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Per la sanità del territorio non basta costruire gli edifici
La sanità territoriale nel Def e nel PNRR Non c’è traccia nel Documento di Economia e Finanza appena varato dal Governo della riforma che, nel silenzio più totale, sta interessando il Servizio Sanitario Nazionale. La riforma della sanità territoriale è stata invocata da molti durante la pandemia: una delle ragioni che spiegano perché il Covid-19 abbia picchiato così duro nel nostro Paese, soprattutto nella prima ondata, è stata la quasi totale assenza in alcuni contesti delle reti di assistenza territoriale. Coerentemente con questa tesi, il PNRR ha previsto (pescando i progetti dai cassetti del Ministero) che si realizzino quelle strutture territoriali che devono servire a sgravare il pronto soccorso e a far funzionare meglio l’ospedale: le case e gli ospedali della comunità. Gli ospedali della comunità sono invece strutture intermedie tra l’ospedale e l’assistenza primaria di base: vi dovrebbero rientrare le strutture per la riabilitazione, per affrontare la riacutizzazione di patologie croniche o per quei pazienti che hanno bisogno di assistenza o sorveglianza infermieristica continua. Anche in questo caso, non si parte da zero proprio perché del progetto di riforma dell’assistenza territoriale si parla da anni: diverse Regioni hanno già riconvertito alcuni piccoli ospedali locali in strutture che assomigliano molto alla definizione di ospedale della comunità e li stanno già facendo funzionare. Il punto è: cosa ne pensa realmente il Governo? Le Regioni – coerentemente con quello che c’è scritto nel PNRR e nei contratti di sviluppo che sono già stati firmati – dovrebbero realizzare 1.350 case della comunità e 400 ospedali della comunità. Altro esempio: il modello della casa della comunità potrebbe restringere gli spazi per il progetto della farmacia di comunità (quindi per i farmacisti) a favore delle altre figure che si troverebbero a operare dentro le case; fra questi, per esempio, gli infermieri.
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Cosa ci ha dato Draghi
L’elenco è lungo: la riforma della giustizia civile, quella della giustizia penale, le semplificazioni necessarie per portare avanti gli investimenti pubblici del PNRR, la riforma della concorrenza, la riforma fiscale, la riforma degli ammortizzatori sociali. Questa è dovuta a diverse cause, tra cui la quasi scomparsa del vincolo di bilancio grazie ai 350 miliardi di euro che nel biennio 2020-21 la BCE ha riversato in Italia. Per altre, decisioni cruciali sono state rinviate ai decreti legislativi necessari per completare le riforme: tra questi primeggiano quelli necessari per attuare la riforma fiscale che, a parte la recente revisione delle aliquote IRPEF, resta caratterizzata dalla vaghezza di contenuti. La persistente generosità del bonus 110 per cento e dei vari bonus rubinetti, terme, televisori danno il senso (poco educativo) di uno stato che fornisce risorse anche a chi non ne ha davvero bisogno, anche in una fase di crescente inflazione (certo in buona parte importata, ma non interamente). Il Parlamento ha fatto la sua parte: colpiscono le risorse stanziate (anche se si tratta solo di 10 milioni) per risarcire i proprietari di immobili occupati abusivamente: insomma, essendo lo stato incapace di impedire le occupazioni abusive, se ne accolla il costo. In generale, e anche al di fuori della stretta condizionalità prevista dal PNRR, progressi dovranno essere compiuti nei decreti legislativi previsti dalle leggi delega approvate o in corso di approvazione, compreso nel settore della giustizia. Certo che quell’accenno al “nonno” ci fa pensare che si veda meglio collocato in posizioni meno caratterizzate dalla battaglia giornaliera che coinvolge un presidente del consiglio.
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La crescita del 2025: rischio delusione per l’Italia
Non è vero, come diceva Meloni, che crescevamo molto più rapidamente degli altri Paesi europei, ma non eravamo neppure il fanalino di coda del continente, come eravamo stati per gran parte del primo ventennio di questo secolo. Non solo: il “preconsuntivo” annuale pubblicato di recente dall’Istat implica sì che nell’ultimo trimestre la crescita sia stata più alta di quella del trimestre precedente, ma il rimbalzo sarebbe limitato. Il secondo è che si è ormai esaurita completamente la spinta derivante da quella marea di risorse che sono arrivate dall’Europa. E visto che il deficit è il netto dei soldi che lo Stato mette nell’economia, la spinta sulla crescita economica si è interrotta. Nel 2025 il bilancio dello Stato continuerà a esercitare una pressione negativa sulla crescita: il deficit pubblico è previsto calare di mezzo punto percentuale di Pil, circa 10 miliardi. Il punto fondamentale è invece che, a ormai tre anni e più dall’inizio del PNRR, non sembrano esserci ancora segni tangibili di un suo impatto sulla crescita economica. L’obiettivo non sarebbe stato per ora raggiunto, il che sarebbe una pessima notizia non tanto per quello che ci possiamo aspettare nel 2025, ma per quello che ci possiamo aspettare nel medio termine.
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Non tutte le accise vengono per nuocere
La scelta del governo La decisione di non rinnovare il taglio dell’accisa sui carburanti, che ha portato a un repentino aumento dei prezzi alla pompa per benzina e diesel, ha riaperto il dibattito periodico sul caro-carburanti. Primo, in genere il dibattito si apre in occasione di una forte crescita dei prezzi sui mercati internazionali del greggio, mentre oggi siamo di fronte a una riduzione del prezzo del barile almeno dalla metà dello scorso anno. Secondo, il dibattito si svolge in contemporanea all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che fra le sue missioni ne prevede una che parla di “rivoluzione verde e transizione ecologica”. Nel caso dei carburanti, l’accisa la pagano di fatto i consumatori tramite prezzi più alti al dettaglio a causa della rigidità della loro domanda, che porta a una traslazione completa dell’imposta. Ed è anche la ragione che spiega perché il governo Meloni ha rinunciato al taglio delle accise con la legge di bilancio (una misura che sarebbe costata circa 1,8 miliardi per il primo trimestre secondo i calcoli fatti qui ). L’occasione del Pnrr Le ragioni di gettito portano a una seconda domanda: potevamo evitare di reintrodurre l’accisa? Il vincolo di bilancio ha imposto una scelta politica sulle spese e sulle entrate da privilegiare nel 2023. Secondo, nonostante l’accisa inglobi il finanziamento di un numero svariato di spese (a partire, ahinoi, dalla guerra in Abissinia), può essere letta come una tradizionale imposta pigouviana per la correzione di esternalità negative, in questo caso l’inquinamento (si veda nello specifico questo articolo di Marzio Galeotti e Alessandro Lanza).
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Natalità, istruzione e meritocrazia: così l’Italia deve ripensare il futuro
Sono problemi che solo in parte vengono affrontati dal PNRR, ma che più di tanti altri influenzeranno le tendenze di medio termine del nostro Paese. Il numero medio di figli per donna di cittadinanza italiana è sceso a 1,17, ma cala la natalità anche nelle famiglie con almeno un genitore straniero. Il problema è stato alleviato in passato dall’aumento del tasso di occupazione rispetto alla metà degli anni ‘90 e da un’immigrazione disordinata (quello che abbiamo visto sulle coste italiane negli ultimi anni è tutto tranne che una politica di immigrazione che è finora mancata). Se gli eccessi di un mondo basato sul merito vanno rigettati, il nostro paese ha sempre peccato nella direzione opposta, quello di un capitalismo relazionale e di un tentativo di promuovere un egualitarismo spinto (peraltro efficacie più nelle parole che nei fatti). Occorre invece premiare il merito per motivare le persone e questo deve essere fatto a partire dalla pubblica amministrazione, con un’adeguata formazione, con la misurazione sistematica dei risultati e col riconoscimento di tali risultati anche finanziariamente. E ci deve essere la volontà da parte del sindacato di accettare l’introduzione di criteri di merito nella gestione del personale pubblico. Spero che i tre sopracitati temi ricevano l’attenzione che meritano perché anche da essi, e non solo dalla disponibilità di infrastrutture fisiche, dipenderà il futuro di medio termine dell’economia italiana.
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Il costo del programma di Azione-Italia Viva
Azione-Italia Viva ha il merito di considerare i costi di molte delle misure previste in modo più preciso e verificabile di quanto facciano altri partiti, e di preoccuparsi delle possibili coperture. Non essendo specificati ulteriori particolari, si rimanda a una proposta di legge del deputato Ungaro di Italia Viva dove vengono esplicitate le soglie e le aliquote dell’imposta, a fronte di una copertura di 4 miliardi; [3] detassazione per i giovani . Tenendo conto dell’intenzione di ridurre l’evasione di 12 miliardi, il costo della voce Fisco dovrebbe essere di 13,8 miliardi di euro. Con l’obiettivo di aumentare l’indipendenza dagli approvvigionamenti di materie prime ed intermedie per la produzione di farmaci da paesi extra UE si vogliono inoltre investire 2 miliardi nel campo dell’innovazione e dei dispositivi medicali in aggiunta al miliardo già stanziato nella Legge di Bilancio 2022. Il valore previsto degli investimenti è di 10 miliardi di euro ma, dal momento che le riforme del PNRR prevedono “solo” 2,1 miliardi di euro nel settore dei rifiuti, è necessario aumentare gli investimenti. Si pone inoltre l’obiettivo di costruire 250 impianti di teleriscaldamento alimentati con legno cippato nei piccoli comuni montani, al costo di 125 milioni di euro l’uno; creazione di centrali di biogas per immettere il biometano nella rete di riscaldamento . L'attuazione di questa misura comporterebbe l'assunzione di nuovi docenti e personale ATA (per un costo annuo di 1,27 miliardi di euro), la creazione di nuove strutture (al costo annuo di 6,4 miliardi) e nuovi servizi come mensa e trasporti (per un costo annuo di 6 miliardi euro) all’interno delle scuole.
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NRRP: education funds
L’evento si è tenuto nell’ambito del sesto seminario INVALSI sul ruolo dei dati come strumento per la didattica e la ricerca. L’intervento dell’Osservatorio si è focalizzato sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), con particolare enfasi sulle risorse destinate dal piano al settore educativo e sui progetti che tali risorse andranno a finanziare. Tra questi rientra anche il piano asili nido, uno dei progetti più rilevanti in ambito educativo previsti dell’intero PNRR: l’intervento dell’Osservatorio ne ha pertanto tratteggiato le caratteristiche, l’importanza e le principali criticità. Qui a sinistra trovate le slide dell’intervento. Un articolo di Osservatorio sui Conti Pubblici Download Scarica il PDF.
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L’impatto dell’inflazione su spese ed entrate pubbliche nel 2022
In parte il miglioramento è dovuto al fatto che l’inflazione erode il valore reale di alcune voci di spesa che sono fisse in termini nominali o sono indicizzate con ritardo. Come incide l’inflazione sul bilancio pubblico e sulle principali poste di spese ed entrate che lo compongono? Per rispondere a questa domanda, si è presa in considerazione la previsione di inflazione del Documento di Economia e Finanza (Def): 5,8 per cento per i prezzi al consumo. Di conseguenza, nel quadro programmatico, rispetto al tendenziale, aumenteranno alcune voci di spesa corrente (o diminuiranno alcune voci di entrata, nel caso il Governo dovesse ad esempio procedere con nuovi tagli di IVA o accise). Inoltre, si prevede che i sussidi di disoccupazione diminuiscano dall’1,1 per cento del Pil nel 2021 (19,5 miliardi) allo 0,9 per cento nel 2022 (16,9 miliardi). Si osserva infine che le “Altre entrate correnti” e le “Entrate in conto capitale non tributarie” aumentano significativamente (rispettivamente di 8,5 e 7,8 miliardi) soprattutto per effetto dell’incremento dei contributi a fondo perduto erogati dall’Unione Europea per il finanziamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Infatti, tali contributi rientrano nelle previsioni di entrata per 1,8 miliardi nel 2021 (0,1 per cento del Pil) e 13,2 miliardi nel 2022 (0,7 per cento del Pil). La perequazione è del 100 per cento dell’inflazione per le pensioni sino a 4 volte il trattamento minimo (che è di 523,83 euro), del 90 per cento tra 4 e 5 volte il trattamento minimo, e del 70 per cento oltre 5 volte: https://www.inps.it/news/la-perequazione-delle-pensioni-e-gli-aumenti-per-il-2022.
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L’edilizia scolastica in Italia: un confronto regionale
Le scuole del Mezzogiorno (Sud e Isole) hanno una minore dotazione di mense e palestre rispetto a quelle del Centro e del Nord (mense: 19 per cento contro 38 per cento; palestre: 29 per cento contro 39 per cento). Un grande problema rimane l’età delle scuole, soprattutto al Nord dove poco più del 60 per cento è stato costruito prima del 1975; tuttavia, è nel Mezzogiorno dove solo circa il 30 per cento delle scuole possiede un certificato di agibilità. Il PNRR stanzia per l’edilizia scolastica circa 6,5 miliardi di cui 3,9 miliardi sono relativi a progetti di riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole esistenti mentre 2,6 miliardi sono per nuove scuole, palestre, mense e scuole dell’infanzia. Dotazione di infrastrutture scolastiche I dati sulle infrastrutture scolastiche ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco confortante visto che nell’anno scolastico 2020-2021 circa un edificio su tre disponeva di una mensa (31 per cento) e di una palestra (35 per cento, Fig. 1). La regione del Nord con scuole più difficilmente raggiungibili per trasporto pubblico urbano e inter-urbano è l’Emilia Romagna (rispettivamente 78 per cento e 51 per cento), seguita dalla Lombardia (rispettivamente 85 per cento e 54 per cento). Lombardia (45 per cento) e Veneto (30 per cento) solo le regioni con le scuole peggiori nell’area del Nord per questo servizio; sul versante opposto, le scuole della Liguria (66 per cento) e della Val d’Aosta (quasi l’80 per cento). La porzione maggiore di edifici costruiti prima del 1975 è nel Nord (Liguria: 74 per cento, Valle d’Aosta: 69 per cento e Piemonte: 65 per cento e Lombardia: 60 per cento, Fig. 5).
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All’origine della bocciatura dei 31 progetti della Sicilia
La sola regione a non aver ricevuto l’approvazione di neanche un progetto è stata la Sicilia, che ne ha presentati 31 per un valore di oltre 400 milioni di euro. La bocciatura sembra quindi dovuta alla debolezza dei progetti dalla Sicilia e alle carenze della sua pubblica amministrazione, che a loro volta potrebbero dipendere da politiche poco meritocratiche di selezione del personale seguite in passato. L’amministrazione siciliana ha infatti agito di frequente in deroga all’articolo 97 della Costituzione, che fissa come modalità ordinaria di accesso al pubblico impiego quella del concorso. I risultati del bando MIPAAF Il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (MIPAAF) ha di recente pubblicato i risultati di un bando per uno degli interventi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). La valutazione è stata criticata dall’amministrazione siciliana, che ha accusato il MIPAAF di aver adottato criteri sfavorevoli per le regioni del Sud, anche se a giugno il ministero aveva condiviso con loro i requisiti di valutazione. Da cosa dipende la bocciatura dei progetti della Sicilia? La bocciatura dei progetti della Sicilia non dipende dunque dai criteri di valutazione del MIPAAF, ma dalla bassa qualità delle proposte. Il primo è di inizio anni ‘80, quando viene stabilizzato nel ruolo di “dirigente tecnico” - posizione di grado elevato anche se non dirigenziale - chi negli anni precedenti aveva fruito di semplici borse di studio.
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Fisco, gli ostacoli di una riforma
Ah, dimenticavo: la pressione fiscale è un po’ troppo alta, come quasi tutti i partiti riconoscono, rispetto agli altri paesi europei, soprattutto in termini di cuneo fiscale sul lavoro. La riforma non fa parte del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (l’ormai mitico PNRR), il che comporta che non sarà coperta dal cronoprogramma del Piano, con relativa sorveglianza nella sua implementazione da parte delle istituzioni europee. Perché la riforma fiscale non sta nel PNRR? Il principale motivo è che i fondi europei disponibili per la realizzazione del PNRR hanno una natura temporanea. La Commissione ha fatto un ottimo lavoro, ma ha evidenziato quanto una riforma che possa, seppur in minima parte, riconciliare le diverse esigenze del centro-destra e del centro-sinistra abbia come valvola di sfogo una notevole perdita di gettito. Quanto grande? Il rapporto della Commissione non contiene stime precise, ma, in assenza di rilevanti aumenti compensativi di alcune tasse, si tratterebbe probabilmente di diverse decine di miliardi (c’è chi ha detto 40). Inoltre, c’è l’esigenza di ridurre la pressione fiscale, ma c’è anche di eliminare le disparità di trattamento, il che richiederebbe (a meno di voler portare i livelli di tassazione al minimo comun denominatore) un aumento di qualche tassa. Ultima difficoltà: una vera riforma del fisco richiede una visione comune di come si vuole plasmare la società in cui viviamo, soprattutto in termini di come deve essere distribuito il carico fiscale e di quali attività si vuole incentivare o scoraggiare.
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L'UE e il peso del debito
Visto che però c’è stata parecchia confusione in proposito, vorrei chiarire cosa è accaduto e quali sono le implicazioni per l’Italia. Attenzione: per uno dei tanti bizantinismi delle procedure europee in quest’area, il rinvio della riattivazione delle regole non comporta che una “procedura di deficit eccessivo” (quella che, per esempio, parte se un paese eccede il deficit del 3 per cento del Pil) non possa iniziare prima del 2024. La raccomandazione della Commissione, peraltro reiterata di recente anche dal Fondo Monetario Internazionale, resta una raccomandazione senza effetto pratico, dato che, come notato, la riforma fiscale non è sottoposta alla condizionalità del PNRR. Passo alla cosa che forse sembra più rilevante: il mantenimento per tutto il 2023 della clausola che sospende l’efficacia delle regole europee sui conti pubblici. Quello che ci ha vincolato in passato è stata la reazione dei nostri creditori (gli acquirenti dei nostri Titoli di Stato) al nostro elevato debito pubblico. I tassi di interesse hanno cominciato a crescere in tutto il mondo, compreso in Europa, e il tasso sui BTP, anche per effetto del ritorno dello spread ai massimi da due anni, è di recente salito al 3 per cento. La BCE, a causa dell’elevata inflazione, sta per terminare il programma di acquisto dei nostri BTP e l’ultimo intervento di Christine Lagarde ha fatto pensare che già da luglio potrebbe esserci un aumento dei tassi di interesse della nostra banca centrale, con effetti inevitabili sui tassi di mercato.
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I risultati del Superbonus 110%
Per usufruire del Superbonus veniva stabilito il requisito necessario di effettuare almeno un intervento “trainante” (isolamento termico o sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale); una volta rispettato questo requisito, la detrazione era però estendibile anche ad altri interventi di efficientamento energetico (cd. trainati). Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) viene prevista la proroga di 12 mesi per il Superbonus, che quindi dovrebbe essere esteso almeno fino a dicembre 2022 per l’edilizia privata e fino a luglio 2023 per gli alloggi sociali. Sebbene nei mesi successivi si sia registrato un marcato aumento del numero di richieste presentate ed approvate (a maggio 2021 erano arrivate a 14.450, per un ammontare complessivo di 1,82 miliardi di finanziamenti) la misura presentava un utilizzo molto al di sotto delle aspettative. I proprietari di case sembrano propensi all’utilizzo di questo bonus, tanto che il totale degli investimenti ammessi alla detrazione risulta già essere di 7,5 miliardi di euro (+311 per cento rispetto al dato di maggio) [9] . Il 68,2 per cento di questo ammontare (5,1 miliardi di euro) rappresenta la quota di importi dei lavori già completati: un dato percentuale costante anche rispetto alla rilevazione di maggio. Uno sguardo al mercato immobiliare In base ai dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) presso l’Agenzia delle Entrate, il numero delle compravendite di immobili residenziali risulta essere di 558 mila nel 2020, in calo del 7,7 per cento rispetto al dato dell’anno prima. Nonostante l’investimento medio sia più alto per lavori condominiali (558 mila euro contro i 102 e 94 mila euro rispettivamente per gli edifici unifamiliari e le unità immobiliari funzionalmente indipendenti), la percentuale di tali lavori è molto meno rilevante rispetto a quelli delle altre due categorie di edifici (il restante 14 per cento).
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Chi beneficia dei sussidi dannosi all’ambiente?
I tagli ai Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD) sono spesso visti come una perfetta fonte di copertura per nuove spese o riduzioni di tasse. Alle famiglie vanno 11,1 miliardi, in particolare: chi acquista abitazioni non di lusso, per prima o altre case, attraverso sconti sull’IVA (5,6 miliardi); chi consuma elettricità domestica nella prima casa (IVA al 10%: 3,1 miliardi); chi riceve come fringe benefit auto aziendali, che sono solo parzialmente tassate (1,2 miliardi). Infine ci sono sussidi di cui beneficiano gli utilizzatori di mezzi di trasporto: la voce più grossa è la minore accisa sul gasolio rispetto alla benzina (3,1 miliardi). L’aumento dei SAD nell’ultima edizione del Catalogo, dovuto alla crisi energetica, è principalmente imputabile a due sussidi: sconti sull’IVA per l’energia elettrica per uso domestico (aumentati di 1,3 miliardi) e rilascio delle quote ETS assegnate a titolo gratuito (+1,3 miliardi). Nonostante le difficoltà politiche, il governo dovrà ridurre i SAD, con il PNRR che prevede un taglio di almeno 2 miliardi entro dicembre 2025 e la definizione di un calendario per ridurre i sussidi di ulteriori 3,5 miliardi entro il 2030. Anche il Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine copre questo impegno, includendo il taglio di 3,5 miliardi nel raggiungimento di una riduzione complessiva di 7,3 miliardi delle spese fiscali, e prevede di riallineare la tassazione di gasolio e benzina. Il Catalogo distingue due tipi di sussidio: quelli diretti per mantenere i prezzi al consumo sotto i livelli di mercato o alzare i ricavi per i produttori; e quelli indiretti che attraverso esenzioni o sconti fiscali creano livelli diversi di tassazione per favorire scelte di consumo o produzione.
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La Nadef e la riforma delle regole fiscali europee
Attualmente, è in corso una discussione serrata in sede europea su una proposta di riforma presentata dalla Commissione ad aprile e che deve essere approvata entro la fine di quest’anno. Il problema è che per l’opposizione dei Paesi tradizionalmente più attenti al controllo dei conti è probabile che il compromesso finale veda l’imposizione di regole quantitative ulteriori e più penalizzanti sulla riduzione del debito. La presentazione da parte del governo della Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef) è avvenuta in contemporanea alla fase finale di contrattazione tra i Paesi sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita europeo (PSC), che rientrerà in vigore a partire dal primo gennaio 2024. Sulla base di questa proposta, i Paesi presentano un proprio Piano di aggiustamento che, a fronte di solide argomentazioni tecniche ed economiche e sulla base di un confronto bilaterale con la Commissione, può discostarsi dalla traiettoria tecnica originaria. Primo, ha eliminato la suddivisione nel percorso di aggiustamento che i diversi Paesi erano tenuti a fare sulla base di un giudizio iniziale sulla rischiosità del loro debito (sostanziale, moderata o nulla), sostituendola invece con gli usuali parametri di Maastricht. Un gruppo di Paesi più favorevoli al rigore nei conti (Germania in testa) che non considerano la proposta della Commissione sufficiente e chiedono invece l’imposizione di ulteriori vincoli quantitativi (regole semplici uguali per tutti) che garantiscano la riduzione del debito nei Paesi più problematici (tra cui sicuramente l’Italia). Per far sì che il rapporto decresca è necessario che il processo di aggiustamento continui fino al 2031, con una riduzione del disavanzo (strutturale) che oscilla tra lo 0,45 e lo 0,55 punti percentuali di Pil all’anno a seconda che si considerino o meno gli effetti sulla crescita del PNRR.
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Perché bisogna ratificare la riforma del Mes
Il Mes è il pompiere che si chiama quando la casa brucia; nessuno chiama i pompieri se non ce n’è assoluto e urgente bisogno. Stupisce invece che la premier non si renda conto di quanto la mancata ratifica dell’Italia irriti gli altri Paesi. Il punto non è tanto il contenuto della riforma, ma il fatto che in quasi tutti i Paesi i partiti di governo hanno dovuto spendere un notevole capitale politico per indurre i loro parlamenti alla ratifica. Quasi ovunque c’erano partiti euroscettici, tipicamente di estrema destra o estrema sinistra, che si opponevano alla ratifica. In Germania si opponevano anche il partito liberale e la CSU bavarese, è stato fondato un partito chiamato “Alleanza contro il Mes” ed è stato fatto un ricorso alla Corte Costituzionale. Con questo peso sulle spalle, è difficile che Giorgia Meloni riesca oggi a negoziare qualcosa di utile per l’Italia, che si tratti della revisione del PNRR, della redistribuzione dei migranti o delle regole sui bilanci pubblici. Ci ripensi e spieghi alla sua maggioranza quanto è serio il danno che la mancata ratifica produrrebbe al suo stesso governo, oltre che all’Italia.
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Perché in Italia le spending review non funzionano
Il tema della revisione e dell’efficientamento della spesa pubblica è centrale in Italia e la prima Commissione tecnica con queste finalità è stata introdotta fin dal lontano 1981, per essere poi seguita da numerosi altri tentativi, incluse le (modeste) misure previste dal PNRR. In particolare, l’obiettivo della spending review è quello di utilizzare l’approccio noto in campo aziendale come “bilancio a base zero”, superando quindi l’approccio incrementale, che si concentra principalmente sulle nuove iniziative di spesa invece che sulle analisi di efficienza e efficacia della spesa già esistente. Si tratta, in sintesi, di “riqualificare” la spesa pubblica già esistente, spendendo meglio le risorse con processi interni alle amministrazioni, riconoscendo che è una decisione politica quella sull’ammontare complessivo di spesa pubblica da erogare in un determinato anno. Dopo qualche anno dalla soppressione della CTSP, nel 2007, venne istituita la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (CTFP), sempre incardinata presso il MEF e formata da esperti esterni, che stese il primo rapporto sulla revisione della spesa di cinque ministeri individuando criticità e opzioni di riallocazione delle risorse. Uno dei principali problemi emersi è che entrambi i Ministeri hanno adottato un approccio di riduzione alla spesa tramite tagli, facendo leva su riduzioni di spese di finanziamento delle strutture amministrative e su riduzioni di stanziamenti per interventi specifici. Il Ministero della Salute, invece, ha agito de-finanziando integralmente una serie di interventi tramite l’azzeramento di alcuni capitoli di spesa per un solo anno, come nel caso delle risorse per il monitoraggio delle cure palliative e dei fondi regionali per le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Alle attività di revisione della spesa in questo periodo ha collaborato anche il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, che ha prodotto un documento di analisi di alcuni settori di spesa pubblica .
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I dilemmi del Servizio Sanitario Nazionale presente e futuro
Se ne è parlato molto nel 2020, durante le fasi iniziali e più drammatiche della pandemia che hanno posto in luce la necessità di costruire una “sanità del territorio”, ancora largamente assente in molti contesti regionali. Poi, paradossalmente, nonostante il varo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le riforme del SSN sono sparite dalla discussione pubblica per restare confinate in seminari di addetti ai lavori. Paradossalmente, proprio perché la Missione 6 del PNRR in realtà ridisegna il SSN del futuro, per esempio introducendo Case e Ospedali della Comunità proprio allo scopo di costruire la sanità territoriale , quindi il tema dovrebbe ritornare all’attenzione del dibattito. Tuttavia, prima di rivolgere lo sguardo al futuro, per capire i problemi di oggi e per identificare le scelte che dovremmo fare, è opportuno ricostruire le ragioni di alcune scelte che sono state fatte in passato e di altre che sono sempre state rimandate. Indagine realizzata presso un campione di 3000 casi di cittadini italiani tra i 18 e i 64 anni. Il campione è rappresentativo della popolazione di riferimento per genere, età, area geografica, titolo di studio e condizione occupazionale. Un articolo di Massimo Bordignon, Gilberto Turati Download SCARICA IL PDF.
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Esiste ancora la spending review?
L'ultima volta che questo termine ha fatto capolino nel discorso pubblico è stato nel Def dell’aprile 2022 del governo Draghi, in cui si sono posti obiettivi davvero minimali di revisione della spesa in attuazione del PNRR: poco più di un miliardo all'anno in ciascuno dei tre anni 2023-2025. Quello che un po’ stupisce è che la spending review sia scomparsa completamente nel linguaggio del governo Meloni che si basa su una maggioranza abbastanza coesa. A scanso di equivoci, questo non significa che nella legge di bilancio 2023 non ci siano tagli di spesa. Per esempio, l'eliminazione del reddito di cittadinanza è valutata 8,7 miliardi a regime e vedremo con che cosa verrà sostituito. La riduzione dell’indicizzazione delle pensioni medie e medio-alte vale quasi 7 miliardi a regime: dato il livello cui è giunta l’inflazione, questa è una delle più grandi manovre redistributive che si ricordino. L’esperienza internazionale mostra che per ottenere dei risultati occorre che vengano definiti e resi pubblici gli obiettivi e che sia reso chiaro agli elettori come verranno utilizzati i risparmi. Al più si riusciranno a fare dei tagli lineari (come tutti quelli dovuti a finanziamenti inferiori all’inflazione), il cui difetto è che non incidono sui meccanismi di spesa e, dunque, ben che vada, hanno effetti transitori: funzionano per un anno o due e poi siamo daccapo.
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NADEF, scommessa sulla crescita e aggiustamento rinviato alla prossima legislatura
Questo può essere visto come un limite perché vi è il rischio che il debito non scenda come previsto, ma può anche essere visto come un aspetto positivo perché è una scommessa a tutto campo sulla crescita. Questa data è stata scelta perché solo nel 2023 il Pil supererà il livello che era stato previsto nel 2019, prima della crisi pandemica, per gli anni successivi. Invece si è scelto di scommettere sull’impulso iniziale alla crescita dato da una manovra espansiva, oltre che dalle cruciali riforme previste nel Pnrr. Si tratta di un aggiustamento di quasi 4 punti di Pil, ossia di un percorso simile a quello che l’Italia fece nella seconda metà degli Anni Novanta per entrare nella moneta unica. E nell’ipotesi che i tassi d’interesse rimangano al livello attuale e che dunque il tasso medio implicito sul debito pubblico scenda ancora, da 2,4% nel 2021 all’ 1,7% nel 2024. E mostra come sia sufficiente l’aumento di solo un punto del tasso sui Btp, oppure una riduzione della crescita dal 4,6% al 3,6% in un solo anno (il 2022) per provocare un aumento, anziché una riduzione, del debito pubblico già nel 2023 e negli anni successivi. La scommessa è che l’impulso iniziale alla crescita e le riforme del Pnrr possano rendere più agevole il successivo percorso di rientro dal debito.
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Fiumi di parole
Il Programma di Stabilità del 2021 contiene più del doppio delle parole rispetto alla media degli altri paesi europei, nonostante – in base alle norme europee – il contenuto richiesto sia lo stesso. Eppure, fino al 2005 il DEF italiano era più corto di quello tedesco e nel 2010 aveva metà delle parole rispetto ad oggi. La nota è stata ripresa in questo articolo di Repubblica del 14 maggio 2021 * * * Negli ultimi mesi sono circolati numerosi documenti di politica economica, dalla Legge di Bilancio di fine 2020 al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), passando per il Documento di Economia e Finanza (DEF). Si potrebbe pensare che la complessità delle materie trattate (la programmazione economica di diverse centinaia di miliardi di euro) renda una maggiore lunghezza inevitabile. Per quanto si possano considerare l’economia e le finanze pubbliche italiane più complesse e “problematiche” di quelle degli altri paesi europei, è inverosimile che questi elementi siano in grado di spiegare da soli il fatto che il Programma di Stabilità italiano sia due volte più lungo di quello francese. Il fatto che tutti i paesi europei riescano a comunicare le stesse informazioni con documenti molto più corti suggerisce che sia possibile scrivere un Programma di Stabilità più conciso e accessibile. Anche i paesi UE che non appartengono all’Area Euro inviano alla Commissione un documento analogo al Programma di Stabilità nei contenuti, denominato “Programma di Convergenza”.
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Rating fermo, futuro incerto
Con il giudizio sull’Italia dato da Moody’s venerdì scorso si è concluso il “mese del rating” ossia dei giudizi che periodicamente le società private che svolgono questa attività danno alla qualità dei titoli emessi dai vari paesi. La prima è il “rating” vero e proprio, un voto che è tanto più basso quanto più è probabile che un titolo non sia ripagato alla scadenza. Sto esagerando, ma non c’è dubbio che il centrodestra abbia spesso temuto, per lo meno a partire dalla crisi del 2011 che portò alla caduta del governo Berlusconi, che la volontà degli italiani potesse essere piegata dalla finanza internazionale, pronta a muoversi al segnale dalle agenzie di rating. Scampato il pericolo, che, come dico, era più immaginario che reale, non è che possiamo essere troppo contenti. Ma Moody’s era l’agenzia che ci dava, e ancora ci dà, il rating più basso, solo un gradino sopra a quello dei titoli “spazzatura”, più tecnicamente quelli che non hanno il livello ( investment grade ) che, per molti investitori internazionali, è il minimo per includerli nei loro acquisti. Il nostro Paese, dice Moody’s, resta vincolato da problemi strutturali che ne limitano le prospettive di crescita e dai rischi che, nonostante i progressi fatti, rendono la piena implementazione del PNRR ancora molto incerta. Moody’s prevede che questo rimanga nei prossimi anni intorno al 140 per cento del Pil, ma in un contesto in cui il costo di questo debito salirà nel tempo, vista che l’era dei tassi di interesse a zero sembra finita per sempre.
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Ambulanti e balneari, perché Mattarella ha ragione
C’è voluto ancora una volta l’intervento del presidente Mattarella per mettere in luce la relazione conflittuale e contradditoria che questo governo e questa maggioranza hanno rispetto alla concorrenza e all’operare delle forze del mercato. Dove sta la relazione conflittuale e contradditoria? Da un lato, il governo approva puntualmente la legge annuale sulla concorrenza, provvedimento previsto dalla legge del 23 luglio 2009, n. 99: per diversi anni, i governi che si sono succeduti nello scorso decennio alla guida del Paese hanno ignorato questo obbligo. Ma dall’altro lato, si usa quella stessa legge, come riportato in dettaglio in altri articoli di questo giornale, per prolungare le concessioni per l’uso del suolo pubblico, in alcuni casi per altri dodici anni, al di fuori di ogni logica di concorrenza tra potenziali concessionari. La contraddizione è però in questo caso spiegata dalla necessità di rispettare vincoli posti dall’Unione europea: la legge sulla concorrenza era una delle principali condizioni per avere accesso alla quinta rata del PNRR. Non è la prima volta che il governo si arrende di fronte ai vincoli europei: lo stesso discorso vale, per esempio, per la decisione di non rinviare ulteriormente l’uscita dal mercato “di maggior tutela” per le forniture di gas ed elettricità, un’altra condizione inclusa nel PNRR. Ma questo significherebbe andare contro i propri interessi politici visto che una parte consistente dei voti di questa maggioranza viene da settori che mal digeriscono la concorrenza (come i detentori di concessioni balneari e di suolo pubblico). Che valore avrebbe una tale sollecitazione di fronte alla posizione di un Presidente del Consiglio eletto dal popolo? È una domanda che dovremo porci necessariamente più volte nel corso del 2024.
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Quattro punti per una ripresa
Come ha sottolineato lo stesso Draghi, la forte crescita che stiamo sperimentando è un normale rimbalzo dopo la crisi dello scorso anno, ma il rimbalzo è forte: secondo le mie stime, nel primo trimestre del prossimo anno dovremmo aver raggiunto il livello del Pil che avevamo prima del Covid. L’inflazione è aumentata a partire da gennaio, al di qua e al di là dell’Atlantico, ma, per ora, è l’opinione prevalente che si tratti di un naturale rimbalzo dei prezzi: la domanda torna a livelli normali, dopo la depressione da Covid, i prezzi tornano a livelli normali. Dati preliminari sui prezzi di agosto indicano, fortunatamente, una frenata nel Paese che forse è più sensibile al rischio di inflazione: in Germania ad agosto il tasso mensile di inflazione è stato zero (dopo un aumento di quasi un punto percentuale in luglio). Terza pillola: l’opinione prevalente è che il Pnrr rappresenti il primo piano organico di crescita che il nostro Paese ha da tanti anni. Nel complesso sta operando bene ed è necessario che continui a operare per fare in modo che le importanti riforme previste dal Pnrr siano non solo portate avanti, ma mettano radici. O, meglio, si è parlato di debito solo con riferimento alla necessità di cambiare le regole europee sui conti pubblici, ossia il Patto di Stabilità sospeso nel triennio 2020-22. O quasi unanime, visto che qualcuno (ad esempio Veronica De Romanis) ha ricordato che il vincolo vero è rappresentato non dalle regole europee ma dai mercati finanziari che comprano i nostri titoli di stato.
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Il costo del programma del Movimento 5 Stelle
Il costo annuo da noi stimato delle principali misure è di circa 65 miliardi di euro. Il costo previsto di tale manovra dovrebbe essere di circa 8 miliardi. Il costo stimato è poco più di 12 miliardi di euro annui. Perché la misura abbia effetti di rilievo sia sui lavoratori che sulle imprese è difficile che costi meno di 20 miliardi. Il costo stimato di questa misura è di 630 milioni all’anno, ipotizzando 30 giorni di congedo paterno. Il costo per colmare il gap con il resto d’Europa nel settore idrico sarebbe di 8 miliardi di euro al netto dei fondi stanziati dal PNRR (4,3 miliardi). Per maggiori dettagli sul calcolo, si veda la nostra nota della scorsa settimana: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-la-lista-della-spesa-del-pd [4] Il risultato è ottenuto da uno studio Enea : al 31 agosto 2022 vi erano 47 miliardi di detrazioni previste a fine lavori e 33 miliardi di detrazioni maturate per lavori conclusi.