Una volta, tanto tempo fa, prima del Covid, prima del Recovery Plan, prima che le regole europee sui conti pubblici fossero sospese, prima che la Banca centrale europea cominciasse a finanziare il deficit pubblico italiano (absit iniuria verbis!) attraverso massicci acquisti di titoli di stato, prima di tutto questo, l’attenzione degli analisti economici e politici al termine della pausa estiva si sarebbe concentrata su come il nostro governo avrebbe fatto a far quadrare i conti nella Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza di settembre e nella legge di bilancio di ottobre. Non è più così: l’assenza di problemi di liquidità (i tassi di interesse sono ai minimi storici) rendono meno pressante la questione della nostra finanza pubblica. Tuttavia, almeno in un’ottica di medio termine, resta necessario chiedersi quale sia l’appropriato livello di deficit pubblico per il prossimo anno.
Partiamo dai precedenti piani governativi contenuti nel Documento di Economia e Finanza (DEF) dello scorso aprile. Questo fissava all’11,8 per cento del PIL l’obiettivo di deficit pubblico per il 2021, e al 5,9 per cento quello per il 2022. Cosa è cambiato da allora? La situazione macroeconomica è migliorata più di quanto prevedesse il governo. Il DEF prevedeva una crescita del Pil reale del 4,5 per cento e un aumento dei prezzi (deflatore del PIL) dell’1,1 per cento. Le cose sono andate meglio in termini di crescita reale (si può ora ipotizzare una crescita del 6 per cento) e i prezzi hanno accelerato più del previsto (seppure in parte per effetto del costo delle importazioni che non influenzano il deflatore del PIL). Più PIL reale e nominale vuol dire più entrate per lo stato sicché il deficit pubblico quest’anno dovrebbe risultare più basso di quello previsto nel DEF. La bonanza di entrate proseguirebbe, per effetti di trascinamento, nel 2022 (anche ipotizzando un rallentamento della crescita). In assenza di nuovi interventi, il nostro deficit pubblico risulterebbe quindi più basso di quanto previsto nel DEF anche nel 2022. In assenza di nuovi interventi … Ma, dirà qualcuno, il “tesoretto” che deriva dalla maggiore crescita del Pil e delle entrate non dovrebbe essere utilizzato per finanziare nuove spese o per tagliare le tasse? Non è questa la soluzione per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali, l’uscita da quota 100, la riforma della tassazione (alias, il taglio delle tasse) e quant’altro?
La logica economica direbbe di no. Se l’aumento del deficit pubblico durante la crisi Covid era giustificato dalla recessione, una più rapida ripresa dovrebbe essere accompagnata da un più rapido calo del deficit. Se tutto va bene (cioè se non si torna alle chiusure), nel primo trimestre del 2022 il nostro Pil dovrebbe aver recuperato il livello pre-Covid, quando il deficit era dell’1,6 per cento del PIL. Un deficit come quello previsto nel DEF per il 2022 (5,9 per cento, come sopra indicato) risulterebbe quindi di molto superiore a quello pre-Covid, a parità di Pil. Si dirà che le cose sono cambiate dal 2019: ci sono finanziamenti europei in abbondanza e si è capito che il debito può essere “buono”, per esempio per finanziare spese prioritarie (pubblica istruzione, sanità e investimenti). Vero. Ma nessuno sostiene che il deficit nel 2022 debba tornare a quello che era pre-Covid solo perché il Pil è tornato a livello pre-Covid. Dico solo che al più rapido ritorno del PIL alla normalità dovrebbe corrispondere anche un sentiero di rientro dal deficit più rapido del previsto. Fra l’altro, nelle sopra citate cifre del deficit non sono comprese le spese che saranno finanziate dai conferimenti a fondo perduto del Recovery Plan che nel 2022 dovrebbero corrispondere a una ventina di miliardi (un altro punto abbondante di Pil). Anche le recenti tensioni inflazionistiche (seppur meno intense che altrove) suggeriscono che la domanda di beni e servizi resti del tutto adeguata. Infine, se anche il nuovo debito pubblico del 2020 e 2021 è stato finanziato interamente dalle istituzioni europee e non dai mercati finanziari, non possiamo dimenticarci che il nostro debito verso questi ultimi resta tra i più alti al mondo e che i tassi di interesse potrebbero iniziare a crescere a livello mondiale prima di quanto si pensava solo sei mesi fa.
Ha ben fatto quindi il ministro Franco a ricordare, in una audizione parlamentare a fine luglio, che il vincolo di bilancio ancora esiste e che resta "fondamentale il tema delle risorse disponibili: per l'alleggerimento del prelievo non possiamo mettere a rischio la tenuta dei conti in particolare in questa fase". Né, aggiungerei, per altri scopi.