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L’efficienza dei comuni nelle regioni a statuto ordinario
Metodologia La classifica utilizza un indicatore di efficienza basato sul confronto tra un indicatore di spesa e un indicatore di offerta di servizi. L’indicatore di spesa ci dice di quanto la spesa di un comune differisce dalla spesa “standard” (o fabbisogno standard) che un comune con certe caratteristiche dovrebbe avere. È per questo che, per misurare il grado di efficienza, occorre confrontare se un eccesso della spesa rispetto allo standard può essere spiegato dall’indicatore di offerta, che invece misura quanto la quantità offerta di servizi differisce dalla media. L’indicatore di efficienza complessiva è calcolato come media ponderata dei sei indicatori, con pesi (riportati nella Tavola 1) che riflettono la quota, rispetto al fabbisogno standard totale, di ogni funzione di spesa. La formulazione è la seguente: Infine, l’indice di efficienza comunale è semplicemente la differenza tra indicatore di spesa e indicatore di offerta: Questo significa che se, per esempio, lo scostamento nella spesa è uguale allo scostamento nell’offerta l’indicatore è uguale a zero. A metà classifica troviamo quei comuni che registrano un indicatore di efficienza prossimo allo zero, ovvero quelle città per cui uno scostamento della spesa viene compensato da uno scostamento di pari entità nella quantità dei servizi offerti. A chiudere la classifica troviamo Foggia, che registra un indicatore di spesa tutto sommato in linea con la media, ma accompagnato da un livello di servizi di circa il 70 per cento inferiore agli altri comuni simili per fascia di popolazione.
Coerentemente con la riforma del Titolo V della Costituzione, la legge 42/2009 prevedeva nuovi criteri per l’assegnazione di fondi ai comuni delle regioni a statuto ordinario, abbandonando il criterio dei trasferimenti “storici” (quelli assegnati ai vari comuni negli anni precedenti). L’idea di base è quella di stimare nel modo più oggettivo possibile la spesa (o fabbisogno standard) che un comune deve mantenere per garantire un livello di servizi adeguato. La logica è la stessa utilizzata per i fabbisogni standard: se con questi si voleva stimare l’ammontare delle risorse necessarie per mantenere in funzione alcuni servizi, con quello della capacità fiscale si vuole capire qual è la capacità media di un comune di reperire quelle risorse in maniera autonoma. Tale approccio, pur valido teoricamente, si scontra in Italia con una difficoltà: la base imponibile di IMU e TASI, che corrisponde al 45 per cento della capacità fiscale, è infatti calcolata sul valore immobiliare dei registri catastali, che non riflettono il reale valore di mercato. In sostanza, anche a regime, soltanto una piccola parte sul totale dei trasferimenti ai comuni, 1,3 miliardi su 10,6 miliardi circa, ovvero il 12,3 per cento del totale, verranno perequati secondo la differenza tra capacità fiscale e fabbisogni standard. Lo stesso vale per gli spostamenti per classi dimensionali: si tratta di piccole esigue rispetto alla spesa complessiva dei comuni delle regioni a statuto ordinario che, per i comuni al di sotto dei mille abitanti si attesta a minori risorse per circa 14 euro per abitante. UPB (2017), Fabbisogni standard e capacità fiscali nel sistema perequativo dei Comuni, Nota di Lavoro http://www.upbilancio.it/wp-content/uploads/2017/02/Nota-1_2017.pdf [9] Per un confronto più preciso sulle capacità fiscali a livello di aggregato regionale si vedano pp. 29 e ss su “La stima della capacità fiscale dei Comuni nelle RSO”.
L’incompletezza dei dati sulle opere pubbliche in corso
Per capirlo basta considerare gli importi di spesa per queste opere: la spesa già sostenuta sarebbe di soli 1,2 miliardi nel 2018 per le opere pubbliche incompiute di interesse nazionale e di 1,6 miliardi per quelle regionali. Il motivo di questa incompletezza è che il MIT considera incompiute solo le opere i cui lavori risultano interrotti per motivi specifici, quali l’assenza di collaudo, il mancato rispetto dei termini contrattuali o perché ci si è resi conto che i lavori non sono stati eseguiti a regola d’arte. C’è una terza fonte: il MEF mette a disposizione un sistema di monitoraggio delle opere pubbliche (MOP) tramite la Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche (BDAP), da cui è possibile analizzare le opere pubbliche in corso in Italia. Ad esempio, è possibile che alcune opere pubbliche mostrino un codice unico di progetto (CUP) attivo anche se si tratta di opere già completate. Il valore totale di queste opere è pari a 200,8 miliardi di euro, di cui 103,8 sono finanziamenti già stanziati. Le regioni per le quali è stato stanziato di più sono quelle del Nord (49 miliardi), seguite da quelle del Sud (25 miliardi), delle Isole (16,9 miliardi) e del Centro (12,9 miliardi) (Fig. 2). Il fabbisogno finanziario per le opere pubbliche da completare, in termini di stanziamenti mancanti, è ampio: 97 miliardi in totale, di cui 43,7 miliardi nel Sud e nelle Isole.
Classifica dei Comuni delle regioni a statuto ordinario
L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. Classifica dei Comuni delle regioni a statuto ordinario (23 maggio 2019) #pa #entilocali Archivio studi e analisi.
Come sta procedendo la riforma delle partecipate?
Di queste, 1650 sarebbero interessate da procedure di dismissione, di fusione o dismissione di partecipazioni di minoranza. Quindi anche nei risultati della ricognizione straordinaria potrebbero rientrare un insieme di società la cui procedura di liquidazione, scioglimento o fallimento ha avuto inizio prima dell’intervento del Testo Unico sulle Società Partecipate a cui si riferisce il comunicato.[. Era stato incluso inizialmente nel campione anche il comune di Napoli che, tuttavia, ha deliberato la revisione straordinaria solo a fine gennaio, con due mesi di ritardo, non rendendone possibile un’analisi nei tempi previsti per il completamento di questa nota. Con riferimento alle razionalizzazioni mediante contenimento dei costi, la Corte dei Conti, nel formulare le proprie linee di indirizzo per la revisione straordinaria delle partecipazioni, ha chiarito che le amministrazioni avrebbero dovuto indicare le modalità di attuazione, unitamente a una stima dei tempi e dei risparmi attesi.[. A titolo di esempio, delle tre procedure di liquidazione in corso nel Comune di Bari, una sola è stata avviata nel 2016, mentre due sono iniziate rispettivamente nel 2006 e nel 2010. A questo proposito può essere utile ricordare che, delle 11 società che nel bilancio 2015 registravano perdite superiori ai 15 milioni di euro, due gestivano case da gioco (Casinò di Campione S.p.A., con una perdita di oltre 32 milioni e Casino de la Vallée S.p.A., con una perdita di oltre 18 milioni).[. La scelta di mantenimento è motivata come segue: “Società strettamente necessaria per il perseguimento delle finalità istituzionali della Fondazione Cineteca di Bologna”, che detiene il controllo delle due società tramite L’immagine Ritrovata S.r.l., la quale produce un servizio considerato di rilevante interesse generale (ex art.117, comma 3 della Costituzione).
Le modifiche alla riforma Madia presenti nel disegno di legge di Bilancio 2019
L’insieme di partecipazioni da alienare (già ridotto, a causa dell’eccessiva genericità dei criteri stabiliti nel Testo Unico) verrebbe ristretto ulteriormente, rendendo ancora più difficile il percorso di razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche intrapreso negli anni passati. comma 1 obbligava ciascuna amministrazione pubblica a effettuare la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute in società entro il 30 settembre 2017 (scadenza poi posticipata di due mesi) e a individuare quelle da alienare.[. Oppure per le quali non sia indicata esplicitamente nell’atto deliberativo di costituzione o acquisizione:[5] la necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali di cui al punto 1, e le ragioni di convenienza economica e della sostenibilità finanziaria; la compatibilità dell'intervento finanziario previsto con le norme dei trattati europei. Il fatto che una società abbia registrato utili nel triennio passato non esclude affatto che in futuro, per qualunque motivo, questa possa registrare perdite che avrebbero una ricaduta diretta sulla pubblica amministrazione. Per esempio, perché si dovrebbe consentire a un ente pubblico di investire capitale per produrre prosciutti, piuttosto che utilizzare quel capitale per costruire strade? Una partecipata, anche se fa profitti, assorbe capacità manageriali che potrebbero invece essere utilizzate per i fini istituzionali dell’ente pubblico. In linea di principio, una certa attività dovrebbe essere svolta dal settore pubblico se esistono “fallimenti di mercato”, ossia se il privato non è in grado di svolgere in modo efficacie un’attività che è necessaria per la collettività. Le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ne acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società.
Quali regioni hanno troppi dipendenti pubblici?
Quel che è chiaro, invece, è che le regioni a statuto speciale hanno un numero di dipendenti pro capite molto più alto delle altre, indipendentemente dalla loro localizzazione e anche al netto delle maggiori competenze. Fra le regioni a statuto ordinario, tre regioni (Liguria, Lazio e Calabria) hanno un numero di dipendenti più elevato di quanto sembra giustificabile in base alle dimensioni della loro popolazione e tenendo conto di possibili economie o diseconomie di scala. La conferma della specificità delle regioni a statuto speciale è visibile nella Figura 2, dove gli indici sono stati aggregati per macroarea e tipologia di regione: le regioni a statuto ordinario (RSO) dispongono in media di 10,1 dipendenti ogni 1000 abitanti, mentre quelle a statuto speciale (RSS) ne hanno 16,4, il 62% in più. Cosa può esserci quindi alla base della comune convinzione che le regioni del Sud sovrabbondino di dipendenti pubblici? Una possibile risposta può essere ipotizzata guardando alle dimensioni del personale degli enti territoriali in rapporto non all’intera popolazione regionale, ma soltanto alla popolazione occupata. Estendendo questo ragionamento ad altre categorie di dipendenti pubblici e a tutte le RSO, si può costruire una graduatoria tra regioni che tenga conto dell’esistenza di economie di scala, cioè che sottragga al valore effettivo di dipendenti per abitante il livello “giustificato” dalle economie di scala. Il risparmio in termini di spesa, utilizzando il valore della spesa media per dipendente ricavabile dai dati della Corte dei Conti per ciascuna di queste regioni, sarebbe pari a circa 186 milioni di euro per la Liguria, 611 milioni di euro per il Lazio e 129 milioni di euro per la Calabria. In conclusione, Liguria, Lazio, Calabria e forse Basilicata sono meritevoli di attenzione nel senso che l’elevato numero di dipendenti richiederebbe una spiegazione in termini di variabili oggettivamente misurabili (ad esempio, il numero di anziani sulla popolazione oppure la conformazione del territorio).
Comuni in difficoltà finanziarie: sono quelli che spendono troppo o quelli che spendono male?
Il riequilibrio finanziario, invece, è una procedura più blanda: un piano pluriennale di riequilibrio dei conti, al fine di eliminare gli squilibri strutturali nel bilancio che potrebbero portare, di lì a poco, al dissesto. Qual è stata la performance dei Comuni che di lì a poco hanno indicato difficoltà finanziarie? Nella Tavola 2 troviamo le statistiche riguardanti questi Comuni, nella Tavola 3 il dettaglio per quelli in dissesto e nella Tavola 4 per quelli in riequilibrio finanziario. In sintesi, sembra che a correre maggiormente il rischio di finire in difficoltà finanziarie non siano i Comuni che spendono tanto, in rapporto al fabbisogno standard, ma che siano quelli che con quella spesa riescono ad offrire pochi servizi, sia in termini assoluti che relativi. Per cercare di capire se i nostri risultati siano in realtà guidati dalla Regione di origine del Comune più che dal suo essere in difficoltà finanziaria o meno, abbiamo ricalcolato le varie statistiche focalizzandoci solo sui Comuni del Centro-sud (Tavola 5) o del Sud (Tavola 6). Questo tipo di analisi evidenzia come, effettivamente, non ci siano grosse differenze nella spesa dei Comuni che si trovano in queste Regioni rispetto al resto del Paese; tuttavia i Comuni di queste Regioni forniscono in media meno servizi e sono meno efficienti nel farlo. In altre parole: se è vero che spesso e volentieri i Comuni del Centro-sud hanno performance inferiori alla media nazionale, i Comuni in dissesto o in riequilibrio hanno normalmente performance peggiori anche nei confronti dei Comuni limitrofi. Il fabbisogno standard è calcolato in maniera tale che la spesa resti grossomodo simile a quella storica ma venga distribuita in maniera diversa fra i Comuni, trasferendo risorse dai Comuni che spendono più dello standard a quelli che spendono meno.
Gli effetti della flat tax sul gettito regionale
Nella simulazione riportata, a fronte di una perdita totale per le casse dello stato di 57 miliardi, circa 46 andrebbero a beneficio del Centro e del Nord e soltanto 11 al Sud. È noto che l’introduzione di una vera flat tax, con un’unica aliquota a prescindere dal reddito percepito, andrebbe maggiormente a beneficio dei redditi più alti, visto che questi beneficerebbero di una maggiore riduzione delle aliquote di tassazione. Quindi, se le tasse pagate dai cittadini di una regione sono maggiori della spesa pubblica di cui beneficiano, il residuo fiscale è positivo e produrrà un flusso netto in uscita dalla regione verso lo stato. In questa nota, per rendere i dati comparabili con le dichiarazioni dei redditi del 2017, abbiamo assunto che la quota di spesa primaria e di entrate in rapporto al Pil, nonché dei residui fiscali, siano stati nel 2017 pari alla media del triennio. Questo perché se la tassazione è progressiva, in presenza di un livello di reddito più alto, come nel caso delle regioni del Centro e del Nord, la pressione fiscale è più alta. Secondo, che, per quanto il Nord abbia redditi pro capite più elevati, il numero di contribuenti che paga aliquote nei tre scaglioni IRPEF ad aliquote più alte (38, 41 e 43 per cento), anche se più concentrato al Nord, è abbastanza limitato, influendo in modo contenuto sul livello medio di tassazione. Il risultato è che al Nord il residuo fiscale è mediamente positivo e pari a 3294 euro pro capite, nel Sud e nelle Isole è negativo ed ammonta a circa 3326 euro per abitante, come riportato nella tavola 1.
Investire in opere pubbliche portando a termine quelle incompiute
L’importo ancora da spendere per completarle non è però elevatissimo (circa 750 milioni di euro) e dovrebbe quindi certamente essere integrato dal completamento delle opere incompiute nazionali e da nuovi programmi di investimento che è necessario definire al più presto. Le aree geografiche in cui è presente il maggior numero di opere pubbliche incompiute sono le Isole e le regioni del Sud, le quali beneficerebbero maggiormente degli investimenti integrativi per completare tali opere. Le opere pubbliche incompiute nel 2018 Ogni anno il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) pubblica l’Anagrafe regionale delle opere incompiute. La spesa totale prevista inizialmente per opere pubbliche incompiute in Italia, sempre a fine 2018, era pari a 1.607 milioni di euro (Figura 2, che riporta anche la ripartizione per macroregioni). Il totale degli oneri da sostenere per completare tutte le opere pubbliche incompiute degli enti territoriali ammontava invece a 745 milioni di euro (Figura 3). La seguente Tavola riassume i dati regionali relativi al numero di opere incompiute, il totale già investito e gli oneri necessari per ultimare le opere. Le opere vengono inserite direttamente dagli enti locali appaltanti tramite il SIMOI (Sistema informatico di monitoraggio delle opere incompiute).
Gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno
Va peraltro detto che il fatto che la somma delle risorse ordinarie e aggiuntive sia all’incirca proporzionale alla popolazione comporta che il rapporto investimenti/Pil nel mezzogiorno sia molto più alto, a volte quasi doppio, rispetto al Centro-Nord. A livelli un po' più elevati (35,7% in media) si è mantenuta la quota della spesa in conto capitale che, oltre agli investimenti, include principalmente i trasferimenti per gli investimenti a imprese pubbliche e private: questa voce contiene una buona parte degli incentivi a favore degli investimenti nel Mezzogiorno. Ebbene con riferimento all’aggregato SPA, la situazione è un po' meno favorevole al Mezzogiorno, dal momento che le quote sul totale nazionale di investimenti (29,6%) e di spesa in conto capitale (32,5%) sono inferiori alla quota della popolazione (si veda ancora la Tavola 1). Si noti però che anche in questo caso, il rapporto con il Pil è decisamente favorevole al Mezzogiorno: nella media del periodo 2000 - 2017 infatti questo rapporto si è collocato al 6,9% nel Mezzogiorno e al 4,4% nel Centro Nord con un gap a favore del Mezzogiorno del 58%. La spesa ordinaria e quella aggiuntiva Come si è detto sopra, l’idea delle politiche di sviluppo è che la spesa specificamente dedicata alle aree in ritardo debba essere aggiuntiva e che la spesa ordinaria debba essere distribuita sul territorio nazionale in ragione della popolazione. In conclusione, è chiaro che il Mezzogiorno ha sofferto in questi anni di fenomeni negativi occorsi a livello nazionale: la lunga recessione, con una forte caduta del Pil che ancora non è stata recuperata, e il taglio di circa un terzo degli investimenti pubblici. Va però osservato che, in rapporto al Pil, la spesa per investimenti è sempre stata ed è tutt’ora molto più alta nel Mezzogiorno che nel resto del Paese.
Lo Stato si accolla i debiti di Comuni e Province: pro e contro di un’operazione complessa
L’accollo da parte dello Stato consente di ridurre l’onere del debito per gli enti locali, e di conseguenza per l’intera PA, perché lo Stato paga interessi più bassi. Il successo di questa operazione dipenderà dal lavoro dell’Unità di coordinamento predisposta, che dovrà ricevere, vagliare e dare attuazione alle richieste di migliaia di Comuni e Province. Nell’attale situazione di scarsa chiarezza nei rapporti finanziari fra Stato ed enti locali, questa misura, anche se è di natura una tantum, potrebbe creare un precedente e generare un problema di moral hazard. Il debito di Comuni, Province e Città metropolitane è molto contenuto rispetto a quello dello Stato Centrale, ammontando a 41,7 miliardi a giugno 2020, di cui 35,2 a carico dei Comuni e i restanti 6,5 delle Province. L’operazione di accollo Per ridurre il peso degli interessi sul bilancio dell’aggregato PA (e dei Comuni in particolare), alla fine del 2019, è stato ideato un meccanismo di accollo dei debiti allo Stato. Secondo molti commentatori infatti questo piano di rinegoziazione delle obbligazioni è nato dall’insoddisfazione dei Comuni e di alcuni politici di fronte al salvataggio di Roma Capitale, che non riservava agli altri enti locali alcun aiuto nella gestione dei loro debiti. Va anche considerato che gli enti locali non vengono mai lasciati fallire e che il complesso delle norme che regolano i rapporti fra Stato ed enti locali (imposte proprie, compartecipazioni a tributi erariali, trasferimenti ecc.) sono oggetto di continue rinegoziazioni e cambiamenti frequenti.