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L'Italia è a un bivio

22 giugno 2021

L'Italia è a un bivio

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La Repubblica, 22 giugno 2021

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Oggi Ursula von der Leyen arriva in Italia per concludere l’accordo sul Recovery Plan (consentitemi di chiamarlo ancora in questo semplice modo). Arriva dopo aver visitato, con lo stesso scopo, Spagna, Portogallo, Grecia, Slovacchia, Danimarca e Austria e prima di visitare Francia e Germania. Ma il viaggio in Italia è il più importante, non fosse altro che per l’importo dei finanziamenti, di gran lunga il maggiore tra tutti i paesi UE. Non trattenete il respiro. Tutto è già stato deciso: la “pagella”, piena di A, è già stata anticipata dai media ieri. La visita ha una natura simbolica. Ma anche i simboli hanno importanza e la visita chiude un percorso durato un anno circa lungo il quale la Commissione Europea, e i principali paesi europei, tra cui l’Italia, hanno affrontato insieme una crisi senza precedenti e lavorato per porre le bassi per la crescita futura. Si apre ora una nuova fase, una in cui le responsabilità da collettive diventano prevalentemente individuali. La domanda è una: cosa serve perché l’Italia sfrutti l’occasione data dal Recovery plan? Per rispondere è bene chiarire alcune cose.

Primo, il Recovery Plan ha poco a che fare con l’uscita dalla crisi. Sperando che non ci siano sorprese sanitarie, l’economia italiana sta già uscendo dalla crisi. Questo avviene con il sostegno di politiche di bilancio molto espansive (forse anche un po’ troppo, visto il rimbalzo dei prezzi?) finanziate più con le risorse della BCE che con finanziamenti dell’Unione Europea. Il Recovery Plan serve invece a finanziare la crescita di medio periodo, serve a facilitare le riforme e gli investimenti che il nostro paese deve realizzare per portare la crescita del PIL almeno al 2 per cento l’anno per i prossimi dieci anni (nei dieci anni pre-covid abbiamo fatto lo 0,2 per cento).

Secondo, scordiamoci che l’implementazione di quelle riforme e di quegli investimenti siano garantiti soltanto perché abbiamo firmato un “contratto” con l’Unione Europea. Certo, il contratto prevede che le risorse arrivino solo se facciamo certe cose. Il Recovery Plan è pieno di “condizioni” (nella versione mandata a Bruxelles a fine aprile erano 419 tra “milestone” e “target”). Tuttavia, molte di queste condizioni, soprattutto quelle relative alle riforme, sono formulate in modo relativamente vago: l’unico modo per eliminare la vaghezza relativa a, per esempio, una riforma della giustizia sarebbe quella di concordare con la Commissione il relativo testo di legge, cosa ovviamente impossibile. Ma se le condizioni restano vaghe, il giudizio sull’erogazione delle risorse sarà altamente soggettivo e, quindi, politico. Se la nostra relazione con l’Europa resta buona le risorse arriveranno anche se magari le riforme non sono poi così valide. Questo significa che spetterà soprattutto a noi decidere se le riforme le vogliamo fare davvero e non in modo puramente formale.

E, allora, la domanda fondamentale che ci dobbiamo porre è quali siano le condizioni migliori per realizzare tali riforme. Inutile dire che le riforme dovranno essere ben fatte, che gli investimenti dovranno essere produttivi, che occorre semplificare, digitalizzare eccetera. Il nostro Recovery Plan non è certo perfetto ma la strategia è quella giusta e riforme e investimenti, pur migliorabili, vanno nella direzione giusta. La questione principale è l’implementazione, l’execution. Quali assetti politico-istituzionali faciliterebbero la realizzazione del Recovery Plan? Qui sono combattuto. Da un lato si potrebbe dire sostenere che le riforme possono essere attuate davvero solo con il forte consenso dell’opinione pubblica italiana. Questo Recovery Plan non è emerso da un passaggio elettorale in cui si sia chiesto agli italiani se quelle individuate dal piano fossero le priorità per il Paese. Niente di illegittimo in questo. Ma un passaggio elettorale chiarirebbe se queste sono le riforme che gli italiani vogliono, rendendole più credibili. Da qui deriverebbe la necessità di andare alle urne già nella prossima primavera. Draghi diventerebbe Presidente della Repubblica e il nuovo governo avrebbe cinque anni davanti a sé per realizzare il Recovery Plan, sulla base di un fermo mandato elettorale. D’altro lato, però, Draghi ha dimostrato negli ultimi mesi una capacità di leadership politica e di mediazione tra le diverse esigenze cui è difficile rinunciare. Se l’attuale governo rimanesse in carica fino all’inizio del 2023 ci sarebbe tempo perché le riforme mettano radici e riescano comunque a sopravvivere al cambio di governo. Posto che sembra che il Presidente Mattarella non sia disposto a fare da ponte per un successivo ingresso al Quirinale di Draghi nel 2023, non c’è nessuna alternativa rispetto alle due che ho presentato. Che fare dunque? Tutto sommato, mi sembra che la seconda ipotesi—Draghi a palazzo Chigi fino al 2023 (qualcuno direbbe anche oltre)—resti preferibile. Quel che è chiaro è che la scelta è di fondamentale importanza per il Paese. Vedremo nei prossimi mesi quale decisione sarà presa dalle forze politiche, e da Draghi stesso, di fronte al bivio a cui è giunta l’Italia.

Un articolo di

Carlo Cottarelli

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