La Stampa

Una misura giusta ma con tre rischi

08 giugno 2022

Una misura giusta ma con tre rischi

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Ieri è stato raggiunto un accordo a livello europeo sul salario minimo. Il tema è anche molto dibattuto in Italia, uno dei pochi paesi europei che non ha un salario minimo. Il tema è molto controverso e, sia tra chi lo sostiene sia tra chi lo avversa, spesso emergono sorprendenti alleanze. Per esempio, si sono tradizionalmente opposti al salario minimo tanto Confindustria quanto i principali sindacati, seppure con diverse sfumature. Cerchiamo quindi di chiarire alcuni punti di una questione comunque complessa.

Cos’è stato deciso a livello europeo? Non molto a dire il vero. È stato raggiunto un accordo preliminare tra i due co-legislatori europei, ossia il Parlamento Europeo e il Consiglio dei Ministri Europeo (quest’ultimo è l’organo che comprende i ministri dei paesi dell’Unione, organo che si riunisce in dieci diverse formazioni a seconda dell’argomento) su una bozza di direttiva sul “salario minimo europeo”. Ho messo le virgolette perché la direttiva, quand’anche fosse approvata, non comporterebbe un unico salario minimo europeo, cosa ovviamente insensata viste le enormi diversità nei livelli di produttività e di salari tra i 27 membri dell’Unione. Inoltre, la direttiva non imporrebbe neppure l’introduzione di un salario minimo nei paesi che non ce l’hanno. Quello che la direttiva farebbe sarebbe di definire, e solo per i paesi che già hanno un salario minimo, alcuni criteri per la sua determinazione. Per esempio. Il salario minimo dovrà essere fissato sulla base di criteri chiari e definiti con il coinvolgimento delle parti sociali e dovrà essere aggiornato almeno ogni due anni (quattro per i paesi con salari indicizzati). Quindi, niente di stravolgente, ma è comunque un segnale importante che l’Unione, nel suo complesso, ritenga che il salario minimo sia una cosa positiva. Questo renderà più difficile per i paesi senza un salario minimo giustificarne l’assenza.

Ma il salario minimo è davvero una buona cosa? Il Governatore della Banca d’Italia Visco ha di recente detto di sì “se è ben studiato”. Ma, al di là dei problemi di pratica applicazione (vedi sotto), perché in un’economia di mercato lo stato dovrebbe imporre un prezzo minimo sulla vendita di un certo bene? La risposta ovvia è che questo bene (il lavoro) ha una natura del tutto particolare, come tutto quello che riguarda direttamente la persona umana e la sua dignità. Per cui particolare attenzione deve essere prestata al fatto che l’assenza di un’adeguata concorrenza tra datori di lavoro, ossia la sostanziale situazione di monopolio in cui, a livello locale o in certi settori, il mercato del lavoro si possa trovare non portino a livelli salariali non solo inaccettabili socialmente, ma anche troppo bassi rispetto alla produttività del lavoro stesso, generando in tal modo profitti non giustificati perché derivanti da un abuso di potere di mercato. In queste situazioni si potrebbe agire rendendo il mercato più concorrenziale. Ma può essere comunque impossibile evitare che, in certe nicchie più o meno grandi, si verifichino forme di eccesso del potere contrattuale dei datori di lavoro.

Ma in pratica che problemi sorgono con l’introduzione di un salario minimo? Quello più ovvio è che, ogni qual volta lo stato interviene per evitare un “fallimento di mercato”, non faccia anche peggio. Insomma, se il mercato può fare errori, non si può dare per scontato che lo stato non ne faccia di più grandi! Nel caso specifico, se il salario minimo viene fissato a livelli troppo alti, si corre il rischio di far sparire posti di lavoro a bassa produttività. Se viene fissato a livelli troppo bassi diventa irrilevante. Una possibile soluzione è quella di rendere il più trasparente possibile la determinazione del salario minimo: insomma, servirebbe un comitato tecnico-scientifico che dia un parere oggettivo. In campo economico, molto più politico di quello medico, la cosa è più facile a dirsi che a farsi, ma si può provare. Ci sono almeno altre due difficoltà. La prima è quella segnalata da Tito Boeri e Roberto Perotti in un articolo apparso su Repubblica il 12 ottobre scorso: in un paese dove i livelli di produttività sono così diversi da regione a regione, o per lo meno tra macroregioni, un salario minimo nazionale dovrebbe essere calibrato sui livelli di produttività e di salario del Sud, per evitare di rendere ancora più ardua la crescita dell’occupazione in quelle aree. Le regioni con produttività più elevata potrebbero poi introdurre un loro salario minimo più elevato. Questo può essere politicamente piuttosto difficile (sento già le accuse di un ritorno alle famigerate “gabbie salariali”). La seconda difficoltà è quella di evitare che, in pratica, salari inferiori al minimo continuino a prevalere in nero. In un paese dove l’evasione fiscale, l’abusivismo edilizio e il mancato rispetto delle norme sul lavoro sono ancora diffuse (per usare un eufemismo), il rischio è piuttosto serio.

Quindi, ben venga il salario minimo (ce l’hanno pure gli Stati Uniti)… se ben studiato, come dice Visco.

Un articolo di

Carlo Cottarelli

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