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  • Come raggiungere un accordo nell’Eurogruppo

    Ciononostante, anche per ridurre il peso che grava sulla BCE, è utile integrare questa fonte di finanziamento con una risposta congiunta e solidale da parte dei governi dell’area dell’euro. Secondo, la risposta non deve portare né alla mutualizzazione del debito pubblico esistente, né alla mutualizzazione di nuovo debito derivante da politiche specifiche decise dai singoli paesi. Terzo, e conseguentemente, le risorse raccolte emettendo strumenti di raccolta finanziaria come parte di una risposta comune dovrebbero essere spese attraverso politiche concordate in comune: si raccolgono risorse insieme, si decide insieme come spenderle. Essa è vantaggiosa per tutti i paesi dell’Eurozona, per tre motivi: Anche se alcuni paesi potrebbero fronteggiare l’emergenza attuale attraverso le loro politiche di bilancio, altri potrebbero trovare più difficile finanziarsi sul mercato, soprattutto se il contesto internazionale peggiorasse in modo marcato. Una risposta comune quale quella sopra descritta dimostrerebbe una comunanza di intenti tra paesi europei di fronte a uno shock comune, non dovuto ai comportamenti di nessun singolo paese, nessuno dei quali stava violando le regole fiscali europee prima dello shock. Da un lato si deve capire che la crisi che sta colpendo in modo più duro il sud del continente non ha nulla a che fare con l’eccessiva accumulazione di debito. Dall’altro si deve capire che una risposta comune non può diventare un modo per introdurre surrettiziamente la mutualizzazione del debito, che deve rimanere responsabilità dei singoli stati.

  • Le province in Sardegna: evoluzione e confronto con le altre regioni

    La decisione del Consiglio riprende il trend di aumento degli enti intermedi, ossia le province e le città metropolitane, che ha caratterizzato la storia italiana, contribuendo ad appesantire il sistema burocratico. L’evoluzione delle province in Sardegna L’assetto delle amministrazioni locali della Sardegna ha conosciuto numerose modifiche nel corso della sua storia. Il numero è raddoppiato con una norma regionale del 2001, divenuta operativa nel 2005, che ha istituito le province di Medio Campidano, Sulcis Iglesiente, Ogliastra e Gallura. Nonostante l’esito del referendum e il riassetto amministrativo, il 31 marzo 2021 il Consiglio regionale ha approvato il Testo Unico degli Enti locali, con il quale sono ripristinate le province di Sulcis Iglesiente, Medio Campidano, Ogliastra e Gallura (che viene rinominata Nord-Est), mentre la provincia di Sassari diventa città metropolitana. Dal dopoguerra, dopo la reintegrazione della provincia di Trieste nel 1954, venne istituita la provincia di Pordenone nel 1968, cui seguirono Isernia nel 1970 e Oristano nel 1974. Successivamente, la Sardegna ha ridotto il numero degli enti di tre unità nel 2016, mentre il Friuli Venezia-Giulia ha soppresso le quattro province di Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine tra il 2017 e il 2018 e ha creato diciotto Unioni Territoriali Intercomunali. Per quanto concerne gli effetti sulla spesa pubblica, a causa delle risorse assorbite dall’esercizio delle funzioni attribuite agli enti intermedi, i costi legati all’aumento delle province sarde sono potenzialmente superiori ai circa 2,5 milioni stabiliti dalla Regione per la sola attuazione della norma.

  • PNRR e Mezzogiorno: quante risorse e quali misure per il rilancio del Sud

    Il nodo cruciale risiede nell’effettiva e celere attuazione degli investimenti da parte delle regioni del Mezzogiorno: in questo senso le riforme strutturali, in particolare quella della Pubblica Amministrazione, possono sostenere la realizzazione degli interventi previsti, con ripercussioni positive sulla produttività e sullo sviluppo del Meridione. Quante risorse per il Sud nel PNRR? Il PNRR dovrebbe consentire di invertire il trend che, tra il 2008 e il 2018, ha visto scendere la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno da 21 miliardi a poco piu di 10. Il Piano di rilancio presentato alla Commissione Europea prevede per il Sud circa 82 miliardi, cioè il 40 per cento delle risorse territorializzabili (che sono pari a 206 miliardi). Oltre ai finanziamenti del PNRR, al Sud saranno destinati anche 8,4 miliardi provenienti dal React‑EU, 54 miliardi dei Fondi strutturali e di investimento europei (relativi al periodo 2021-27), 58 miliardi del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (sino al 2030) e circa un miliardo del Just Transition Fund. Secondo altri critici i finanziamenti del PNRR non ammonterebbero effettivamente a 82 miliardi, in quanto 15 miliardi del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) sono stati trasferiti nel PNRR per anticipare il finanziamento di alcuni progetti. Quali misure per il Sud nel PNRR? Per il PNRR la riduzione del divario territoriale è un obiettivo trasversale, da raggiungere con gli investimenti delle varie missioni (tav. 1) e con le riforme strutturali. Infatti, il Sud registra livelli di efficienza delle PA peggiori rispetto al Centro-Nord, come registrato da diversi indicatori (ad esempio, tutte le regioni meridionali si collocano in fondo alla classifica dell’European Quality of Government Index, un indice delle qualità delle istituzioni pubbliche).

  • L’Osservatorio

    Statuto dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani Download Conferenza Stampa del lancio dell’Osservatorio, 3 novembre 2017 Download L’Osservatorio L’Osservatorio Organi dell’Osservatorio Finanziatori Economisti Senior Team OCPI OCPI Hall of Fame.

  • L’impatto sul finanziamento del deficit pubblico italiano del Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) della Banca Centrale Europea

    Il totale delle emissioni per il resto di quest’anno potrebbe essere quindi di circa 345 miliardi. Parte di questi (diciamo 20 miliardi) potrebbero essere usati per ridurre le emissioni di nuovi titoli. Il programma di acquisti di titoli da parte della BCE da qui alla fine dell’anno era già di circa 300 miliardi prima della decisione annunciata la sera del 18 marzo di lanciare il Pandemic Emergency Purchase Program (PEPP) di 750 miliardi. Assumendo che questi rappresentino il 15 per cento del totale dei titoli in scadenza, si tratta di altri 35 miliardi circa, per un totale di 215 miliardi. Ipotizzando misure di pari ammontare, il deficit salirebbe al 5,4 per cento del Pil. Il miglior andamento delle entrate nel 2019 (per uno 0,5 per cento del Pil) potrebbe però avere un effetto anche nel 2020. Il deficit per il 2020 potrebbe quindi attestarsi al 4,9 per cento del Pil. [3] Il comunicato stampa della BCE indica che il benchmark per l’allocazione degli acquisti di titoli resterà la capital key (la quota italiana nel capitale della BCE). Occorrerebbe anche tener conto del vincolo per cui la BCE non può detenere più di un terzo delle emissioni di una singola serie di titoli di stato.

  • Il MES: cos’è e come potrebbe essere utilizzato nell’attuale emergenza

    Oltre agli aiuti agli Stati in crisi, il MES prevede i prestiti precauzionali, ossia interventi a favore di quei Paesi che, nonostante siano in condizioni macroeconomiche solide, potrebbero aver bisogno di aiuto. Funzionamento del MES Il MES offre sostegno agli Stati Membri attraverso prestiti o con l’attivazione di linee di credito che sono garantite dal capitale sottoscritto dai paesi membri. Il capitale sottoscritto (704 miliardi di euro) differisce dal capitale effettivamente versato (80,5 miliardi di euro) in quanto il primo definisce l’ammontare massimo che potrebbe essere richiesto agli Stati Membri in caso di insolvenza di uno Stato debitore. La PCCL richiede una condizionalità molto attenuata; anch’essa richiede la sottoscrizione di un MoU (mentre nella proposta di riforma che era stata approvata in linea di principio dal Consiglio UE del giugno 2019 richiederebbe la semplice sottoscrizione di una lettera di intenti). L’accesso alla PCCL è riservato a quei paesi che hanno rispettato alcune condizioni quantitative nei due anni precedenti alla richiesta di assistenza al MES, le quali sono piuttosto stringenti e in linea con quelle del Patto di Stabilità e Crescita. Queste limitazioni potrebbero essere attenuate nel caso in cui tali proventi venissero destinati per intraprendere politiche di bilancio a livello comunitario, di cui tutti i paesi membri potrebbero beneficiare, come un sussidio di disoccupazione o un programma di investimenti europeo. Va anche considerato che i paesi con basso debito non hanno problemi ad affrontare l’emergenza con mezzi propri e non è chiaro se siano in grado di far accettare ai loro elettorati proposte di mutualizzazione anche parziale del debito, che andrebbero principalmente a beneficio dei paesi con alto debito.

  • Lavora con noi

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    Pubblicazioni Editoriali Risorse Osservatorio SERVIZI Banche Dati Serie storiche Documentazione

  • Le prospettive di medio periodo per i conti pubblici

    L’alto debito pubblico accumulato nel 2020-21 dovrebbe iniziare a scendere nel 2022 in modo tale da tornare gradualmente verso i livelli pre-Covid solo nel 2032. Questo scenario si basa su numerose ipotesi, alcune delle quali svolgono un ruolo cruciale: completo ed efficiente utilizzo del Recovery Fund – che dovrebbe tradursi in una crescita piuttosto sostenuta – e tassi di interesse eccezionalmente bassi per oltre dieci anni. A seguito dei nuovi interventi (i due decreti Sostegni), il debito pubblico raggiungerebbe il 159,8 per cento del Pil nel 2021, per poi iniziare a ridursi a partire dal 2022. Gli scenari Negli anni seguenti, a partire dal 2022, dovrebbe iniziare una riduzione del debito abbastanza lenta: in base allo scenario programmatico, si potrebbe tornare al livello pre-Covid tra dieci anni circa (2032). Oltre al pieno ed efficiente utilizzo del Recovery Fund, le altre ipotesi su cui si basa il quadro programmatico del governo sono le seguenti: una crescita del Pil reale superiore al 4 per cento fino al 2022, che declina fino all’1,1 per cento nel 2032. Il costo medio del debito si ridurrebbe dal 2,4 per cento del 2020 all’1,7 per cento nel 2024; il saldo primario, ossia al netto degli interessi, rimarrebbe negativo per quasi tutto il periodo. Gli scenari alternativi Nei due scenari più pessimistici analizzati nel DEF, la minor crescita del Pil reale si traduce in avanzi primari peggiori, in uno spread più alto e in un rapporto debito Pil nettamente maggiore.

  • Ancora non sappiamo a che prezzi comprano effettivamente le Pubbliche Amministrazioni

    Infatti, proprio gli acquisti che avvengono al di fuori del raggio d’azione delle centrali di acquisto (come Consip) non sono registrati adeguatamente, in quanto è impossibile conoscere i prezzi unitari di acquisto. Negli ultimi vent’anni gli acquisti delle Pubbliche Amministrazioni italiane, sia centrali che locali, sono stati oggetto di un programma di razionalizzazione tramite accentramento. Con la riforma del 2014 si sono potenziati gli enti incaricati di intermediare gli acquisti delle pubblica amministrazione (PA), tra cui Consip e una trentina di altri “Soggetti Aggregatori” per lo più operanti a livello regionale. In ogni caso, questi documenti, seppur informativi, non erano esaustivi, dato che la Relazione riguardava quasi esclusivamente l’operato di Consip, [1] mentre la Rilevazione era un’indagine a campione che confrontava i prezzi solo di alcune merceologie in base alla modalità di acquisto. Occorre ricordare in proposito che la riforma del 2014 prevedeva anche la creazione di una banca dati di degli acquisti della PA e l’elaborazione dei cosiddetti “prezzi di riferimento”, ovvero di prezzi unitari indicativi per le forniture “a maggiore impatto in termini di costo” non intermediate dai Soggetti Aggregatori. Uno dei motivi per cui è difficile coprire un numero maggiore di prodotti è che la banca dati registra sì gli acquisti effettuati dalle varie PA, ma non contiene informazioni circa le quantità acquistate, rendendo quindi impossibile ricavare delle indicazioni di massima sui prezzi unitari. In possesso di questi dati, infatti, sarebbe possibile individuare più rapidamente gli ambiti di spesa e le forniture più “sospette” agendo di conseguenza, ad esempio con dei controlli, oppure ampliando il raggio d’azione delle centrali d’acquisto.

  • La qualità delle istituzioni pubbliche nelle province italiane

    Le province del Nord-Est risultano avere la migliore qualità delle istituzioni, seguite dall’area del Nord-Ovest e del Centro, mentre le ultime posizioni sono occupate interamente dal Mezzogiorno. Dal 2004 al 2009 i divari territoriali sono rimasti sostanzialmente invariati, ma alcune province sono migliorate, come Avellino e Pesaro-Urbino, mentre altre, come Aosta, sono peggiorate. Il confronto con l’European Quality of Government Index suggerisce che il grado di qualità delle istituzioni rilevato dai dati oggettivi corrisponde, in via generale, a quello percepito dai cittadini. La nota è stata ripresa da questo articolo di Repubblica del 22 maggio 2021 *** È stato di recente aggiornato, con dati fino al 2019, l’Institutional Quality Index (IQI), un indice sintetico che misura la qualità delle istituzioni pubbliche per diverse provincie italiane. Confronto tra macro-regioni Aggregando i dati a livello di macro area (Nord, Sud e Centro), ponderati per la popolazione delle province, emerge un significativo divario territoriale tra Centro-Nord e Sud. Il divario tra Nord e Centro è dovuto principalmente alla componente Rule of Law: tra il 2004 e il 2019 il Centro raggiunge un punteggio medio di 0,19 punti più basso del Nord. Le regioni peggiori sono nel Mezzogiorno, con alcune differenze: in Abruzzo, Puglia e Basilicata la qualità delle istituzioni è superiore rispetto a Campania, Sicilia e Calabria che registrano valori inferiori a 0,25 (Tav.1).

  • Finanziatori

    Fondazione BPM Fondazione Cariplo Fondazione Giovanni Arvedi e L. Fondazione Passadore Google Intesa Sanpaolo S.p.A. Fondazione ALIA Falck Fondazione Arvedi Fondazione BPM Fondazione Compagnia di San Paolo Intesa Sanpaolo S.p.A. Fondazione Arvedi Fondazione Banca Popolare di Milano Fondazione Marche Intesa Sanpaolo S.p.A. Fondazione Arvedi Fondazione Banca Popolare di Milano Fondazione Marche Intesa San Paolo S.p.A. Banco Popolare di Milano Deutsche Bank Fondazione Arvedi Fondazione Europea Guido Venosta Fondazione Marche Fondazione Think Tank Nord Est Intesa Sanpaolo S.p.A. Banca BPM Banca Passadore Compagnia di San Paolo Deutsche Bank Fondazione Arvedi Fondazione Cariplo Fondazione Marche Fondazione Think Tank Nord Est Intesa Sanpaolo S.p.A. Banca Passadore Banca Sella Deutsche Bank Fondazione Arvedi Fondazione Cariplo Fondazione Marche Intesa Sanpaolo S.p.A.

  • Decreto Semplificazioni: i provvedimenti attuativi ostacolano la sua efficacia?

    A mesi di distanza dalla sua emanazione, si sostiene che gli obiettivi siano lontani dall’essere raggiunti a causa della mancata adozione dei provvedimenti attuativi, ovvero di tutte quelle norme secondarie che, disciplinando aspetti di dettaglio di una legge, sono essenziali per garantirne una piena efficacia. Ma è sufficiente questo per concludere che l’efficacia del decreto sia al momento limitata? No, perché i principali effetti del decreto non dipendono dai provvedimenti attuativi. Quella più importante è però volta al rafforzamento della regola del “silenzio assenso”: in pratica, nei casi previsti dalla legge 241/1990, non solo il silenzio della pubblica amministrazione equivale a tacito assenso, ma eventuali atti di dissenso adottati tardivamente (ossia oltre i termini pattuiti dalla legge) sono da considerarsi inefficaci. Il sesto, previsto dall’articolo 12, richiede invece al Presidente del consiglio di definire le modalità e i criteri di misurazione dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggior impatto per cittadini e imprese, oltre che le modalità di pubblicazione degli stessi sui siti internet delle amministrazioni. Il terzo titolo richiede l’adozione di cinque provvedimenti attuativi, di cui appena tre sono in linea con l’obiettivo di sostenere e diffondere l’amministrazione digitale. Tra questi, quello previsto dall’articolo 26 appare il più rilevante, perché dovrebbe definire gli aspetti di funzionamento della piattaforma digitale per la notificazione degli atti della PA a cittadini e imprese (si usa il condizionale perché il provvedimento, al pari degli altri quattro, non è ancora stato emanato). Tra i provvedimenti poco rilevanti, un esempio è offerto dal decreto attuativo richiesto dall’articolo 49 (comma 5-ter lettera g), con il quale devono essere definite le tipologie di modifica delle caratteristiche costruttive e funzionali di un veicolo per le quali non è necessaria una prova del mezzo in motorizzazione.

  • L’istruzione nel PNRR

    Rispetto alla precedente versione vengono inoltre potenziati gli investimenti per la formazione degli insegnanti e del personale scolastico e introdotti nuovi fondi per il potenziamento dei programmi di dottorato. Le misure cui sono dedicate più risorse riguardano il potenziamento dell’offerta di asili nido e scuole per l’infanzia (4,6 miliardi), seguite dagli investimenti per la messa in sicurezza dell’edilizia scolastica (3,9 miliardi). Piano per gli asili nido e le scuole dell’infanzia L’ammontare complessivo dei finanziamenti rivolti alla fascia d'età compresa tra gli 0 e i 6 anni è rimasto invariato rispetto alla bozza del PNRR presentata dal precedente governo. Nel documento del 12 Gennaio 2021, infatti, venivano stanziati 4,6 miliardi di euro per gli asili nido (0-2 anni: 3,6 miliardi di investimento) ed il potenziamento delle scuole dell’infanzia (3-6 anni: un miliardo di investimento). Assumendo che l’offerta di posti negli asili nido sia rimasta invariata rispetto al 2019 (355.289 posti in 13.335 asili), per garantire una copertura del 33 per cento servirebbero ulteriori 76.165 posti. Voci di spesa temporanee o permanenti? Gli investimenti per l’istruzione rivolti alla prima infanzia sono destinati ad aumentare la spesa corrente in maniera permanente: l’aumento di posti per gli asili dovrà presumibilmente essere accompagnato da maggiori assunzioni di docenti e personale ausiliario per garantire l’effettiva offerta dei servizi didattici. All’interno della componente sotto analisi, poche voci rappresentano investimenti che determineranno un aumento di spesa una tantum: tra queste hanno un particolare peso l’investimento Scuola 4.0 (2,1 miliardi) - che produrrà un sostanziale ammodernamento tecnologico nelle scuole dell’obbligo - e la messa in sicurezza dell’edilizia scolastica (3,9 miliardi).

  • Reddito di Emergenza vs Reddito di Cittadinanza: cosa dicono i dati?

    Rispetto a quest’ultimo il REM si configura come una misura temporanea di sostegno al reddito, con requisiti di accesso analoghi ma meno stringenti e un metodo di calcolo del contributo diverso. Queste caratteristiche gli hanno permesso di raggiungere nuclei beneficiari effettivamente esclusi dal RdC, come le famiglie straniere, oltre che di correggere alcune sue note criticità, come i bassi contributi per le famiglie più numerose. Ciononostante, i dati mostrano come alcuni aspetti tipici del RdC si ripropongano specularmente anche nel REM. * * * Il decreto Sostegni (DL 41/2021) di marzo ha prorogato il Reddito di Emergenza (REM), una misura di supporto al reddito per i nuclei familiari in condizioni di particolare disagio economico. Questi, a seguito della emanazione a marzo del decreto Cura Italia, il primo di risposta all’emergenza pandemica, avevano denunciato l’assenza di misure per le famiglie economicamente più svantaggiate, in particolare quelle escluse dal Reddito di Cittadinanza (RdC). Il REM riconosce un contributo di 400 euro per una famiglia monocomponente, aumentato di 160 euro per ogni membro maggiorenne aggiuntivo e di 80 euro per ogni minorenne (fino a un massimo di 800 euro). A fine 2020 sono 1,2 milioni i nuclei che ricevono il RdC (comprensivi dei quasi 140.000 percettori di pensione di cittadinanza) e circa il 60 per cento di essi risiede al Sud o nelle Isole; una simile percentuale, seppur leggermente più bassa, si riscontra anche per i REM previsti dai vari decreti. Sia il RdC che il REM offrono infatti contributi più generosi al sud che nel resto d’Italia, perché al Sud le famiglie sono mediamente più numerose, ma il gap appare più ampio tra i percettori di RdC (circa 100 euro) che tra quelli di REM (circa 50 euro).

  • Il decreto Milleproroghe: necessità o imprevidenza?

    Essi contengono due tipologie di norme che colpiscono particolarmente: le norme che prevedono proroghe infinite e quelle che prevedono proroghe che potremmo definire affannose. Le prime si ripetono anno dopo anno per periodi che a volte superano il decennio; queste proroghe stridono con la sentenza della Corte Costituzionale che nega legittimità a norme del Milleproroghe che modifichino la disciplina a regime. L’analisi di questo decreto suggerisce che il Milleproroghe, più che essere la causa di un’anomalia della legislazione italiana, ne sia il risultato. Quando è nato il Milleproroghe? Il Milleproroghe è il decreto legge emanato dal Governo, solitamente alla fine dell’anno, con l’obiettivo di posticipare l’entrata in vigore di alcune disposizioni normative o per prorogare l’efficacia di leggi in scadenza. Le “proroghe affannose” sono quelle che modificano i termini che sono stati stabiliti da leggi approvate pochi mesi prima, quasi che il Governo e il Parlamento non fossero stati in gradi di prevedere l’irragionevolezza di un’entrata in vigore immediata. A differenza del caso degli affitti, qui siamo in presenza di quella che appare come un rinvio di una manovra di finanza pubblica, dal momento che l’aggregazione delle centrali di acquisto è uno strumento essenziale di razionalizzazione della spesa. Un’altra interpretazione della ricorrenza dei Milleproroghe è quella che vede nel sistema legislativo italiano un bisogno ricorrente di “manutenzione legislativa”, ovvero di produzione normativa che non introduce nuove discipline ma ne modifica di precedenti, apportando variazioni spesso di tipo accessorio.

  • Corruzione, si interrompe il miglioramento dell’Italia

    Rispetto agli altri paesi, nella classifica per corruzione percepita, in cui il primo posto rappresenta il paese con il minor grado di corruzione, l’Italia si colloca al 52esimo posto su 180, perdendo una posizione rispetto all’anno scorso. Secondo Transparency International il miglioramento registrato tra 2014 e 2018 è spiegato dai progressi delle misure adottate per combattere la corruzione, quali il diritto generalizzato di accesso agli atti, una disciplina di tutela nei confronti di chi denuncia (whistleblower) e una maggiore trasparenza nei finanziamenti ai partiti. Pur con questi limiti per quanto riguarda il confronto del reale livello di corruzione tra paesi, il fatto che l’indice abbia smesso di migliorare negli ultimi due anni può indicare la mancanza di ulteriori progressi rispetto ai miglioramenti ottenuti ultimamente. Informazioni più robuste sul livello della corruzione possono invece essere tratte da un altro indice elaborato da Transparency International, che si basa sulla percentuale di persone che dichiarano di aver pagato almeno una mazzetta in un anno. L’ultima rilevazione di questo tipo, pur dando risultati migliori rispetto all’indice di percezione della corruzione, indica che, comunque, l’Italia è il peggior paese dell’Europa occidentale, con il 7 per cento degli intervistati che “confessa” di aver pagato almeno una mazzetta nel 2016 (Fig. 3). Tuttavia, il livello di corruzione sperimentata dell’Italia rimane tra i più bassi del mondo, dato che in quasi tutte le economie emergenti la corruzione è un fenomeno di gran lunga più diffuso. Nella maggior parte dei paesi l’indice della percezione della corruzione è correlato all’indice di esperienza diretta della corruzione.

  • Il blocco dei licenziamenti è utile a sostenere l’occupazione?

    Nonostante l’introduzione del blocco, in Italia, Spagna e Grecia il calo dell’occupazione nel 2020 è stato all’incirca uguale a quello medio europeo, ma è stato maggiore di quello degli altri grandi paesi europei quali Francia e Germania, che non hanno introdotto alcuna sospensione. In Italia, il calo delle cessazioni determinato dal blocco non è riuscito a ovviare alla diminuzione della creazione di nuovi posti di lavoro, il che ha generato un saldo netto negativo sull’occupazione complessiva. La domanda di fondo che si pone è se il divieto di licenziare sia una misura utile a sostenere l’occupazione, o se invece comporti un irrigidimento del sistema economico, dato che impedisce lo spostamento dei lavoratori verso settori più produttivi e meno colpiti dalla crisi. L’andamento dei licenziamenti e dell’occupazione in Italia Secondo i dati Inps l’introduzione del blocco dei licenziamenti in Italia ha coinciso con un calo drastico delle cessazioni (licenziamenti e dismissioni) mensili dei rapporti di lavoro rispetto al 2019. In Italia, l’occupazione è caduta dell’1,65 per cento, con un’elasticità rispetto al Pil di 0,18; in Grecia la caduta è stata del 2,25 per cento con un’elasticità di 0,22; in Spagna la caduta è stata del 3,27 per cento con un’elasticità di 0,28. Meglio dell’Italia hanno fatto anche la Germania e la Svizzera, due paesi in cui addirittura l’occupazione è aumentata, e l’Olanda in cui l’occupazione è caduta solo di 0,43 per cento a fronte di una caduta del Pil di 4,5 per cento. Conclusione Il blocco dei licenziamenti è una misura che nel breve periodo protegge gli “insiders”, ossia i lavoratori a tempo indeterminato, a danno dei lavoratori a termine, autonomi o stagionali: chi paga il costo più alto sono giovani e donne.

  • Lo Stato si accolla i debiti di Comuni e Province: pro e contro di un'operazione complessa

    L’accollo da parte dello Stato consente di ridurre l’onere del debito per gli enti locali, e di conseguenza per l’intera PA, perché lo Stato paga interessi più bassi. Il successo di questa operazione dipenderà dal lavoro dell’Unità di coordinamento predisposta, che dovrà ricevere, vagliare e dare attuazione alle richieste di migliaia di Comuni e Province. Nell’attale situazione di scarsa chiarezza nei rapporti finanziari fra Stato ed enti locali, questa misura, anche se è di natura una tantum, potrebbe creare un precedente e generare un problema di moral hazard. Il debito di Comuni, Province e Città metropolitane è molto contenuto rispetto a quello dello Stato Centrale, ammontando a 41,7 miliardi a giugno 2020, di cui 35,2 a carico dei Comuni e i restanti 6,5 delle Province. L’operazione di accollo Per ridurre il peso degli interessi sul bilancio dell’aggregato PA (e dei Comuni in particolare), alla fine del 2019, è stato ideato un meccanismo di accollo dei debiti allo Stato. Secondo molti commentatori infatti questo piano di rinegoziazione delle obbligazioni è nato dall’insoddisfazione dei Comuni e di alcuni politici di fronte al salvataggio di Roma Capitale, che non riservava agli altri enti locali alcun aiuto nella gestione dei loro debiti. Va anche considerato che gli enti locali non vengono mai lasciati fallire e che il complesso delle norme che regolano i rapporti fra Stato ed enti locali (imposte proprie, compartecipazioni a tributi erariali, trasferimenti ecc.) sono oggetto di continue rinegoziazioni e cambiamenti frequenti.

  • Quanto sono stati utilizzati i bonus?

    Quanto sono stati utilizzati questi bonus? La Figura 1 mostra quanta parte delle risorse stanziate è stata utilizzata (barra blu) e quanta ne sarebbe utilizzata potenzialmente entro le rispettive scadenze se il ritmo delle richieste si mantenesse costante (barra blu più barra gialla). Le risorse per il bonus per l’acquisto di connessioni internet con annesso pc o tablet, pari a 200 milioni, sono state utilizzate finora per 62 milioni (il 30 per cento delle risorse complessive), di cui 20 sono stati prenotati ma non ancora spesi. Le risorse stanziate per la fase sperimentale, pari a 227,9 milioni, sono state utilizzate quasi completamente, per 222,6 milioni di rimborsi a oltre 3,2 milioni di persone (su 5,8 milioni di iscritti). Il numero di iscritti è aumentato di 1,8 milioni in due mesi; con questo ritmo arriverebbe a 11 milioni in sei mesi e, considerato il più lungo arco di tempo per effettuare le transazioni minime necessarie, gli aventi diritto al rimborso potrebbero eccedere (in percentuale) quelli della fase sperimentale. Il bonus tv, partito il 18 dicembre 2019, ha portato a un anno dalla sua introduzione all’acquisto di 300 mila dispositivi tra tv e decoder, per 15 milioni di euro erogati; [8] dopo due mesi, al 16 febbraio, gli acquisti sono pari a 415 mila, per un valore complessivo di 21 milioni. Se l’andamento delle richieste dovesse continuare con questo ritmo (maggiori bonus per 6 milioni di euro in due mesi), al 31 dicembre 2022 si avrebbero richieste per circa 90 milioni complessivi, pari al 35 per cento delle risorse. La lentezza iniziale potrebbe essere in parte imputata alla minore spesa che ha caratterizzato i primi mesi in cui è diventata operativa; il ritmo delle richieste, infatti, è aumentato a inizio 2021: in un mese ci sono stati nuovi crediti d’imposta per 140 milioni.

  • Il nuovo Recovery Plan: meno crescita e più contrasto alle diseguaglianze, meno incentivi e più investimenti pubblici

    Sul piano dei contenuti, un primo cambiamento riguarda il fatto che nel precedente piano il tema centrale era l’andamento deludente della crescita economica italiana rispetto agli altri paesi avanzati negli ultimi decenni; nel nuovo piano è dedicata molta più attenzione alle disuguaglianze di età, di genere e territoriali. Crescono inoltre gli investimenti pubblici a scapito degli incentivi, una scelta che suscita qualche perplessità, alla luce dei tempi che richiedono gli investimenti pubblici e del fatto che le risorse europee devono essere impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026. La nota è stata ripresa in questo articolo di Repubblica del 15 gennaio 2021 * * * La bozza del piano nazionale per l’utilizzo dei fondi del NextGenerationEU approvata il 12 gennaio dal Consiglio dei Ministri è molto diversa dalla bozza che era circolata a dicembre 2020. Tuttavia, i contenuti di questa bozza erano ancora vaghi, poiché erano definite soltanto le risorse destinate a ciascuna missione e componente (6 missioni con 17 sottocomponenti), ma, per ogni componente del piano, non erano state ancora stabilite le risorse destinate ai singoli progetti, che erano solo elencati e brevemente descritti. Anche il contenuto del piano è cambiato, per alcuni aspetti in modo considerevole, soprattutto se si tiene conto che è stato redatto dallo stesso governo e con lo stesso ammontare di risorse europee a disposizione. Qui si sostiene che il moltiplicatore degli investimenti pubblici è maggiore di quello degli incentivi, ovvero che un euro di spesa pubblica destinato agli investimenti provoca un aumento del Pil maggiore rispetto a un euro speso per incentivi. Per quanto riguarda le riforme della giustizia si riconosce che sono importanti, ma, come nella bozza precedente, il nuovo piano si limita a rilevare che al momento queste riforme sono “pendenti in Parlamento”, il che, come già è stato argomentato, non garantisce che la giustizia sarà adeguatamente riformata.

  • Perché il COVID-19 ha colpito i paesi in modo diverso?

    Le variabili dipendenti utilizzate all’interno dei modelli sono: il tasso di fatalità (rapporto tra i decessi e i contagi), il tasso di mortalità (rapporto tra decessi e popolazione) e il numero o il tasso di contagiati (rapporto tra contagiati e popolazione). Solo in 2 casi, si riscontra sorprendentemente che l’anzianità della popolazione non è un fattore significativo nello spiegare la differente mortalità del virus tra aree (Chaudry et al. e Knittel et al.), benché sia evidente che le fasce più anziane di popolazione sono state le più colpite. Anche il recente rapporto dell’Istituto Sanitario di Sanità (ISS, 2021) pubblicato il 20 gennaio 2021 che si concentra su un confronto tra i tassi di fatalità tra regioni italiane, considera i tassi di fatalità standardizzati per l’età al fine di tenere conto del brusco aumento del tasso per gli over 50. Con l’intento di cogliere lo stato di salute della popolazione, vengono spesso incluse variabili relative alla presenza di patologie sul territorio e fattori di rischio (ad esempio la percentuale di fumatori e obesi). Infatti, gli studi che guardano all’interno dei singoli paesi trovano una relazione non significativa con la mortalità sia con segno negativo (Cole et al., che analizzano i comuni olandesi), sia con segno positivo (Becchetti et al., che analizzano le province del Nord Italia). Con riferimento all’etnia della popolazione, sia Wu et al., sia Knittel et al. riscontrano una relazione positiva tra mortalità e presenza di afroamericani negli Stati Uniti, probabilmente legata al maggiore disagio sociale e lavorativo di queste fasce di popolazione, relativamente più colpiti dal Covid. La scelta di un arco temporale più ampio ci permette di ovviare a problemi legati alla stagionalità delle fluttuazioni dei decessi, stagionalità che è diversa a seconda della localizzazione dei paesi (si pensi solo alle differenze tra quelli dell’emisfero australe e di quello boreale).

  • Deficit pubblico nel 2020: come in guerra

    Qualcuno, guardando la serie storica del deficit, potrà notare che comunque in passato abbiamo già avuto periodi relativamente recenti con livelli percentuali di deficit così elevati, per esempio negli anni ’80 (Fig.1). Tale definizione è quella considerata dal cosiddetto “operational deficit” (o deficit operativo), cioè il deficit corretto per effetti derivanti dall’erosione del capitale investito in titoli di stato dovuta all’inflazione. Per calcolare il deficit operativo occorre aggiungere al deficit non corretto il prodotto tra il tasso di inflazione dell’anno in corso e lo stock di debito denominato in valuta domestica alla fine del periodo precedente. Nel 2020 il deficit non corretto per l’inflazione è stimato, come si è detto, al 10,8 per cento di Pil, mentre quello operativo sarebbe del 9,2 per cento. Nel 1922 l’”operational deficit” raggiunse un picco di 11,9 per cento di Pil, sempre a causa della deflazione, che aggravava il problema. In quel periodo tra l’altro, il rapporto debito pubblico su Pil raggiungeva uno dei suoi picchi più elevati a causa della svalutazione della lira che fece esplodere la componente di titoli pubblici detenuti in valuta estera. Ancora più indietro nel tempo, il massimo assoluto dell’”operational deficit” fu raggiunto nel 1915, 14,9 per cento di Pil, quando si iniziò a spendere per finanziare i costi della prima guerra mondiale.

  • Le banche centrali possono andare in perdita? Cosa ne conseguirebbe?

    Ad esempio, nel 2019, la Banca d’Italia ha registrato un utile di oltre 8,2 miliardi di euro, di cui 7,8 miliardi sono stati incassati – direttamente o indirettamente – dallo Stato. Dato che i tassi d’interesse sui titoli di Stato di molti paesi sono diventati negativi, ci si potrebbe chiedere se è possibile che la BCE o qualche banca centrale nazionale registrino delle perdite. Nell’ipotesi remota che le riserve fossero insufficienti, è consentito alle banche centrali di portare eventuali perdite agli esercizi successivi. In aggiunta, al contrario di ciò che succede per una normale istituzione creditizia, i titoli detenuti dalle banche centrali sono valutati al costo ammortizzato e non al valore di mercato, da cui consegue che eventuali fluttuazioni del loro valore non generano perdite. Cosa succede se la BCE registra una perdita? Detto questo, eventuali perdite a carico della BCE, in base allo Statuto della stessa banca, sarebbero innanzitutto imputate ai suoi fondi di riserva, che ammontavano a oltre 90 miliardi di euro a fine 2020. Qualora questi fondi fossero insufficienti, le perdite della BCE possono essere imputate alle banche centrali nazionali in base alla capital key, cioè in proporzione alla loro quota di partecipazione al capitale che nel caso dell’Italia è pari al 17 per cento. Queste cautele sono giustificate dalla possibilità che si verifichino scenari avversi in cui una banca centrale genera perdite così elevate da compromettere la sua capacità di garantire la sua indipendenza e la stabilità macroeconomica; si tratta di un’eventualità che oggi appare assai remota.

  • Quanto sono state “verdi” le politiche fiscali adottate durante la pandemia?

    Tra le economie che hanno maggiormente orientato la spesa in direzione della sostenibilità ambientale troviamo i principali paesi dell’Europa occidentale e settentrionale, quali Francia, Germania, Spagna, Finlandia, Danimarca, Svezia e Svizzera, oltre a Canada e Regno Unito. Queste ingenti risorse si sono rese necessarie per affrontare l’emergenza sanitaria e la crisi economica, ma il modo in cui sono state e saranno utilizzate avrà un impatto significativo sul raggiungimento degli obiettivi climatici di medio-lungo termine stabiliti dall’accordo di Parigi. Anche limitandoci a considerare solo le politiche che stimolano la crescita, equivalenti a circa 2 mila miliardi di dollari, e quindi non considerano i sostegni a breve termine a cittadini e imprese, la quota di risorse destinate a interventi che diminuiranno le emissioni dannose ammonta solo al 18 per cento (fig. 1). L’80 per cento della spesa verde fa parte dei pacchetti di recupero dei paesi più avanzati, tra cui Francia, Germania, Canada, Spagna e Regno Unito, Giappone e Corea del Sud, oltre che della Cina. Sostegni verdi: un confronto internazionale Per valutare e confrontare l’impatto ecologico dei programmi di rilancio nei settori ad alto impatto ambientale di 30 economie, Vivid Economics, una società britannica specializzata nel settore ambientale ed energetico, ha elaborato un indicatore sintetico chiamato Greenness of Stimulus Index (GSI). Questo indice è calcolato sulla base di: le risorse stanziate per i settori ad elevato impatto ambientale, cioè agricoltura, industria, energia, rifiuti e trasporti; l’impatto ambientale degli interventi adottati in questi cinque settori, tenendo conto anche del loro livello di sostenibilità pre-pandemia. L’Italia, rispetto alla performance media dei paesi che la precedono nella classifica EPI, ottiene punteggi più bassi soprattutto nella gestione delle risorse idriche, qualità dell’aria, produzione di emissioni inquinanti, ma anche per quanto riguarda i metalli pesanti, la gestione dei rifiuti, cambiamento climatico.

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