Welfare

La spesa pubblica per la famiglia

25 novembre 2022

Intermedio

La spesa pubblica per la famiglia

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Il numero medio di figli per donna nei paesi dell’Europa occidentale è diminuito da 2,8 nel 1960 a 1,6 negli anni Novanta. Negli ultimi trent’anni, la situazione è rimasta stabile. In Italia, il problema della bassa natalità è particolarmente accentuato: il numero medio di figli per donna nel 2020 ha toccato il valore di 1,3. Questo andamento ci ha reso il paese europeo che in proporzione ha più ultra65enni rispetto alla popolazione. Nel tentativo di ovviare a questo problema e per consentire libere scelte delle donne, quasi tutti i paesi avanzati hanno attuato politiche per le famiglie con figli. Solo di recente, con l’attivazione dell’Assegno Unico e Universale, l’Italia dovrebbe essersi allineata alla media europea in quanto a benefici in denaro forniti alle famiglie. Serve però riflettere sui servizi per conciliare lavoro e famiglia, soprattutto per le donne.

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Denatalità ed invecchiamento

La riduzione del numero medio di figli per donna (o tasso di fecondità totale) è un fenomeno ormai mondiale: si è passati da 5 figli per donna nel 1960 a 2,4 nel 2020, ma con differenze macroscopiche tra aree del mondo. Nell’Africa subsahariana si contano ancora 4,6 figli per donna; in India, 2,2. Il dato dei paesi dell’Europa occidentale è passato da 2,8 negli anni Sessanta a 1,6 negli anni Novanta, ed è poi rimasto più o meno stabile. Pur con qualche approssimazione (legata ai tassi di mortalità e agli afflussi migratori), un tasso di fecondità uguale a 2 garantisce una popolazione stabile nel tempo; un tasso inferiore a 2 è un segnale di declino demografico. E’ in queste condizioni che la riduzione della natalità (o denatalità) può diventare un problema: la riduzione delle nascite infatti porta ad aumento della quota di anziani sulla popolazione e all’invecchiamento delle società.

La Fig. 1 mostra chiaramente la riduzione del tasso di fecondità nei paesi più popolosi dell’Unione Europea, ovvero Germania, Francia, Italia e Spagna. Tre di questi sono ben al di sotto della soglia di 2 figli per donna, l’unica eccezione la Francia, vicina alla soglia.  Dopo il minimo raggiunto negli anni Novanta, con valori sotto 1,5 figli per donna, in alcuni paesi europei il tasso di fecondità  è cresciuto, ma la ripresa non è stata né uniforme né duratura. Sebbene anche il tasso di fecondità in Francia sia in discesa dal 2015, il paese transalpino si è dimostrato più resiliente al mutamento demografico: la Francia ha tutt’ora il tasso di fecondità più alto dell’Unione Europea, ovvero 1,8. 

Il basso tasso di fecondità, insieme alla diminuzione del tasso di mortalità che ha interessato i paesi sviluppati, ha provocato un mutamento nella struttura demografica delle popolazioni occidentali, che hanno progressivamente esibito età medie maggiori.

Nel nostro paese, l’invecchiamento risulta più accentuato: in Italia i residenti sopra i 65 anni (23,2 per cento del totale) superano i residenti sotto i 24 anni, che sono solo il 22,8 per cento della popolazione. Negli altri paesi più popolosi dell’Unione, gli under 24 sono almeno il 24 per cento della popolazione, e gli over 65 sono meno del 22 per cento.

La fecondità è un fenomeno complesso, in quanto le sue determinanti sono fattori di diversa natura: biologici, socioeconomici e culturali. Fra questi fattori vi è lo sviluppo economico, che storicamente è correlato negativamente al tasso di fecondità. Infatti, lo sviluppo economico e i cambiamenti della società che esso porta (o che lo precedono) sono associati alla cosiddetta “transizione demografica”, ovvero al passaggio da una società con “elevati” tassi di fecondità e mortalità ad una società con “bassi” tassi di fecondità e mortalità.[1]

 

Pur non essendoci consenso fra gli studiosi, alcuni recenti studi mostrano che a partire da alti livelli di sviluppo economico, la relazione fra fertilità e sviluppo possa diventare positiva, aprendo una nuova fase della transizione demografica. Questa inversione di tendenza è osservabile solo in alcuni paesi molto sviluppati, ed è stata motivata da variabili intrinseche associate alla società e alle istituzioni, più che al reddito.[2]

In ogni caso, in quasi tutti i paesi avanzati, anche come risposta alla “transizione demografica”, vi sono politiche a favore della famiglia, che si possono classificare in  due grandi categorie: i benefici in denaro (“cash”) e i benefici in beni e servizi (“in-kind”).

Cos’è la spesa pubblica per la famiglia?

A livello internazionale, gli indicatori di spesa pubblica per la famiglia non sono facili da armonizzare, perché sono tante le politiche che possono rientrare nella definizione. Le fonti più utilizzate sono due database sulla spesa pubblica per il sociale, compilati rispettivamente da Eurostat e dall’Ocse: lo European System of integrated Social Protection Statistics (ESSPROSS) e il Social Expenditure Database (SOCX).

In entrambi gli aggregati, si considerano come spese per famiglie/figli quelle che generano due tipi di benefici: in denaro (“cash”) e in beni e servizi (“in-kind”). I benefici in denaro più comuni sono l’indennità per il congedo parentale dal lavoro pagato per entrambi i genitori e i trasferimenti in denaro assimilabili ad assegni familiari, sia che siano una tantum - come quelli percepiti alla nascita di un figlio - sia quelli percepiti periodicamente per il mantenimento dei figli.  La spesa per la famiglia in beni e servizi consiste nella gratuità degli stessi o in agevolazioni per acquistarli. Quelli considerati sia da Eurostat che dall’Ocse sono gli asili nido (ed altri servizi assimilabili di assistenza in età prescolastica) e gli alloggi sociali o di altri beni per le famiglie, come i prodotti per l’infanzia o l’istruzione dei figli.

La principale differenza fra le due fonti è che il SOCX (Ocse) include nei benefici in denaro anche le spese fiscali associate alla composizione del nucleo familiare, quali detrazioni o deduzioni per i figli a carico.[3] Le spese fiscali, sotto forma di detrazione IRPEF per i figli a carico, erano tipiche del sostegno alle famiglie in Italia prima dell’introduzione dell’Assegno Unico e Universale (AUU).[4] Nei dati Eurostat, questi benefici fiscali non sono inclusi, perché classificati come una riduzione delle entrate e non come spesa pubblica.

Un confronto europeo

Prima dell’introduzione dell’Assegno Unico Universale Unico (AUU), l’Italia era nelle ultime posizioni della classifica europea in quanto a spesa pubblica per famiglia e figli. Nel 2020, la spesa pubblica media per famiglia/figli in Europa è stata del 2,5 per cento del Pil: l’1,6 per cento del Pil è stato costituito da spesa per benefici in denaro e lo 0,9 per cento da benefici in beni e servizi.[5] L’Italia, con una spesa che si è attestata fra l’1,2 e l’1,3 per cento del Pil, è risultata il secondo paese con la minor spesa, al pari con l’Irlanda; sotto di noi solo Malta. Come nella maggior parte dei paesi europei, ad eccezione di Danimarca, Finlandia Svezia e Spagna, la spesa in Italia si concentra sui benefici in denaro. A fronte di 20,7 miliardi di euro di spesa complessiva, 17,2 sono benefici in denaro (cioè una spesa pari all’1 per cento di Pil) e 3,53 benefici in beni e servizi (lo 0,2 per cento di Pil).

In termini di spesa complessiva, cambiamenti rilevanti si sono avuti con l’introduzione dell’AUU a partire da marzo 2022. Questa riforma rafforza i benefici in denaro, razionalizzando il complesso sistema precedente che si componeva di: premio alla nascita, fondo natalità, detrazioni IRPEF per i figli a carico minori di 21 anni (le detrazioni per figli a carico fra i 21 e i 24 anni rimangono invariate), assegni per nuclei familiari (ANF) e per famiglie numerose.

Un punto chiave della riforma verso l’universalità degli schemi a favore delle famiglie è che amplia la platea di beneficiari, includendo anche i figli di lavoratori autonomi e incapienti. In una recente valutazione, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio prevede un aumento del beneficio medio netto per il 77 per cento dei figli a carico interessati.[6]

Per il 2022, si stima infatti un incremento della spesa pubblica per famiglia/figli, finanziata sia con l’eliminazione per 10 mesi di detrazioni IRPEF per figli a carico, abrogate da marzo 2022, sia con nuove risorse aggiuntive per 6,6 miliardi. Assumendo Pil costante ed invarianza delle altre componenti di spesa, l’Italia si avvicinerebbe alla media europea nella spesa pubblica per famiglia/figli, arrivando all’1,9 per cento del Pil nel 2022. Con l’AUU a pieno regime a partire dal 2023, la spesa complessiva per famiglia e figli arriverà al 2 per cento del Pil.[7] In particolare, lo stanziamento per benefici in denaro salirà all’1,8 per cento del Pil, cioè 0,2 punti percentuali in più rispetto alla media europea per quanto riguarda i soli benefici in denaro. Allinearsi alla media della spesa complessiva europea per famiglia/figli comporterebbe un incremento delle risorse dello 0,5 per cento di Pil, che, ai valori del 2022, corrisponde a 9,5 miliardi.

Un possibile aumento di spesa in beni e servizi – la componente di spesa in cui siamo più carenti rispetto alla media europea - potrebbe verificarsi a partire dai prossimi anni, se il governo desse seguito alla legge delega per il sostegno e la valorizzazione della famiglia, il cd. family act (legge n. 32/2022).[8] Tuttavia, il nuovo governo non è obbligato ad esercitare la delega e, anche alla luce degli stringenti vincoli di bilancio, non è chiaro quali di queste misure potranno essere attuate. Per ora, non ci sarà spazio per le misure del family act. La spesa per famiglia e figli – come definita negli aggregati europei - verrà incrementata in Legge di Bilancio aumentando nuovamente i benefici in denaro e non in beni e servizi. Le misure pianificate per il 2023 sono:

  • L’aumento dell’importo dell’AUU del 50 per cento per il primo anno di vita del bambino (per tutti) e di un ulteriore 50 per cento per le famiglie con tre o più figli, per tre anni.[9]
  • L’estensione del congedo parentale facoltativo di un mese per le madri con figli di età inferiore ai sei anni, con un aumento dell’indennità, che passerebbe dal 30 all’80 per cento per un mese.[10]

[1] Questa correlazione negativa è documentata in molti studi teorici, fra cui Caldwell (1976), Bongaarts (2008) e Anderson and Kohler (2015). In letteratura economica si sono diffuse varie teorie. La più popolare sostiene che al crescere della ricchezza, le famiglie hanno aumentato la spesa media per figlio diminuendo il numero di figli, al fine di aumentare la qualità della vita della prole (Becker 1981; Becker et. al 1990).

[2] Si veda una precedente nota OCPI: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-quali-fattori-incidono-sulla-scelta-di-avere-figli

[3] Si veda: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Glossary:Fiscal_benefits

[4] Si veda: https://www.mef.gov.it/focus/LAssegno-unico-e-universale-per-i-figli/.

[5]La media Europea è ponderata per il Pil.

[6] Si veda: https://www.upbilancio.it/wp-content/uploads/2022/03/Focus_3-Ass_unico.pdf

[7] Le detrazioni IRPEF per figli a carico sono state abolite a partire da marzo 2022 e le risorse derivanti dall’abolizione andranno a finanziare l’AUU. Ciò comporterà una nuova classificazione delle risorse, che invece di essere un beneficio fiscale verranno classificate come spesa.

[8] La legge stabilisce che il governo debba esercitare le deleghe per “l’adozione, il riordino e il potenziamento di disposizioni volte a sostenere la genitorialità e la funzione sociale ed educativa delle famiglie, per contrastare la denatalità, per valorizzare la crescita armoniosa e inclusiva dei bambini e dei giovani nonché per favorire la conciliazione della vita familiare con il lavoro di entrambi i genitori e sostenere, in particolare, quello femminile.”

[9] Si veda: https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-5/21051

[10] In caso ambo i genitori lavorino e il bambino abbia meno di 12 anni, il periodo complessivo di congedo è pari a 10 mesi da dividere fra i due genitori, retribuiti con un’indennità del 30 per cento dello stipendio. Questo aumento previsto in Legge di Bilancio interessa invece solo le lavoratrici.  

Un articolo di

Cristina Orlando

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