In diverse occasioni negli ultimi mesi, su queste colonne, ho commentato, con una certa preoccupazione, l’aumento dell’inflazione nel nostro paese e nel resto del mondo. I recenti dati sull’inflazione in novembre, in Italia e in Europa, insieme all’affermazione del presidente della FED Powell sul fatto che l’accelerazione dei prezzi negli Stati Uniti non può più considerarsi transitoria, confermano che il rischio di un duraturo ritorno dell’inflazione non è trascurabile.
Certo, il margine di incertezza resta elevato. Se il diffondersi della variante Omicron portasse a nuove ampie chiusure e a una caduta della domanda (come accadde nella prima fase della pandemia), l’inflazione rallenterebbe spontaneamente: abbiamo visto già in questi giorni un calo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Certo non è questo uno scenario in cui dobbiamo sperare! Ma anche senza un nuovo shock da Covid, è comunque ancora possibile che l’inflazione scenda spontaneamente, esauritasi la fase di rimbalzo post-lockdown di domanda e prezzi.
Nonostante questa incertezza vale la pena di soffermarsi su una domanda: cosa sarebbe necessario fare se l’inflazione non accennasse a diminuire nei prossimi mesi? La domanda sembrerebbe retorica se non fosse per il fatto che, tra anti-vax e bufale varie circolate negli ultimi anni, non si può più dare per scontato nulla.
Chiariamo allora una cosa. Per livelli di inflazione come quelli attuali (e prima che le aspettative inflazionistiche si innalzino stabilmente, vedi sotto), l’aumento dei prezzi riflette solitamente un eccesso di domanda sull’offerta. Se il potere d’acquisto di famiglie e imprese, magari per effetto di politiche monetarie e di bilancio molto espansive, mette troppa pressione sull’offerta di beni e servizi, i prezzi salgono. Questo avviene anche a livello internazionale: i prezzi delle materie prime aumentano se la domanda eccede l’offerta. Si può discutere se l’eccesso di domanda sull’offerta abbia natura temporanea, per esempio perché la domanda è gonfiata temporaneamente dal trasferimento di spesa dall’anno scorso (quando, con i lockdown, i risparmi sono aumentati) o permanente (per esempio, perché i tassi di interesse sono troppo bassi). Ed è questo di cui si sta discutendo quando ci si chiede se l’inflazione sia temporanea o meno. Ma resta il fatto che la prima causa dell’aumento dei prezzi resta uno squilibrio tra domanda e offerta.
Ne consegue che, se (e sottolineo se) le pressioni inflazionistiche perdurassero, diventerebbe necessario prendere misure per stringere le politiche monetarie e di bilancio al fine di eliminare l’eccesso di domanda sull’offerta. Occorrerebbe invece resistere politiche che vanno in senso opposto. Per esempio, potrebbe venire in mente a qualcuno di dire che ha ragione il primo ministro turco Erdogan che ha di recente affermato durante un’intervista che, per ridurre l’inflazione, occorre tagliare i tassi d’interesse perché questo stimolerà la produzione (naturalmente, durante l’intervista di Erdogan, la lira turca ha perso l’8 per cento sul dollaro). Oppure qualcuno potrebbe sostenere che, per compensare la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione, lo stato debba aumentare i sussidi al consumo, o tagliare l’IVA e le accise. Naturalmente, nulla impedisce, e anzi sarebbe doveroso, proteggere i più deboli sia dall’inflazione sia dagli effetti di un’eventuale stretta delle politiche macroeconomiche. Ma, a livello aggregato, non c’è dubbio che pressioni inflazionistiche persistenti dovrebbero essere affrontate stringendo le politiche macroeconomiche, ossia eliminando le operazioni di quantitative easing, aumentando i tassi di interesse e riducendo, più rapidamente di quanto previsto attualmente, i deficit pubblici.
Decidere quando sia il momento di fare questo richiede bilanciare due opposti rischi. Il primo è quello di togliere prematuramente sostegno all’economia in uscita dalla crisi (molti hanno sostenuto che la crisi dell’area dell’euro nel 2011 fu causata da un prematuro restringimento delle politiche macroeconomiche, anche se ho qualche dubbio in proposito; altri errori furono più importanti). Il secondo è quello di mantenere l’inflazione a livelli tali da portare a una revisione delle aspettative di inflazione, cadendo in un circolo vizioso per cui l’inflazione si prolungherebbe nel tempo anche in assenza di un eccesso della domanda sull’offerta. Uscire da un tale circolo vizioso richiederebbe poi una recessione: muoversi troppo tardi avrebbe pure conseguenze negative per il nostro reddito.
Sta alle banche centrali districarsi tra Scidda e Cariddi. Non è facile. Powell sembra arrivato alla conclusione che il momento sia venuto per rivedere, seppur gradualmente, la politica monetaria americana. La BCE pensa sia ancora prematuro farlo in Europa. E’ possibile che entrambi abbiano ragione vista la diversa situazione dell’inflazione sulle due sponde dell’Atlantico. Ma l’andamento dei prezzi nei prossimi 2 o 3 mesi sarà fondamentale per la futura evoluzione della politica monetaria sulla nostra sponda.