincoli sui bilanci comunali sono stati estesi sia alla cassa che alla competenza, con la conseguenza di bloccare la spesa, in particolare quella in conto capitale anche nei Comuni che avevano ingenti risorse da impiegare. I dipendenti pubblici nei Comuni italiani Tra i fattori che hanno contribuito alla riduzione della capacità di spesa degli enti locali vi sono le politiche per il personale, introdotte dal governo centrale durante il periodo di consolidamento delle finanze pubbliche. Per essere più precisi: nel 2008, la legge di bilancio imponeva che le assunzioni di personale a tempo indeterminato dovessero rientrare nei limiti di una spesa complessiva pari al 60 per cento di quella relativa alle cessazioni avvenute nell’anno precedente.
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Che fare per la crescita e il debito. Un test in vista del voto
Un test in vista del voto Il Foglio Che fare per la crescita e il debito. Un test in vista del voto 08 agosto 2022 Una campagna elettorale seria ruoterebbe attorno al tema di chi ha le migliori credenziali per fare davvero le riforme previste dal Pnrr. E' troppo chiedere che nella campagna elettorale che si sta aprendo i partiti discutano dei problemi veri dell’Italia? E’ troppo pretendere che dicano cosa intendono fare per affrontare i due problemi che fanno dell’Italia un’anomalia assoluta, non solo in Europa: l’assenza di crescita e l’alto debito?
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Spread, il sorpasso della Grecia
Dietro questi dati vi è una performance economica che da qualche anno è migliore di quella dell’Italia in termini di crescita del Pil, di velocità nella riduzione degli squilibri di finanza pubblica, di capacità di attrarre investimenti esteri e di credibilità dell’azione di governo. Il notevole miglioramento greco ha fatto sì che, da circa metà maggio, lo spread greco scendesse notevolmente al di sotto di quello italiano, con una differenza di circa 40-50 punti base che si è mantenuta complessivamente per circa tre mesi (Fig. 1b). Le possibili spiegazioni Leggendo i rapporti delle istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale, OCSE, Commissione europea [3] ) nonché quelli delle agenzie di rating [4] appare evidente che la Grecia sta attraversando un periodo molto positivo in termini di crescita economica, di riduzione del debito pubblico e di capacità di attrarre capitali internazionali. Per quante critiche si possano muovere alla gestione delle crisi greca da parte delle istituzioni europee e del Fondo Monetario, il fatto che gran parte del debito non stia sul mercato è il risultato di un programma di salvataggio di dimensioni assolutamente straordinarie. È comunque un fatto che il rimbalzo post-Covid è stato più forte in Grecia che in Italia: dopo una caduta del 9 per cento in entrambi in Paesi nel 2020, la crescita cumulata del triennio 2021-2023 è stimata al 17 per cento in Grecia e al 12 per cento in Italia. È possibile che questi deficit esterni siano la controparte e la conseguenza fisiologica della capacità della Grecia di attrarre capitali dall’estero, ma è difficile non vedere in questo un punto di vulnerabilità della Grecia di oggi, e tale è considerato nei rapporti delle organizzazioni internazionali. Questo è un fattore che rafforza la credibilità del progetto di governo di cui è portatore e che, in sostanza, si identifica con quanto è contenuto nel PNRR greco.
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L'occupazione, anche quella giovanile, non va male
Né è vero che si sia aggravato il problema della disoccupazione giovanile che, come al solito, qualcuno si è affrettato a definire drammatico, e a fronte del quale si propone di estendere ulteriormente il vincolo del 30 per cento di assunzioni di giovani. Vero è che, in base ai dati Istat, a dicembre le cose non sono migliorate rispetto al mese precedente, ma i dati mese per mese sono poco significativi. In questo contesto, l’estensione del vincolo del 30 per cento (che oggi si applica solo ai progetti del PNRR) serve a poco e può anzi fare qualche danno. Qualora servisse, l’effetto sarebbe solo quello di aggravare la situazione delle persone non più giovanissime che, quando perdono un lavoro, fanno una grande fatica trovarne un altro; e lì sì che sono drammi seri per molte famiglie. Tant’è che, quando ciò accade, il governo finisce quasi sempre per rinnovare un qualche ammortizzatore sociale. Modesta proposta: mettiamo nel cassetto il vincolo a favore dei giovani e ragioniamo seriamente su come eliminare gli ostacoli ad una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Malgrado il record di cui si è detto, rimaniamo il paese avanzato con il più basso tasso di partecipazione femminile, ben sotto i valori di Grecia e Spagna, due paesi che per molti aspetti hanno un mercato del lavoro non meno iper-regolamentato e inefficiente del nostro.
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Documentazione ufficiale
Documenti Next Generation EU Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) Download. Documenti Programmatici di Bilancio Documento Programmatico di Bilancio 2023 - Versione aggiornata Download Documento Programmatico di Bilancio 2023 Download Documento Programmatico di Bilancio 2022 Download Documento Programmatico di Bilancio 2021 Download Documento Programmatico di Bilancio 2020 Download Documento Programmatico di Bilancio 2019 Download. Article IV - IMF Staff reports 2023 Article IV - IMF Staff report - Italy Download 2022 Article IV - IMF Staff report - Italy Download 2021 Article IV - IMF Staff report - Italy Download 2020 Article IV - IMF Staff report - Italy Download 2018 Article IV - IMF Staff report - Italy Download. European Semester: Country Reports 2023 European Semester: Country Report - Italy Download 2022 European Semester: Country Report - Italy Download 2020 European Semester: Country Report - Italy Download 2019 European Semester: Country Report - Italy Download 2018 European Semester: Country Report - Italy Download.
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Il catalogo delle incognite
Quali sono le principali novità? Quali le incognite? La prima novità, anche se i dati pubblicati negli ultimi mesi andavano chiaramente in questa direzione, è che la ripresa post Covid sta procedendo più rapidamente di quanto il governo aveva previsto in aprile. Questo significa che già nel primo trimestre del 2022 il Pil avrà raggiunto il livello (pre Covid) del quarto trimestre del 2019. Forse per questo, o forse perché si prevede che le riforme del Pnrr abbiano un rapido effetto sull’economia, la Nadef prevede tassi di crescita elevati (rispetto al nostro passato) ben oltre il primo trimestre del 2022: ancora nel 2024 il Pil crescerebbe di quasi il 2 per cento. Questo per due motivi: primo, il Pil nominale (anche per la maggiore inflazione) è stato più alto del previsto il che ha sostenuto le entrate dello Stato; secondo, c’è stato meno tiraggio del previsto per le misure di sostegno dell’economia, presumibilmente perché la crescita è stata più rapida. Con un deficit più basso e un Pil più alto, il rapporto tra debito pubblico e Pil, che era previsto sfiorare il 160 per cento del Pil (battendo il record raggiunto dopo la prima guerra mondiale) si fermerà al 153,5 per cento. Dopo tutto se l’esplosione di deficit del 2020-21 era dovuta alla caduta del Pil, ci si poteva aspettare che migliori notizie sul lato del Pil avrebbero portato a un minor bisogno di deficit. La Nadef segue invece una strada diversa: il deficit nel 2022 è un po’ più basso di quanto previsto ad aprile (5,6 invece che 5,9 per cento del Pil), ma molto più alto di quanto sarebbe stato possibile in assenza di nuove misure espansive (il 4,4 per cento del quadro tendenziale).
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Se torniamo fanalino di coda
Il dato sulla crescita del Pil nel terzo trimestre è una brutta doccia fredda per il nostro Paese. Con una crescita zero nel trimestre rispetto a quello precedente, contro un aumento del Pil dell’Eurozona dello 0,4%, non siamo proprio gli ultimi, ma ci andiamo vicino. Certo, non è vero, come sostenuto dalla presidente del Consiglio, che crescevamo più degli altri, citando dati della crescita del Pil del 2023 rispetto al 2022 che beneficiavano di una spettacolare spinta verso l’alto impressa al Pil nel corso del 2022, quando al governo c’era Draghi. Primo, perché il divario aperto nel terzo trimestre è pesante, al punto che anche nella classifica della crescita rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso arretriamo parecchio: l’aumento del Pil italiano in questo periodo è stato dello 0,4%, meno della metà di quello dell’Eurozona (0,9% che, se si escludesse l’Italia, salirebbe all’1,1%). Inoltre, se da qui in poi crescessimo alla stessa velocità media degli ultimi tre trimestri, nel 2025 il Pil crescerebbe solo dello 0,6%, la metà di quanto ipotizzato nella legge di bilancio, con probabili conseguenze negative per le entrate dello Stato e per il deficit. Infine, il fatto che il Pil, che è il prodotto del nostro lavoro, cresca così lentamente rispetto all’aumento dell’occupazione (in forte crescita almeno fino ad agosto) conferma che stiamo creando posti di lavoro a bassa produttività e/o part time. E continuerà così finché non affronteremo davvero i problemi strutturali che spiegano la bassa crescita della produttività: troppa burocrazia, poca concorrenza, tassazione alta e inefficiente, spesa pubblica da rivedere, una giustizia ancora lenta (nonostante qualche progresso), investimenti pubblici che, anche per il PNRR, procedono a passo di lumaca.
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Una manovra senza la crescita
Primo, è una legge di bilancio pro crescita? Il deficit pubblico si riduce tra il 2024 e il 2025 di circa 10 miliardi. Dato che il deficit è quello che, di netto (spesa pubblica meno entrate), lo Stato dà all’economia, l’effetto immediato è di togliere qualcosa all’economia, il che frena la domanda e la produzione. Il governo naturalmente dirà che la manovra è espansiva perché, in assenza della manovra, il deficit sarebbe sceso ancora di più (di circa 19 miliardi) per il venir meno delle misure temporanee esistenti quest’anno. E questo richiede la piena implementazione del PNRR e l’attuazione delle nuove riforme appena delineate nel Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine approvato un paio di settimane fa dal governo. Le entrate, per esempio, potrebbero essere state gonfiate recentemente dal fatto che i salari stanno ora crescendo più del Pil, mentre i profitti crescono meno (il contrario di quello avvenuto nel 2022). Se non è una manovra di sinistra è una manovra di destra sociale. Destra o sinistra che sia al governo, non investiamo abbastanza in quello che, anche in questo caso, può davvero fare la differenza nel lungo periodo.
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Fisco, evitiamo i regali agli evasori
Da giorni assisto o partecipo a trasmissioni televisive in cui esponenti del governo (da ultima Meloni ieri ad Agorà) vantano il record nel recupero dell’evasione fiscale registrato dall’Agenzia delle Entrate nel 2023: 24,7 miliardi. Altri esponenti dei partiti di maggioranza hanno in generale parlato del successo nel ridurre l’evasione conseguito da questo governo. I dati fino al 2021, contenuti nell’ultima “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione” preparata da una Commissione di tecnici di nomina MEF, ci dicono che tra il 2017 e il 2021 l’evasione è scesa da 109 miliardi a 84 miliardi: un calo di 25 miliardi, mai visto in così poco tempo. Primo, quasi tutto l’aumento è dovuto alla rottamazione delle cartelle, cioè a una forma di condono in cui il dovuto viene recuperato ma con dilazioni di pagamento pluriennali, e quindi con un rilevante sconto in termini reali per il contribuente, soprattutto grazie all’inflazione. Al netto dei condoni, il recupero (da attività ordinarie di controllo) è salito solo di 0,6 miliardi, da 19 miliardi nel 2022 a 19,6 miliardi nel 2023. Occorre aggiungere che comunque un recupero elevato nel 2022-2023 era previsto, dato che nel biennio precedente l’attività di recupero era stata ridotta moltissimo a causa del Covid. Infine, il (comunque) buon risultato nel recupero dell’evasione nel 2023 è stato raggiunto anche per effetto di misure previste dal PNRR, ereditate quindi da questo governo, come notato dal sito Pagella Politica.
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Ma il pallone non ci salverà
Grande vittoria dopo più di mezzo secolo (avevo 14 anni quando Giacinto Facchetti alzò la coppa nel 1968), vittoria meritata, vittoria di gruppo e di leadership (grazie Mancini, ma anche grazie Oriali e Vialli). Questo può essere dovuto a vari fattori (compresa la limitata disponibilità di vaccini e la necessaria priorità data alle seconde dosi), ma potrebbe riflettere anche la difficoltà di attirare i tanti che restano ancora alla finestra e che, tanto per andare sul sicuro, non si vaccinano. Il buon senso dovrebbe essere sufficiente a dirci che un paese dove i processi sono drammaticamente lenti è un paese dove la certezza del diritto viene a mancare: e la certezza del diritto è fondamentale in economia. Da anni i sondaggi delle imprese ci confermano che la lentezza dei processi è una delle principali cause del basso livello degli investimenti privati nel nostro paese. I dati CEPEJ indicano che la durata media dei processi civili che arrivano in Corte di Cassazione (probabilmente i più importanti) si è ridotta da 8 anni a 7 anni e tre mesi tra il 2016 e il 2018. La riforma Cartabia non è certo perfetta (per esempio, non dedica abbastanza attenzione agli aspetti più manageriali della gestione dei tribunali), ma va nella direzione giusta ed è auspicabile che sia approvata al più presto. Spero che non si faccia anche questa riforma in deficit: visto quanto è cresciuta la spesa pubblica negli ultimi anni, varrebbe la pena rispendere presto una seria revisione della spesa (il PNRR contiene solo vaghi impegni in proposito).
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Sanità oltre la Nadef
Lo scontro sulle risorse La pubblicazione della Nadef nei giorni scorsi ha aperto un dibattito sul tema delle risorse per la sanità, che appare largamente dettato da prese di posizione preventive rispetto alle scelte del governo. Al netto dei rumors, infatti, tutte le riflessioni di questi giorni possono basarsi solo sul “tendenziale”, che rappresenta l’evoluzione prospettica del bilancio dello stato a politiche invariate. E in termini proprio di obiettivi programmatici, la scelta del governo è quella di aumentare il deficit, una scelta che potrebbe anche implicare una maggiore spesa per la sanità. La questione vera Chiariti i termini della questione, cosa dice il tendenziale sulla spesa sanitaria? Conferma quello che si sapeva già da tempo (e che avevamo puntualmente ricordato su queste colonne ): la spesa sanitaria, in percentuale del Pil, mostra un trend decrescente dopo il picco toccato durante la pandemia. Queste variazioni non tengono naturalmente conto dell’inflazione prevista dal governo: in termini reali, sull’orizzonte della previsione si arriva a una riduzione di circa 4 punti percentuali (che largamente conferma le variazioni rispetto al Pil). Il messaggio generale dei numeri della Nadef è che – senza interventi del governo per rifinanziare il fabbisogno sanitario nazionale – anche i prossimi saranno anni di magra per il Ssn, dopo l’abbondanza sperimentata durante l’emergenza pandemica. Quello che sappiamo è che – rispetto al piano originario previsto dal Pnrr – sono state tagliate 510 strutture per via dell’aumento dei costi di costruzione.
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Osservazioni sul Documento programmatico di bilancio 2022
Questa prevede misure espansive per 31 miliardi, di cui 20 miliardi di maggiori spese e 11 miliardi di minori entrate. Il 60 per cento di tali interventi consiste nella proroga di misure già stanziate in passato (come Transizione 4.0 e Reddito di Cittadinanza), mentre le misure nuove rappresentano il 40 per cento. Aggiornamento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica Il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) conferma le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica della Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF). Questi 4 miliardi serviranno a mantenere la spesa sanitaria al livello del 2021; 4,1 miliardi di sostegni alle imprese, per la proroga degli incentivi fiscali di Transizione 4.0 e delle risorse destinate a sostenere l’internazionalizzazione delle imprese, come previsto dal PNRR nella missione per la digitalizzazione del sistema produttivo. Gli effetti della manovra sul 2023-24 L’effetto della manovra corrente sul 2023 è di 31,7 miliardi, di cui 29,2 miliardi in deficit rispetto al tendenziale. Sul 2024 la manovra corrente ha sempre un effetto di circa 30 miliardi, ma con un deficit rispetto al tendenziale di 24 miliardi a causa delle maggiori coperture (rispetto al 2023). Si tratta infatti di soli 400 milioni su 30 miliardi di manovra, nonostante la NADEF di settembre indicasse che le maggiori risorse di bilancio sarebbero state gradualmente destinate a questo tipo di spesa.
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BCE: gli acquisti di titoli italiani e i nuovi interventi annunciati
Tenendo conto dell’impegno a rinnovare i titoli che giungono in scadenza, si può stimare che la quota di debito pubblico detenuta dalla BCE e dalle istituzioni europee passerà dal 22,5 per cento del Pil nel 2019 al 42,1 per cento a fine 2022. A questa valutazione andranno aggiunti gli eventuali acquisti che verranno effettuati con i nuovi strumenti annunciati di recente, con lo scopo di limitare aumenti asimmetrici dei tassi di interesse sui titoli sovrani che mettono a rischio l’ordinata trasmissione della politica monetaria. A disposizione dalla BCE ci sarà poi un nuovo strumento, il Transmission Protection Instrument (TPI), che prevede acquisti di titoli del debito pubblico, senza limiti definiti ex-ante, al fine di limitare aumenti dei tassi di interesse che non siano giustificati dai fondamentali economici del paese. L’attivazione degli acquisti del TPI sarà ad ampia discrezione del Consiglio direttivo della BCE e richiederà che siano soddisfatte importanti condizioni, tra cui il rispetto delle indicazioni del semestre europeo sulle riforme e sui bilanci pubblici nonché la puntuale attuazione del PNRR. Inoltre, ha continuato a rinnovare i titoli detenuti che giungevano in scadenza: stimiamo che nel biennio 2020-2021 abbia rinnovato titoli italiani per 120 miliardi e che ne rinnoverà altri 88 miliardi entro la fine del 2022. Qual è l’ordine di grandezza dei reinvestimenti che la BCE potrà usare in maniera flessibile? La BCE non pubblica i dati sui titoli in scadenza del PEPP, ma rende noto l’importo aggregato dei titoli in scadenza del PSPP ogni mese sino a giugno 2023. Anzi, è verosimile (anche se non è stato per ora confermato) che l’attivazione del TPI sarò oggetto di un annuncio; il che segnalerebbe al mercato che la prima linea di difesa (gli acquisti flessibili del PEPP) non è stata considerata sufficiente.
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Le sfide per i Comuni italiani: le entrate
Dall’analisi sono emerse una perdita di centralità dell’attore comunale nell’accumulazione del capitale pubblico e una riduzione significativa del personale, soprattutto di carattere tecnico, una fonte di preoccupazione per la capacità dei Comuni di realizzare la quota degli investimenti a loro attribuita dal PNRR. In più, la finanza comunale è stata soggetta a continue modifiche negli anni, sia per quanto riguarda i tributi che i trasferimenti, accentuando il grado di incertezza degli enti locali sui loro bilanci e dunque sulla loro capacità di programmazione. Prima di analizzare nel dettaglio le fonti e le modalità di finanziamento dei Comuni italiani, è utile riportare le principali informazioni, raccolte in una nota precedente, sulla spesa di questi enti locali. Con i primi anni Novanta, si decise dunque di riformare il sistema e, coerentemente con l’idea che il decentramento fiscale potesse accrescere la responsabilità finanziaria degli enti sub-nazionali, si puntò a rafforzare anche la capacità dei Comuni di finanziarsi con risorse proprie. I Comuni dovevano imporre un’aliquota minima sul tributo, ma avevano comunque un’ampia autonomia nel determinare l’aliquota dell’imposta (all’interno di intervalli prestabiliti) per tutte le tipologie di immobili a cui si applicava, con anche la possibilità di introdurre detrazioni differenziate sugli immobili di residenza principale dei contribuenti. Tuttavia, come già ricordato, la Tari è vincolata al finanziamento integrale del servizio dei rifiuti e non può, dunque, essere considerata al pari di addizionale e IMU. Pertanto, di seguito, calcoliamo un indicatore di “autonomia tributaria” dei Comuni considerando esclusivamente l’IMU e l’addizionale Irpef sul totale delle entrate correnti. L’ICI doveva essere pagata dai proprietari di fabbricati, di aree edificabili e di terreni agricoli situati nel territorio dello Stato; dai titolari di diritti reali di godimento sugli stessi beni; dai locatari in caso di locazione finanziaria e infine dai concessionari di aree demaniali.
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La questione aperta delle liste d’attesa
Pur in assenza di informazioni precise, i segnali che arrivano da pazienti e medici raccontano che, in Italia, il problema delle liste d’attesa è in continuo peggioramento, soprattutto a seguito della pandemia di Covid-19, che ha aggravato le criticità preesistenti del sistema sanitario. I nuovi provvedimenti del governo italiano prevedono, fra le altre cose, l’incremento delle risorse destinate al personale sanitario (tramite l’abrogazione del tetto di spesa per il personale sanitario e l’introduzione di una normativa fiscale più favorevole per le prestazioni aggiuntive del personale sanitario) e l’introduzione di tempi massimi d’attesa. I due provvedimenti sono: il decreto-legge n. 73 del 7 giugno 2024, [1] contenente misure urgenti per la riduzione delle liste di attesa delle prestazioni sanitarie emanato proprio prima delle elezioni europee; un disegno di legge, che dovrà fare il suo iter parlamentare. Inoltre, si prevede anche di inserire il rispetto dei tempi massimi di attesa per l’erogazione delle prestazioni sanitarie fra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), come criterio per l’attribuzione di forme premiali in aggiunta alle risorse ordinarie per il finanziamento del SSN previste dalla legislazione vigente. Questa piattaforma garantirà interoperabilità con le piattaforme delle singole regioni e province autonome, in linea con quanto stabilito anche dall’obiettivo del PNRR “Potenziamento del Portale della Trasparenza”, e consentirà di monitorare le agende e i tempi di attesa, anche con l’aiuto di verifiche in capo alla stessa Agenas. Questo avrà il compito di verificare l’erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie e il corretto funzionamento del sistema di gestione delle liste di attesa. L’OCSE sottolinea il ruolo di diversi fattori di domanda e di offerta di servizi sanitari nel determinare la lunghezza delle liste e mette in luce la differenza degli approcci dei vari Paesi in termini di misure di contenimento del fenomeno.
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Il nuovo Recovery Plan: meno crescita e più contrasto alle diseguaglianze, meno incentivi e più investimenti pubblici
Sul piano dei contenuti, un primo cambiamento riguarda il fatto che nel precedente piano il tema centrale era l’andamento deludente della crescita economica italiana rispetto agli altri paesi avanzati negli ultimi decenni; nel nuovo piano è dedicata molta più attenzione alle disuguaglianze di età, di genere e territoriali. Crescono inoltre gli investimenti pubblici a scapito degli incentivi, una scelta che suscita qualche perplessità, alla luce dei tempi che richiedono gli investimenti pubblici e del fatto che le risorse europee devono essere impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026. La nota è stata ripresa in questo articolo di Repubblica del 15 gennaio 2021 * * * La bozza del piano nazionale per l’utilizzo dei fondi del NextGenerationEU approvata il 12 gennaio dal Consiglio dei Ministri è molto diversa dalla bozza che era circolata a dicembre 2020. Tuttavia, i contenuti di questa bozza erano ancora vaghi, poiché erano definite soltanto le risorse destinate a ciascuna missione e componente (6 missioni con 17 sottocomponenti), ma, per ogni componente del piano, non erano state ancora stabilite le risorse destinate ai singoli progetti, che erano solo elencati e brevemente descritti. Anche il contenuto del piano è cambiato, per alcuni aspetti in modo considerevole, soprattutto se si tiene conto che è stato redatto dallo stesso governo e con lo stesso ammontare di risorse europee a disposizione. Qui si sostiene che il moltiplicatore degli investimenti pubblici è maggiore di quello degli incentivi, ovvero che un euro di spesa pubblica destinato agli investimenti provoca un aumento del Pil maggiore rispetto a un euro speso per incentivi. Per quanto riguarda le riforme della giustizia si riconosce che sono importanti, ma, come nella bozza precedente, il nuovo piano si limita a rilevare che al momento queste riforme sono “pendenti in Parlamento”, il che, come già è stato argomentato, non garantisce che la giustizia sarà adeguatamente riformata.
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Il Documento Programmatico di Bilancio 2023
I rischi rispetto a questo scenario sono tutti al ribasso e starà al nuovo governo definire obiettivi programmatici coerenti con la duplice esigenza di sostenere l’economia e, al tempo stesso, realizzare una graduale riduzione del rapporto debito/Pil nei prossimi anni. Le previsioni del DPB sono infatti di tipo tendenziale, cioè stimate a legislazione vigente, e sono identiche a quelle presentate nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF), che viene citata direttamente come fonte. Previsioni tendenziali macro e di finanza pubblica Si conferma la positiva dinamica del Pil per il 2022, che in termini reali cresce del 3,3 per cento invece del 3,1 previsto nell’aprile scorso dal DEF. La crescita peggiora nel 2023 e rimane inalterata per il 2024 e 2025. A legislazione vigente, l’anno prossimo la crescita reale sarà solo dello 0,6 per cento, con la crescita del Pil nominale quasi esclusivamente trainata dall’inflazione (il deflatore del Pil tendenziale è di 1,5 punti percentuali sopra il programmatico del DEF 2022). Il nuovo aumento dei prezzi farebbe diminuire il Pil reale rispetto allo scenario di base dello 0,2 per cento nel 2022 e dello 0,5 nel 2023: quindi la crescita annuale si fermerebbe al 3,1 per cento nel 2022 e allo 0,1 per cento nel 2023, ovvero crescita zero. Ciò ridurrebbe i costi delle importazioni e l’inflazione, ma causerebbe, via minori esportazioni, una riduzione del Pil rispetto allo scenario base di 0,3 punti percentuali nel 2023, di 0,7 punti percentuali nel 2024 e dello 0,8 per cento nel 2025. La questione cruciale sarà la credibilità di un piano di rientro del debito pubblico: nel DEF si prevedeva un sentiero molto graduale, con un ritorno ai livelli pre-pandemia (circa 135 per cento del Pil) nell’arco di un decennio.
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Scenari macro e di finanza pubblica nella NADEF 2022
I rischi rispetto a questo scenario sono tutti al ribasso e starà al nuovo governo definire obiettivi programmatici coerenti con la duplice esigenza di sostenere l’economia e, al tempo stesso, realizzare una graduale riduzione del rapporto debito/Pil nei prossimi anni. Previsioni tendenziali e differenze con il DEF 2022 La NADEF conferma la positiva dinamica del Pil per il 2022, che in termini reali cresce del 3,3 per cento invece del 3,1 previsto nell’aprile scorso dal DEF. La crescita peggiora nel 2023 e rimane inalterata per il 2024 e 2025. A legislazione vigente, l’anno prossimo la crescita reale sarà solo dello 0,6 per cento, con la crescita del Pil nominale quasi esclusivamente trainata dall’inflazione (il deflatore del Pil tendenziale è di 1,5 punti percentuali sopra il programmatico del DEF 2022). Dalle stime contenute nella NADEF, il nuovo aumento dei prezzi farebbe diminuire il Pil reale rispetto allo scenario di base della NADEF dello 0,2 per cento nel 2022 e dello 0,5 nel 2023: quindi la crescita annuale si fermerebbe al 3,1 per cento nel 2022 e allo 0,1 per cento nel 2023, ovvero crescita zero. Se ciò si verificasse, la crescita del Pil si ridurrebbe dello 0,1 nel 2023, dello 0,4 nel 2024 e dello 0,5 nel 2025 rispetto allo scenario di base. Ciò ridurrebbe i costi delle importazioni e l’inflazione, ma causerebbe, via minori esportazioni, una riduzione del Pil rispetto allo scenario base di 0,3 punti percentuali nel 2023, di 0,7 punti percentuali nel 2024 e dello 0,8 per cento nel 2025. La questione cruciale sarà la credibilità di un piano di rientro del debito pubblico: nel DEF si prevedeva un sentiero molto graduale, con un ritorno ai livelli pre-pandemia (circa 135 per cento del Pil) nell’arco di un decennio.
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Il finanziamento del debito pubblico italiano: il ruolo delle istituzioni europee
Con la riduzione progressiva di queste risorse a causa del processo di Quantitative Tightening, occorrerà ricorrere sempre di più al settore privato nazionale e internazionale per il finanziamento del debito italiano. Si tratta di un cambiamento importante per le nostre finanze, dato che a fine 2023 più del 29 per cento del debito lordo italiano era detenuto da queste istituzioni. Come misura di quanto l’afflusso di fondi europei sia stato importante, la Fig. 1 riporta la differenza, in percentuale al Pil, fra l’aumento del debito pubblico lordo e i finanziamenti europei dalle tre sopracitate fonti. La misura, quindi, indica quanto dell’aumento del debito lordo sia stato finanziato (o più che finanziato) dalle istituzioni europee evitando, quindi, il ricorso al settore privato nazionale e internazionale. La figura mostra come nel biennio 2020-2021 il settore pubblico italiano abbia ricevuto dalle istituzioni europee più di quanto fosse necessario per coprire le proprie esigenze di indebitamento, riuscendo quindi a rimborsare il settore privato per importi rispettivamente pari al 2,5 per cento e 3,6 per cento del Pil nel 2020 e 2021. Lo spread si è anzi ridotto negli ultimi sei mesi, ma questo è avvenuto nel contesto di un generale ottimismo dei mercati finanziari mondiali rispetto all’attesa riduzione dei tassi di interesse. In assenza di informazioni specifiche sulla scadenza dei titoli acquistati in passato, si è assunto che il decumulo di titoli prosegua fino al 2027 alla stessa velocità (in miliardi) di quella media calcolata fra luglio 2023 e aprile 2024 (ultimo mese per cui i dati sono disponibili).
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Un aggiornamento sulla situazione degli asili nido in Italia
In proposito, l’iniziale insufficienza di domande da parte dei comuni del Sud è stata ora in gran parte superata, anche se almeno 330 milioni inizialmente allocati per gli asili nido potrebbero essere dirottati sulle scuole per l’infanzia, dove le carenze sono minori. Disuguaglianza nell’offerta degli asili nido Nell’anno scolastico 2019/2020, con 361.318 posti, il livello di copertura degli asili nido in Italia (definito come numero di posti nei servizi educativi per 100 bambini residenti sotto i 3 anni) era del 26,6 per cento, ben al di sotto del target europeo del 33 per cento. Gli iniziali 700 milioni di fine 2020 e i più recenti 2,4 miliardi porterebbero il tasso di copertura degli asili nido dal 26,6 per cento nel 2019 al 45,5 per cento entro il 2025 (Tav. 2). Una possibile causa del mancato invio di schede progettuali per la costruzione di posti di asili nido potrebbe essere stata la scarsa esperienza di alcuni comuni, specie quelli al Sud, nella gestione di asili nido. Per far fronte a tale problema, è stata creata una task force di esperti dell’Agenzia per la Coesione per il sostegno tecnico ai comuni “con una copertura di servizi dedicati alla fascia 0-2 anni molto al di sotto dell’obiettivo europeo del 33 per cento”, essenzialmente i comuni del Sud. Tuttavia, 70 milioni di questi 400 milioni residui saranno comunque oggetto di un nuovo bando con scadenza a fine maggio per asili nido riservato ai Comuni delle Regioni del Mezzogiorno, con priorità a Basilicata, Molise, Sicilia. Quindi, dividendo 3,1 miliardi stanziati (2,4 miliardi più i 700 milioni del bando indetto il 30/12/2020) per 16.000, si ottengono 193.750 nuovi posti per gli asili nido che, sommati ai 361.318 attuali, incrementerebbero la copertura degli asili nido da 26,6 a 45,5 per cento (Tav.2).