
Welfare
La spesa pubblica per la famiglia
Il numero medio di figli per donna nei paesi dell’Europa occidentale è diminuito da 2,8 nel 1960 a 1,6 negli anni Novanta. Negli ultimi trent’anni, la situazione è rimasta stabile.
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Intermedio
26 maggio 2022
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Riportiamo di seguito l'Audizione del 26 maggio 2022 di Carlo Cottarelli presentata alla Commissione parlamentare per il controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale.
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Ringrazio il Presidente Nannicini e tutta la Commissione per avermi invitato a parlare di un tema di notevole importanza per il futuro delle prestazioni sanitarie e previdenziali nel nostro paese. Il contesto, come è noto, è quello di potenti forze demografiche che aumenteranno la richiesta di servizi sanitari e di previdenza, richiesta che per ora è stata soddisfatta prevalentemente dal settore pubblico. La questione del ruolo che può svolgere il settore privato tramite i fondi o le assicurazioni per soddisfare questi bisogni, come avviene in misura più rilevante in molti paesi, anche europei, è quindi molto importante.
Faccio una doverosa premessa. Io credo che, sia in campo pensionistico che in campo sanitario, l’Italia non abbia bisogno di cambiamenti fondamentali (qualcuno direbbe “paradigmatici”, usando un termine molto in voga) nella struttura della fornitura di servizi sociali. Penso che un primo e forte pilastro pubblico rimanga del tutto appropriato.
In campo sanitario, le organizzazioni internazionali (l’OCSE tra le altre) hanno più volte indicato come l’assetto attuale, caratterizzato dal finanziamento centralizzato della sanità prevalentemente attraverso la fiscalità generale e dalla gestione a livello regionale dei servizi sanitari sotto il vincolo della fornitura di certi livelli essenziali di assistenza abbia, nel tempo, assicurato servizi mediamente validi a un costo non eccessivo. Certo, attualmente i vincoli di bilancio, data la difficoltà o mancanza di volontà nel comprimere altri tipi di spesa o nell’aumentare le entrate pubbliche, hanno comportato un livello di spesa rispetto al Pil tra i più bassi in Europa Occidentale, almeno prima del Covid. Certo, anche in sanità esistono inefficienze (basta pensare all’incompleta riforma degli acquisti di prodotti sanitari). Certo, la qualità delle prestazioni in certe regioni resta inadeguata. Ma, nel complesso, non vedo motivi di cambiare radicalmente l’approccio attuale nella struttura del Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta di migliorarlo, non di stravolgerlo.
In campo previdenziale, sappiamo che la sfida principale è costituita dall’invecchiamento della popolazione e dal conseguente tendenziale crescente squilibrio tra il numero dei lavoratori e quello dei pensionati. Queste forze sono molto potenti e la soluzione del problema richiede inevitabilmente un prolungamento della vita lavorativa e riforme per aumentare la partecipazione al mondo del lavoro, la riduzione della disoccupazione, la crescita della produttività e un flusso migratorio regolare. Questo indipendentemente dal fatto che le fonti di finanziamento siano pubbliche o private (tornerò nel seguito sull’argomento).
Ciò detto, il ruolo che il settore privato svolge nella fornitura di un secondo pilastro alla fornitura di servizi sanitari e previdenziali resta più piccolo nel nostro paese di quanto avviene nei paesi avanzati europei (per non parlare dei paesi avanzati extraeuropei) e vale la pena di chiedersi se questo ruolo non debba essere aumentato e come.
Iniziamo dai fondi integrativi sanitari a cui dedicherò, come richiesto, uno spazio maggiore.
Una precisazione di contesto. La spesa sanitaria dei paesi avanzati è aumentata più rapidamente del Pil dagli anni ’60 fino al primo decennio del secolo corrente. Successivamente il rapporto tra spesa e Pil è rimasto abbastanza stabile (in Italia si è ridotto). Questo ha fatto pensare che quelle forze che in passato avevano portato a un aumento del rapporto (tra le principali l’invecchiamento della popolazione, ma, ancora di più, il progresso tecnologico che rendeva disponibili cure migliori, ma più costose) avessero cessato di operare. In realtà, la stasi del rapporto tra spesa sanitaria e Pil avviene dopo un balzo particolarmente forte tra il 2007 e il 2009, in occasione della crisi economica globale che aveva portato a una riduzione del Pil. È quindi probabile che, al di là del balzo che la spesa sanitaria ha avuto per effetto del Covid, invecchiamento della popolazione e progresso tecnico portino a nuove pressioni sull’aumento del rapporto tra spesa sanitaria e Pil, comprese per aree che diverranno sempre più critiche e che sono ancora relativamente poco sviluppate, soprattutto in Europa (con qualche eccezione) come la long term care.
La domanda è se questo aumento debba essere fronteggiato attraverso un aumento della tassazione e della spesa pubblica o attraverso forme di assicurazione privata che vadano al di là di un certo minimo garantito fornito dal settore pubblico.
Con questa premessa guardiamo al caso italiano del ruolo dei fondi sanitari integrativi. Sappiamo che il termine “integrativi” è di per sé fuorviante perché la stragrande maggioranza dei fondi sanitari esistenti non offre semplicemente servizi che integrano quelli forniti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), ma sono sostitutivi del SSN, visto che forniscono servizi in alternativa a quest’ultimo. Ci sono solo 9 fondi sanitari veramente integrativi (ex D Lgs 502/1992) contro oltre 300 enti, casse e società mutuo soccorso (ex DM del 2009, il cosiddetto decreto Sacconi) che offrono anche servizi sanitari simili a quelli forniti dal SSN (molti sono offerti dalle casse professionali o sono rivolti ai dipendenti di grandi aziende).
Che ci sia una domanda di servizi sanitari al di là di quelli forniti dal SSN è confermato dall’elevata spesa out of pocket degli italiani: 36 miliardi nel 2019, ossia oltre il 23 per cento della spesa sanitaria complessiva pubblica e privata. Questa spesa suggerisce che i tempi di attesa del SSN, se non la qualità del servizio fornito, siano tali che molti italiani che ne hanno la possibilità preferiscono richiedere servizi al di fuori del SSN. Ma lo fanno in gran parte senza una forma di assicurazione: la spesa intermediata dagli enti della sanità integrativa (in senso lato, come spiegato) è poco più di 4 miliardi (2,8 per cento del totale), anche se in forte crescita negli ultimi anni (48 per cento tra il 2013 e il 2019).
Il fatto che questo sia un livello molto basso è confermato dal confronto con gli altri paesi europei. Tra i principali 31 paesi europei, l’Italia nel 2019 era al diciottesimo posto in termini di quota della spesa sanitaria totale finanziata attraverso i fondi sanitari.
Perché il ruolo dei fondi integrativi non è più elevato in Italia?
Un ostacolo che si pone all’assicurazione sanitaria in presenza di un sistema pubblico è che per rischi (e corrispondenti disborsi) piccoli non vale la pena di assicurarsi (e quindi se non si vuole ricorrere al SSN, si paga direttamente), mentre per rischi grandi (un incidente automobilistico, una seria operazione) ci pensa il sistema pubblico. Spese piccole (dovute a visite mediche di routine, o piccoli problemi sanitari, per esempio) possono essere affrontate direttamente senza dover ricorrere a un’assicurazione. E per eventi eccezionali e catastrofici si può utilizzare il settore pubblico.
Questo non è ovviamente un deterrente assoluto, ma è un disincentivo che opera in tutti i paesi, ma il cui impatto agisce diversamente a seconda della qualità del sistema pubblico in caso di eventi eccezionali, soprattutto se urgenti, che, nel nostro caso, è mediamente elevata a giudizio delle organizzazioni internazionali.
Volendo spingere i cittadini italiani a incrementare l’utilizzo della sanità integrativa cosa si può fare?
Ci sono cose che riguardano la trasparenza del sistema, come già ricordato in una precedente audizione presso questa Commissione da parte dell’IVASS, audizione in cui si ricordava che di circa 20.000 reclami presentati all’IVASS ogni anno la maggior parte riguardava questioni di trasparenza. La limitata trasparenza comporta incertezza sul numero e sulla qualità delle prestazioni previste, difficoltà nel confrontare prestazioni offerte da diversi enti e, in ultima analisi, disparità nelle condizioni di esercizio dell’offerta. Tra le varie iniziative, l’introduzione di un “nomenclatore” unico sarebbe appropriata. In generale, una maggiore trasparenza e comparabilità aumenterebbe il grado di concorrenza tra diversi fornitori di servizi di assicurazione sanitaria a beneficio dell’utente finale.
Un’altra questione riguarda la mancanza di un regolatore unico, anche se esiste un Anagrafe ed esistono le linee guida del MEFOP (la società costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze, per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione) che però non sono vincolanti. L’IVASS copre l’attività delle assicurazioni, il MISE copre le società di mutuo soccorso. Si potrebbe considerare la costituzione di un regolatore unico per quest’area che definisca comuni regole di funzionamento, di collocamento dei prodotti e di solidità tecnico-patrimoniale.
Una questione riguarda gli incentivi fiscali per promuovere i fondi sanitari. Già esistono agevolazioni: i contributi pagati sono deducibili sia per i fondi integrativi veri e propri sia per i fondi che offrono servizi alternativi a quelli forniti dal SSN. Però la deducibilità, per questi ultimi, vale solo per i lavoratori dipendenti e i pensionati e questa difformità di trattamento potrebbe essere rimossa. Al di là di questo, la questione politica è quella di valutare se i limitati fondi disponibili debbano essere utilizzati per potenziare il SSN oppure per incentivare ulteriormente lo sviluppo di fondi integrativi. La risposta la si può trovare solo nel ruolo che si vuole dare alla responsabilità personale del cittadino rispetto alla responsabilità collettiva. Come ho detto è una scelta politica sulla quale le visioni possono differire. Inutile cercare in proposito una risposta tecnica.
Il sistema previdenziale italiano è, come noto, centrato sulla previdenza pubblica. La parte non pubblica (o quasi) è rappresentata principalmente dalla casse professionali, che hanno un ruolo sostitutivo e non complementare al servizio fornito dal settore pubblico. Un ruolo relativamente più limitato è invece svolto dalla vera e propria previdenza integrativa, ossia dal secondo pilastro volontario (siamo ultimi o tra gli ultimi nella classifica dei paesi OCSE).
Tendenzialmente, viste le difficoltà con cui il settore pubblico fronteggia il problema demografico (difficoltà che comportano la progressiva riduzione della generosità delle pensioni pubbliche), sono molti a pensare che la soluzione sia l’ampliamento della previdenza integrativa. Tale sviluppo avrebbe il vantaggio di responsabilizzare maggiormente i lavoratori relativamente alle scelte sul tenore di vita che, al di là delle risorse fornite dallo stato, vogliono mantenere una volta cessata l’attività lavorativa rispetto al tenore di vita mantenuto come lavoratori.
Agevolazioni fiscali possono essere utilizzate a tale scopo, sempre tenendo presente che possono esistere usi alternativi di tali fondi (c’è sempre un vincolo di bilancio). La delega fiscale in discussione in parlamento sarà un’occasione per riconsiderare le attuali agevolazioni.
Vorrei sottolineare qui un punto che però sfugge talvolta nel dibattito tra i sostenitori di un sistema pensionistico pubblico che fissa i benefici in base a una certa formula (un sistema “defined benefit"), con finanziamenti che derivano da contributi pagati dai lavoratori correnti eventualmente integrati da trasferimenti dallo stato (nella terminologia anglosassone un sistema PAY-AS-YOU-GO), rispetto a un sistema privato in cui il livello delle pensioni è determinato sulla base del rendimento derivante dall’investimento di fondi (un sistema “defined contributions” e a capitalizzazione), come quello spesso offerto dalla previdenza integrativa.
Il punto che vorrei fare è che, per lo meno come prima approssimazione e per una economia chiusa, il problema dell’invecchiamento della popolazione rimane serio indipendentemente dal fatto che il sistema pensionistico sia defined benefit e PAY-AS-YOU-GO o sia basato sull’investimento di fondi privati sui mercati finanziari come avviene con la previdenza integrativa. Il motivo per questa equivalenza è che, col crescere del numero dei pensionati rispetto al numero dei lavoratori, anche un sistema a capitalizzazione risente del fatto che un numero di risorse inferiore viene reso disponibile dal calante numero dei lavoratori correnti per “alimentare” il crescente numero dei pensionati. Questo problema non viene risolto dal fatto che, in virtù dei loro investimenti finanziari, i pensionati avranno maturato un diritto a una maggiore quota del prodotto. Se i lavoratori non sono disposti ad accettare una minore quota del reddito, ci penserà l’inflazione (derivante dall’eccesso di domanda sulle risorse prodotte) a ridurre il valore delle attività finanziarie accumulate dai pensionati in termini reali.
Un’eccezione a questa conclusione si ha se l’aumento delle pensioni integrative porta a un aumento del risparmio complessivo dell’economia, degli investimenti e, quindi, della produttività del calante numero dei lavoratori. Con una maggiore produttività, per dato rapporto tra numero di lavoratori e numero di pensionati, il prodotto complessivo aumenta e quindi risultano disponibili più risorse per garantire pensioni più elevate ai pensionati senza tagliare le risorse disponibili per i lavoratori. Il problema è che è limitata e poco conclusiva l’evidenza empirica sul fatto che un aumento della quota di pensioni a capitalizzazione porti a un aumento del risparmio aggregato, piuttosto che a una redistribuzione del risparmio tra diversi strumenti finanziari.
Quindi, ben vengano misure per incentivare i fondi integrativi come elemento di responsabilizzazione, ma occorre sperare che queste misure portino a un aumento del risparmio complessivo, del capitale e della produttività, senza il quale il problema dell’invecchiamento della popolazione rimarrebbe irrisolto.