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Sarebbe quindi essenziale che il Parlamento potesse decidere sulla conferma della Quota 100 alla luce di previsioni di lungo termine sull’andamento della spesa pensionistica sul Pil, sotto diverse plausibili ipotesi di cosa accadrà al termine dei tre anni. La forbice che andrebbe ad aprirsi tra i due scenari di spesa arriverebbe ad un picco di 0,8 punti percentuali di Pil nel 2033 e non sarebbe compensata dalla minore capitalizzazione di contributi se non in minima parte. Questo riflette sia i requisiti stringenti in termini di reddito e patrimonio, sia il requisito di residenza per stranieri (10 anni di residenza per ottenere il beneficio) che hanno limitato l’erogazione del Reddito di Cittadinanza ad un numero di famiglie relativamente basso. Come evidenziato in figura, la scala di equivalenza sviluppata per il Reddito di Cittadinanza è molto meno generosa di quelle standard e penalizza le famiglie numerose rispetto ai singoli individui (per nuclei di una sola persona il reddito rimane pari a 780 euro). Considerando però che i requisiti per accedere al Reddito di Cittadinanza sono molteplici, è necessaria una misura che ci consenta di confrontare la platea dei beneficiari di questa misura rispetto a quanto avviene in altri Paesi per misure equivalenti. Questo riflette sia i requisiti stringenti in termini di reddito e patrimonio sia il requisito di residenza per stranieri (10 anni di residenza per ottenere il beneficio) che hanno limitato l’erogazione del Reddito di Cittadinanza ad un numero di famiglie relativamente basso. Decidere di utilizzare la scala di equivalenza ISEE solo per quanto riguarda questo requisito potrebbe consentire a tante famiglie numerose di accedere a questa misura e risolverebbe in parte la differenza di trattamento nell’accesso al Reddito di Cittadinanza tra famiglie numerose e single.
Quota 100 e l’effetto sulla spesa pensionistica
Quota 100 e l’effetto sulla spesa pensionistica Home Archivio Studi e analisi Quota 100 e l’effetto sulla spesa pensionistica Quota 100 e l’effetto sulla spesa pensionistica di Beatrice Bonini 14 ottobre 2019 In questi giorni si discute molto sul futuro di Quota 100. Confrontando invece le previsioni di medio-lungo periodo di RGS con quelle della Commissione Europea, si nota che le ipotesi dello scenario nazionale sono molto ottimistiche e poco prudenti (soprattutto in termini di flussi migratori, occupazione e crescita della produttività). Confrontando le ipotesi demografiche e macroeconomiche, quello che emerge è un quadro complessivo più negativo nello scenario europeo EPC-WGA rispetto a quello della RGS sull’andamento del Pil (Figura 2) e, di conseguenza, sul rapporto tra spesa pensionistica e Pil (Figura 3). In merito al tasso di disoccupazione, nuovamente, le ipotesi dello scenario RGS risultano molto più ottimistiche: le ipotesi della RGS porterebbero il tasso di disoccupazione a un livello che il nostro paese non registra dagli anni settanta. Al contrario, in ambito europeo il tasso di disoccupazione converge a un valore più alto derivato da stime del tasso naturale di disoccupazione (il cosiddetto NAWRU), che è probabilmente più influenzato dall’effettivo andamento della disoccupazione italiana negli ultimi decenni. In conclusione, quello che emerge è un quadro di ipotesi probabilmente troppo ottimistiche nello scenario RGS, che portano così ad una stima al ribasso della spesa pensionistica rispetto al Pil per gli anni a venire. Le previsioni del FMI, che adottano ipotesi macroeconomiche più prudenti di quelle RGS e WGA, ma considerate più in linea con i dati storici e con l’attuale situazione economico-politica, implicano che la spesa per pensioni, dall’attuale 16 per cento del Pil, arriverebbe al 20,3 per cento nel 2045.
Pro e contro dell’abolizione di “Quota 100”
Questa nota conclude però che l’eliminazione di “Quota 100” comporterebbe risparmi per il 2020 tra 500 e 1000 milioni al lordo delle tasse sulle pensioni e tra 400 ed 850 milioni al netto di tali tasse. Oltretutto, va considerato che parte delle 185mila domande non sono state, o non verranno, accettate (l’ultimo dato ufficiale, riferito alle domande con decorrenza aprile, è di un tasso di rigetto del 18 per cento) e che parte di queste, specie per quanto riguarda i dipendenti pubblici, sono già relative al 2020. Il fatto che il flusso di domande sia meno corposo del previsto implica che “Quota 100” costerà nel 2020 meno di quanto previsto inizialmente. Questo secondo motivo comporta però che il numero di pensionati che potrebbe usufruire di “Quota 100” nel 2020 è più elevato di 34mila unità. Occorre anche tener conto del fatto che, visto che nel 2019 “Quota 100” è stata meno utilizzata del previsto, lo stesso potrebbe avvenire anche nel 2020, il che comporterebbe che l’abolizione di “Quota 100” implicherebbe un risparmio più vicino al limite inferiore dell’intervallo sopra indicato, piuttosto che a quello superiore. La logica è, appunto, che fra quanti hanno maturato il diritto per Quota 100 nel 2019 ci sono anche persone con quasi 67 anni di età e quasi 42 anni e 10 mesi di contributi, quindi quasi cinque anni di vecchiaia e cinque di anzianità in più rispetto alla soglia minima. Si ipotizza qui che questo numero sia basso, ed in ogni caso queste persone è possibile che conservino il diritto ad andare in pensione anche in caso di abolizione di “Quota 100”.
I risparmi da RdC e Quota100 per il 2020
In una nota del 2 luglio avevamo commentato la pubblicazione dell’assestamento di bilancio dello stato che prevedeva un miglioramento dell’indebitamento netto, grazie anche al risparmio di quest’anno per una minore spesa rispetto a quanto preventivato nella Relazione Tecnica (RT) al decreto legge 4/2019 per il Reddito di Cittadinanza e Quota 100. Tali dati sembrano non essere nemmeno nelle disponibilità del parlamento; il servizio bilancio del Senato ha infatti prodotto un dossier sul decreto relativo al risparmio di spesa da quota 100 e RdC che sottolinea la carenza di indicazioni numeriche relative ai risparmi di spesa. Quanto traspare dal rapporto annuale dell’INPS è che l’istituto sia in possesso di dati quasi giornalieri relativi alle domande ricevute ed elaborate, ma che decida ancora di non renderli pubblici. Fattori di incertezza La previsione è circondata da una serie di fattori di incertezza che derivano dalla mancanza di chiarezza rispetto al provvedimento, malgrado che l’erogazione sia iniziata da oltre 3 mesi. Questo significa anche che la gran parte dei 7,33 miliardi di spesa previsti per il 2020 sarebbero dovuti a coloro che riuscirebbero ad usufruire di Quota 100 già nel 2019, le cui pensioni ammonterebbero a quasi 7 miliardi, e solo in minima parte ai nuovi pensionati del 2020, che costerebbero solo 3-400 milioni. Questo perché una persona che va in pensione nel 2019 percepisce 12 mensilità nel 2020, mentre se la stessa persona dovesse andare in pensione nel corso del 2020 avrebbe sì un assegno mensile leggermente più alto (poiché avrebbe versato più contributi), [5] ma riceverebbe meno mensilità nel corso dello stesso anno, costando complessivamente meno. Si risparmia di più o di meno rispetto al 2019? Nella nostra precedente nota avevamo visto come, arrivando ad avere poco più di 185mila pensionati a fine 2019, ci sarebbe un risparmio di poco più di un miliardo di euro (precisamente 1,15) per l’anno in corso.
L'indicizzazione automatica dell'età pensionabile
Al momento in Italia esistono due opzioni principali per avere diritto alla pensione (tralasciando le possibilità di anticipo pensionistico – APE – oppure l’opzione donna, o altri simili percorsi per accedere anticipatamente alla pensione). Nel caso della pensione di vecchiaia, è necessario rispettare un requisito anagrafico, ossia l’età raggiunta, e un requisito contributivo minimo, ossia gli anni di contributi versati. Ad oggi, il requisito d'età anagrafica per avere diritto alla pensione di vecchiaia è di 66 anni e 7 mesi per ambo i sessi, avendo un’anzianità contributiva pari ad almeno 20 anni. Per poter invece accedere alla pensione anticipata, il requisito contributivo richiesto è di aver versato i contributi per almeno 42 anni e 10 mesi (per gli uomini) o 41 anni e 10 mesi (per le donne). L’indicizzazione automatica dell’età pensionabile all’aspettativa di vita comporta che i requisiti anagrafici e contributivi vengano aggiornati con il variare di tale aspettativa. Tale processo di indicizzazione è stato introdotto nel 2010 con la riforma Sacconi: è stato previsto per legge che il requisito anagrafico (quindi l’età da raggiungere per avere diritto alla pensione di vecchiaia) fosse aggiornato automaticamente a scadenza triennale a partire dal 2015. Mentre per il requisito anagrafico delle pensioni di vecchiaia l’indicizzazione era già stata introdotta nel 2010, dal 2011 questa viene applicata anche ai requisiti contributivi necessari per accedere alla pensione anticipata.
Risparmi di spesa da RdC e Quota 100
La prudenza nella valutazione del governo è probabilmente dovuta al fatto che alcuni chiarimenti normativi sono stati pubblicati solo nelle ultime settimane e che i comportamenti dei potenziali beneficiari delle due misure potrebbero cambiare nel tempo, man mano che se ne comprende l’effettivo funzionamento. Ci sembra invece che i risparmi di spesa per Quota 100 e Reddito di Cittadinanza potrebbero essere maggiori, 3 miliardi anziché 1,5 (cifra che il governo ha deciso di congelare con apposito decreto legge). Nonostante l’INPS si impegni a rispondere alle domande entro il giorno 15 del mese successivo alla presentazione della domanda, risultano ancora non elaborate alcune domande del mese di marzo e circa un quarto del totale delle domande del mese di aprile. Analizzando i dati, sembra che l’istituto abbia calcolato le percentuali di rigetto delle domande rispetto al totale delle domande ricevute, includendo quelle non ancora elaborate. Tav. 1: Reddito di Cittadinanza e Pensione di Cittadinanza Stanziamento 5,620,000,000 Spesa acquisita 2,977,021,994 Spesa sulla base delle domande ricevute 3,778,792,324 Spesa annuale (proiezione) 4,151,056,546 Risparmio potenziale 1,468,943,454 Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati INPS Un risparmio così importante deriva in parte dalle stime precauzionali iniziali, e in parte dall’elevato tasso di rigetto delle domande. È possibile che molte persone in stato di indigenza acquisiscano le informazioni necessarie con ritardo o che, prima di imbarcarsi in un iter burocratico abbastanza impegnativo, attendano di vedere gli esiti delle domande presentate nei primi mesi. Al di là di questa impennata iniziale, peraltro meno marcata del previsto, il flusso di nuove domande resta comunque rilevante: guardando l’andamento delle nuove domande inoltrate dal 26 aprile in poi, ci si può aspettare un flusso costante di 13-14mila nuove domande ogni mese.
Età pensionabile e occupazione giovanile
La linea di ragionamento per cui un posto di lavoro liberato dal pensionamento di un anziano viene direttamente occupato da un giovane, pecca di una serie di dubbie assunzioni implicite. Non è così: esistono costi fissi nel licenziamento di un lavoratore più anziano, sia per motivi fiscali sia per il costo del trasferimento di conoscenze da un lavoratore più anziano a uno più giovane. Questo però aumenterebbe la spesa pubblica, aumento che a sua volta graverebbe sui lavoratori (a meno di non pensare di versare una pensione più bassa al lavoratore che va in pensione, scelta politica difficile). Non è così: i contributi da versare per sostenere un numero più elevato di anziani aumenterebbero se l’età pensionabile diminuisse, e quindi anche il costo del lavoro aumenterebbe, rendendo più difficile l’assunzione di nuovi lavoratori. Dal punto di vista dell’evidenza empirica, alcuni studi mettono in relazione per vari paesi il tasso di attività dei lavoratori più anziani e il tasso di disoccupazione giovanile (o il tasso di occupazione della fascia più giovane). Due punti emergono da questi lavori: Nel caso di un paese che sta decrescendo e con un mercato del lavoro particolarmente rigido, una riforma che improvvisamente aumenti l’età pensionabile potrebbe avere effetti negativi sul tasso di occupazione giovanile nel breve periodo. In sintesi, l’aumento dell’occupazione giovanile può riflettere un miglioramento della situazione economica, una riduzione della pressione fiscale, un aumento della produttività, ma non una accelerazione dei termini di pensionamento dei più anziani, soprattutto se si desiderano effetti di lungo periodo.
Pensioni: spendiamo più degli altri?
Il livello di tassazione Riguardo il livello di tassazione, le aliquote fiscali che in Italia gravano sul reddito pensionistico sono tra le più elevate a livello internazionale; conseguentemente, lo Stato italiano recupera una parte maggiore della spesa pensionistica, rispetto quanto accade all’estero. Le classifiche internazionali considerano definizioni omogenee della spesa pensionistica e comprendono, oltre alla spesa previdenziale, parte della spesa assistenziale anche per gli altri paesi. Conclusioni Al termine di questa analisi possiamo concludere che: il livello di spesa pensionistica italiano è decisamente superiore alla media sia europea che dei paesi OCSE, sia al lordo che al netto delle tasse. Ai fini dei confronti internazionali, non è corretto sottrarre al totale della spesa pensionistica quella che i critici considerano spesa assistenziale, perché lo stesso dovrebbe essere fatto per gli altri paesi. Quello che viene richiesto da alcuni commentatori è quindi di sottrarre al totale presentato dall’Inps come spesa previdenziale alcune voci che sono finanziate da una parte dei trasferimenti statali versati alla GIAS, e che andrebbero quindi considerate come spesa assistenziale proprio perché gravano sulla fiscalità generale. La gran parte dei trattamenti pensionistici che si vorrebbe riclassificare come spesa assistenziale si riferisce però a una quota parte di diverse pensioni che viene sostenuta dallo Stato (si veda nella tabella 7 la voce “Sostegno della spesa pensionistica”). Primo, è ottenuta moltiplicando il totale di spesa pensionistica di 267 miliardi (non soltanto la spesa previdenziale, ma anche la componente aggiuntiva assistenziale che non viene tassata in Italia) per l’aliquota media applicata alle prestazioni previdenziali.
La riforma delle pensioni tra passato e futuro
Il risultato è che il numero di anziani che dovrà essere sostenuto da ogni 100 persone in età lavorativa salirà dall’attuale 37 a 62 nei prossimi trent’anni. Queste tendenze rendono inevitabile prolungare la vita lavorativa e/o ridurre il livello delle pensioni, a meno di non voler aumentare le tasse sui giovani o tagliare altre spese (cosa peraltro già fatta nell’ultimo decennio; Figure 1.a e 1.b). In aggiunta, si può notare un aumento del reddito medio da pensione più rapido di quello del reddito pro capite italiano a partire dal 2008, dato che i pensionati sono stati maggiormente protetti dalla crisi economica rispetto ad altri gruppi più esposti. Le previsioni ufficiali indicano che, per effetto delle passate riforme, la spesa pensionistica resterà più o meno stabile sui livelli attuali fino al 2045, scendendo solo in seguito. L’occupazione è prevista aumentare rapidamente, anche per effetto di un calo del tasso di disoccupazione al 5,5 per cento durante le prossime decadi (è stato in media del 9 per cento dal 1980, come pure nell’ultimo decennio). Le previsioni ufficiali potrebbero realizzarsi in un contesto di forti riforme strutturali, ma i rischi sono significativi e non lasciano spazio a un annacquamento delle riforme pensionistiche degli ultimi anni. C’è comunque il rischio che variazioni minori, ma continue, della normativa pensionistica, quali quelle verificatesi negli ultimi anni, portino, nel tempo, a un sostanziale stravolgimento delle passate riforme.
Le pensioni di invalidità e i possibili abusi
Le stime dell’Osservatorio CPI indicano che la spesa per prestazioni di invalidità sarà di circa 17,8 miliardi nel 2017, oltre 700 milioni in più rispetto al 2014. Dal 2002 a oggi, il numero di prestazioni per gli invalidi ogni 100.000 abitanti è aumentato del 63 per cento. La variazione delle prestazioni ogni 100.000 abitanti è stata più che proporzionale in quelle regioni che già detenevano un ammontare anomalo di prestazioni di invalidità. In questa regione l’aumento del numero di prestazioni dal 2014 è stato di 686 unità ogni 100.000 abitanti, contro una media nazionale di 390 unità. Le regioni che presentano il numero maggiore di prestazioni agli invalidi ogni 100.000 abitanti appartengono al sud e isole, mentre le regioni con il minor numero di prestazioni appartengono a centro-nord. Il numero di prestazioni di invalidità ogni 100.000 abitanti in Calabria è il doppio di quello dell’Emilia-Romagna (la regione con meno prestazioni di invalidità). Le forti differenze tra regioni nella frequenza delle prestazioni d’invalidità, come pure nell’aumento registrato dal 2014, suggeriscono che molte prestazioni siano erogate senza un effettivo bisogno.