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I dati provvisori sul mercato del lavoro relativi al mese di dicembre 2021 confermano la rapida ripresa dell’economia dopo la crisi pandemica: tra dicembre 2020 e dicembre 2021, sono stati creati 532.000 nuovi posti di lavoro tra la popolazione in età lavorativa. Il tasso di occupazione (occupati tra 15-64 anni/popolazione tra 15-64 anni) è tornato al livello pre-Covid di dicembre 2019 (Fig. 1).
Inoltre, il tasso di occupazione pre-crisi è stato superato dalle donne (50,5 per cento contro 50,1 per cento) e dai giovani tra 15-34 anni (42,5 per cento contro 41,7 per cento).
Tuttavia, nello stesso periodo, il numero di occupati in questa fascia di età è diminuito di 307.000 (Tav.1). La ragione è il crollo della popolazione in età lavorativa, pari a ben 543.000 unità. Come abbiamo scritto in una recente nota, il calo della popolazione in età lavorativa è dovuto principalmente al saldo negativo tra le persone che compiono 15 anni e quelle che ne compiono 65, causato dal calo delle nascite che ha interessato l’Italia negli ultimi cinquant’anni; i nati nel periodo del baby boom stanno andando in pensione e sono rimpiazzati solo parzialmente dai nati negli ultimi decenni.[1]
L’eccesso di mortalità connessa alla pandemia ha svolto un ruolo minore, dato che i decessi sono avvenuti per lo più nella popolazione più anziana. Nella media del periodo 2015-2019 i decessi nella fascia di età 15-64 sono stati 69.400. Rispetto a questa media, i decessi sono aumentati solo di 4.100 unità nel 2020 (a 73.500); un valore analogo è prevedibile per il 2021 (67.000 decessi fino a novembre, il che fa presumere che siano circa 73mila nell’intero anno).[2]
Nel primo decennio del 2000, il saldo negativo è stato più che compensato dai flussi migratori in entrata. Tuttavia, questi si sono significativamente ridotti dopo la crisi finanziaria e in particolare durante la crisi pandemica. La popolazione in età lavorativa ha così iniziato a calare attorno al 2012. Il calo si è accentuato negli anni successivi, sino al 2020-2021 in cui ha superato le 500.000 unità di cui si è detto (Fig. 2).
Negli ultimi vent’anni, l’impatto del calo demografico sull’offerta di lavoro era stato compensato, oltre che dai flussi migratori, da un aumento della partecipazione al mercato del lavoro, in particolare delle donne (a partire da livelli tra i più bassi nei paesi Ocse).
A seguito della crisi pandemica però il tasso di partecipazione (rapporto tra occupati + disoccupati in età lavorativa e la popolazione in età lavorativa) non ha ancora recuperato il livello di dicembre 2019: a dicembre 2021, esso si collocava al 64,9 per cento a fronte del 65,5 per cento del dicembre 2019 (Fig. 3).
Il numero di inattivi (ossia persone senza un’occupazione e che non cercano lavoro) non solo non è diminuito, come era accaduto negli anni precedenti, ma è leggermente aumentato, di 10.000 unità, determinando un calo della forza lavoro (occupati + disoccupati) maggiore di quello della popolazione in età lavorativa (forza lavoro: -553.000 unità; popolazione: - 543.000). La crescita degli inattivi è un fenomeno comune a diversi paesi: negli Stati Uniti ha assunto dimensioni tali da indurre i commentatori a parlare di un nuovo fenomeno detto “Great Dismissal” (le grandi dimissioni). In Italia è presto per dire se il calo che si è osservato abbia caratteristiche strutturali; probabilmente non sarà così perché il tasso di occupazione italiano, pur avendo recuperato i livelli pre-Covid, rimane più basso di quello di quasi tutti i paesi avanzati.
Queste dinamiche possono aiutare a spiegare perché, a fronte di un forte rimbalzo dell’attività produttiva e delle note carenze nelle politiche attive, le imprese fatichino a trovare i lavoratori necessari. In ogni caso è evidente che non è più possibile prescindere dalla demografia per analizzare i cambiamenti del mercato del lavoro.