Università Cattolica del Sacro Cuore

Commissioni congiunte V (Bilancio, Tesoro e programmazione) della Camera dei Deputati e 5° (Bilancio) del Senato della Repubblica

Memoria sulla manovra economica per il triennio 2020-2022

dell'Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani

12 novembre 2019

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Ringraziamo le Commissioni Bilancio della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica per l’opportunità offerta all’Osservatorio di commentare la manovra economica per il triennio 2020-2022.

È opportuno considerare le specifiche misure incluse in questa Legge di Bilancio nel quadro complessivo di finanza pubblica che ne emerge. Commenteremo poi alcuni aspetti specifici della manovra per il 2020 e gli anni seguenti.

Il quadro complessivo di finanza pubblica

Il quadro di finanza pubblica è, nel complesso, simile a quello degli anni scorsi. Nel commentare la manovra (inclusiva della Legge di Bilancio e del decreto fiscale 124/19) abbiamo usato pubblicamente il termine “legge di galleggiamento”, termine che è stato visto come una critica, come l’indicazione di una mancanza di direzione e di ambizione. Ma il termine assume anche un significato positivo rispetto a politiche più rischiose che avrebbero potuto comportare un forte aumento del deficit pubblico e una ripetizione dello scenario da aumento dello spread e rischio di uscita dall’euro che aveva caratterizzato gli ultimi trimestri del 2018 e alcuni mesi del 2019. Questa Legge di Bilancio rimuove il rischio di questi scenari ed è stata per questo premiata dai mercati con un calo dello spread.

Inoltre, a differenza dell’anno scorso, la manovra non dovrebbe creare problemi significativi in termini di rispetto delle regole europee. Molti hanno sostenuto che la Commissione potrebbe usare “due pesi e due misure” nel valutare la Legge di Bilancio di questo governo rispetto alla severità mostrata rispetto al governo precedente. C’è chi nota, in particolare, che un deficit del 2,2 per cento del Pil per le pubbliche amministrazioni nel 2020 è solo di poco inferiore al deficit del 2,4 per cento del Pil che fu “bocciato” l’anno scorso dalla Commissione.[1] Una tale valutazione non tiene conto delle caratteristiche delle regole fiscali europee. Per queste, infatti, risulta essenziale la variazione del deficit strutturale rispetto all’anno precedente e come tale variazione si discosti dalla variazione raccomandata dalle istituzioni europee. L’anno scorso tale scostamento era pari all’1,5 per cento del Pil, ben al di là dei margini di flessibilità definiti dalle regole europee. Quest’anno lo scostamento è di poco più di mezzo punto percentuale secondo le stime del governo e dello 0,9 per cento secondo le stime della Commissione, contro margini di flessibilità previsti dalle regole europee che potrebbero facilmente arrivare ad almeno lo 0,7 per cento.

Ciò detto, se la Legge di Bilancio non cambia in peggio i conti pubblici, non li cambia neppure in meglio, né definisce una chiara strategia di crescita.

Riguardo alla tenuta dei conti pubblici, sottolineiamo che:

  • il deficit resta invariato nel 2020 al 2,2% rispetto a quanto previsto quest’anno e scende solo lentamente negli anni seguenti.
  • il debito pubblico è previsto calare solo di poco nel 2020 e anche questo piccolo calo dipende da fattori molto incerti come la realizzazione delle entrate da privatizzazione e un rilevante aumento dell’inflazione. L’aumento dell’inflazione è cruciale nello spiegare la discesa in territorio negativo del differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita del Pil e la conseguente maggiore discesa del rapporto di debito nel 2021-22. Sono anni che i documenti di bilancio prevedono tale discesa, che per ora non si è mai verificata perché l’inflazione è sempre risultata inferiore al previsto. Ciò non è del tutto casuale sia per la persistente difficoltà a livello europeo nel portare l’inflazione più vicina al 2 per cento, sia perché l’Italia non ha ancora recuperato i margini di competitività di costo - come segnalati dall’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto- che aveva al momento dell’entrata nell’euro: le imprese tendono perciò a comprimere costi e prezzi per recuperare competitività e quote di mercato. Secondo le stime della Commissione, il debito pubblico aumenta in rapporto al Pil dal 136,2 per cento del 2019 al 136,8 per cento nel 2020 e al 137,4 per cento nel 2021.[2]
  • L’avanzo primario è previsto ridursi ulteriormente, raggiungendo l’1,1 per cento del Pil, il livello più basso dal 2010. In questa situazione, la tenuta dei conti pubblici è legata alla permanenza di tassi di interesse bassi e di un adeguato livello di crescita in Europa. In assenza di queste condizioni, partendo da un avanzo primario di poco superiore all’1 per cento, il materializzarsi di shock esterni ai tassi di interesse e di crescita causerebbe un aumento significativo del rapporto tra debito pubblico e Pil, aumento che potrebbe provocare una crisi di fiducia e una impennata dello spread. Conseguentemente, restiamo esposti, anzi un po’ più esposti visto il nuovo calo dell’avanzo primario, a shock esterni.

Guardando agli aspetti positivi, la manovra ha disattivato le clausole di salvaguardia per il 2020 che il governo Conte I, dopo aver disattivato in deficit quelle lasciate dal governo Gentiloni, aveva introdotto per finanziare l’aumento della spesa nel 2020 (in particolare, il pieno effetto di Quota 100 e del reddito di cittadinanza). Peraltro, all’annullamento delle clausole di salvaguardia per il 2020 ha contribuito la decisione presa dal governo precedente nel luglio del 2019 di introdurre un pacchetto di risparmi per migliorare, rispetto al quadro del DEF dell’aprile 2019, i conti pubblici non solo nell’anno in corso, ma anche nel 2020. Ciò detto, le clausole di salvaguardia sono state solo ridotte di un terzo per il 2021 e intaccate marginalmente per il 2022.

Con un deficit invariato rispetto all’anno scorso, l’impatto della Legge di Bilancio sulla crescita di breve periodo rispetto al 2019 risulta modesto e legato a possibili differenze tra i moltiplicatori applicati alle diverse misure. Non crediamo si potesse fare di più, visto il nostro elevato debito pubblico e, anzi, come già notato, aumenti del deficit sarebbero probabilmente stati controproducenti.

Cosa fa la manovra per rilanciare la crescita dal punto di vista strutturale? Poco. Una strategia, generalmente associata a visioni “di sinistra” del funzionamento dell’economia, avrebbe comportato un aumento della dimensione del bilancio pubblico, ossia un aumento delle spese e delle entrate. Un’altra strategia, generalmente associata a visioni “di destra”, avrebbe comportato una riduzione della tassazione finanziata da una riduzione delle spese. La Legge di Bilancio non fa né l’uno n’è l’altro: nel 2020 c’è solo un piccolo aumento del rapporto tra spesa primaria e Pil, compensato da una riduzione nella spesa per interessi. Alcune misure, di entità peraltro limitata, possono però essere utili per il sostegno degli investimenti, compresi quelli necessari per affrontare la sfida della trasformazione digitale delle nostre aziende (super ammortamento e iper ammortamento). Anche il taglio del cuneo fiscale, che nel 2020 corrisponde più o meno alle entrate da riduzione dell’evasione fiscale, è utile alla crescita di lungo periodo, ma risulta per il momento piuttosto modesto.

La pressione fiscale, secondo le nostre stime, aumenta solo leggermente (dello 0,1 per cento del Pil) rispetto al 2019. Gli aumenti di tasse previsti sono pari a 8 miliardi, cui fanno riscontro riduzioni per 3,7 miliardi, dovute principalmente al calo del cuneo fiscale a favore dei lavoratori dipendenti. Le due cifre comporterebbero un aumento della pressione fiscale superiore allo 0,1 per cento, ma l’aumento della pressione fiscale è minore perché compensato dalla riduzione della pressione fiscale – al netto dell’IVA -presente nelle stime del tendenziale. Il leggero aumento della pressione fiscale nel quadro programmatico include il recupero dell’evasione, stimato in circa 3 miliardi. La pressione fiscale sul complesso di coloro che adempiono regolarmente ai loro doveri fiscali rimane quindi all’incirca invariata. La composizione del carico tributario cambia marginalmente a sfavore delle partite IVA e a favore dei lavoratori dipendenti.

Misure fiscali

Il governo prevede entrate per 3,1 miliardi dalla lotta all’evasione fiscale, in forte calo rispetto alla cifra inclusa nel Documento Programmatico di Bilancio (oltre 7 miliardi), cifra che era difficilmente realizzabile in un singolo anno. La nuova previsione, pari a meno dello 0,2 per cento del Pil, è più realistica, anche tenendo conto dell’effetto ritardato dell’introduzione della fatturazione elettronica che quest’anno sta dando buoni risultati. Il problema dell’evasione rimane molto serio. La relazione Giovannini stima un’evasione di 109 miliardi nel 2016, senza variazioni rilevanti nel 2017. Ricordiamo che la relazione Giovannini non considera tutte le tasse e i tributi: esclude in particolare l’evasione sui contributi sociali dei lavoratori autonomi. Tenendo conto delle poste escluse, una stima più completa fatta dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani arriva a una evasione di almeno 130 miliardi.[3] È quindi senz’altro apprezzabile la decisione del governo di considerare come una priorità la lotta all’evasione. A questo scopo, è previsto un insieme di misure tra cui quelle relative al contrasto delle compensazioni indebite e alle frodi nel settore del carburante e delle auto. In aggiunta, e senza una specifica previsione di recupero, sono anche previste misure che hanno attratto molta attenzione nel dibattito pubblico, tra cui un abbassamento del tetto ai pagamenti in contante e misure per estendere l’uso dei mezzi di pagamento elettronici. Bene ha fatto il governo a non prevedere un gettito specifico da tali misure vista l’incertezza sulla loro efficacia immediata. Tuttavia, queste misure possono contribuire nel medio periodo all’aumento nella tracciabilità dei pagamenti e non comportano un pesante aggravio né per i consumatori (non si tratta certo di un’abolizione del contante), né per commercianti e professionisti. Facilitazioni all’uso della carta di credito e strumenti simili hanno avuto successo in altri paesi, per esempio la Corea, nel ridurre l’evasione e rappresentano comunque uno spostamento verso strumenti di pagamento più efficienti; va peraltro riconosciuto che il costo di 3 miliardi iscritto in Legge di Bilancio alla voce cashback rappresenta una cifra piuttosto elevata.[4] È anche previsto un inasprimento nelle pene per i grandi evasori. Non è chiaro quante persone siano detenute in Italia principalmente per evasione fiscale: i dati del ministero indicano 400 persone, ma non è chiaro se si tratta del reato principale.[5] Negli Stati Uniti le persone in carcere per evasione fiscale sono qualche centinaio.[6] Detto questo, è chiaro che la lotta all’evasione deve puntare più alla prevenzione che alla repressione. Come nel caso della corruzione, occorre sviluppare una cultura del rispetto delle regole, comprese quelle fiscali. Ma è anche vero che un inasprimento delle pene agisce comunque come segnale per sottolineare che i reati di evasione fiscale sono gravi, il che contribuisce a costruire questa cultura del rispetto delle regole.

Fra i punti più controversi della manovra ci sono quelle che, con infelice terminologia, sono state definite micro tasse. In particolare sono oggetto di confronto e possibili emendamenti la plastic tax (con un gettito previsto per il 2020 di 1.079 milioni), la sugar tax (gettito previsto pari a 234 milioni), la riduzione dei fringe benefits sulle auto aziendali (332 milioni), la limitazione delle detrazioni fiscali per i redditi alti (62 milioni a regime), la revisione dei limiti di accesso al regime forfettario del 15 per cento per le partite IVA (99 milioni per il 2020, ma ben 894 milioni nel 2021). Non entriamo qui nel merito di ciascuna di queste imposte. Formuliamo però due osservazioni di carattere generale.

La prima è che, a nostro avviso, questo paese ha bisogno di una riduzione della pressione fiscale. La riduzione deve essere compatibile con lo stato dei conti pubblici, quindi non può che essere graduale e finanziata attraverso il contenimento della spesa pubblica. Questo è necessario anche perché sia percepita dai contribuenti come credibile nel medio termine.

La seconda osservazione è che, anche in una visione liberale della società e dell’economia, c’è spazio per imposte che si propongono di modificare i comportamenti dei diversi soggetti. Tali imposte (che gli economisti definiscono “pigouviane”, dal nome dell’economista inglese Arthur Pigou che ne scrisse negli anni venti dello scorso secolo) sono giustificate quando vi siano esternalità negative (cioè effetti su altri soggetti diversi dal consumatore o produttore) connesse al consumo o alla produzione di determinati beni. Il caso tipico è quello di produzioni che inquinano e infatti in quasi tutti i paesi ci sono imposte su tali produzioni e sul loro consumo. La critica a queste tasse, mossa da parte dei difensori del libero mercato - ad esempio Friedrich Hayek -, non riguarda il principio in sé, ma il fatto che raramente il governo sa valutare il rilievo delle esternalità negative e tradurlo in valore monetario. Non è vero neanche ciò che è stato detto in questi giorni, cioè che la tassa dovrebbe prevedere un gettito pari a zero in quanto dovrebbe eliminare la base imponibile dell’imposta. In linea di principio, la tassa dovrebbe solo ridurre la produzione di un determinato bene fino al punto in cui il suo prezzo è uguale al suo costo marginale sociale, anziché a quello privato.

Queste considerazioni giustificano in linea di principio la tassa sulla plastica monouso e anche quella sul contenuto di zucchero delle bevande gassate (imposte che esistono o sono oggetto di discussione in quasi tutti i paesi); la seconda è giustificata anche dai costi che l’obesità ha per il servizio sanitario. In ogni caso, nella loro attuazione occorrono gradualità e attenzione ai loro effetti sui comparti industriali che vengono colpiti e dunque sull’occupazione. Detto questo, esiste anche la necessità di evitare un proliferare di imposte e tasse perché tale proliferazione rende ingestibile il sistema fiscale e facilita l’evasione. Purtroppo in Italia abbiamo già una pletora di tasse e contributi. L’Istat nei Conti economici nazionali ne elenca 107. Quindi, se c’è la necessità di aggiungere tasse per colpire le esternalità, sarebbe utile considerare l’abolizione o l’accorpamento di altre tasse.

Il governo interviene (di nuovo) anche sul settore del gioco d’azzardo, prevedendo maggiori entrate per circa 1 miliardo all’anno nel prossimo triennio. Le due misure principali sono l’aumento del PREU (prelievo erariale unico) sull’ammontare giocato alle slot machine e videolottery, che vale circa 500 milioni all’anno, e l’aumento del prelievo sulle vincite delle videolottery e delle lotterie (circa 300 milioni all’anno). Come avevamo già evidenziato nei mesi scorsi in un nostro studio sul tema, nonostante la rivendicazione politica di voler “colpire” i concessionari del gioco d’azzardo, è probabile che alla fine il peso di questi interventi ricada sui giocatori.[7] Nel caso di un aumento delle imposte sulle vincite, come quello previsto dalla Legge di Bilancio, l’aliquota viene applicata direttamente sui montepremi ed è quindi interamente a carico dei giocatori. Nel caso di un aumento delle imposte sull’ammontare giocato, come il PREU, la maggiore tassazione colpisce formalmente le imprese del settore, ma la legge consente al momento di ridurre la probabilità di vincita dei giocatori (il cd. payout) scaricando almeno in parte sui consumatori finali il peso dell’aumento dell’aliquota – uno scenario evocato anche dalla stessa relazione tecnica al decreto fiscale. Fare cassa aumentando le imposte sui giochi non è certo una novità di quest’ultima manovra, ma è opportuno sottolineare che l’insieme di questi interventi potrebbe colpire soprattutto i giocatori, compresi quelli che non ridurranno la loro propensione al gioco perché affetti da forme gravi di dipendenza.

Nel valutare le modifiche alla pressione fiscale, occorre tenere conto, oltre che della componente legata al contrasto all’evasione, anche di alcune voci che pur entrando formalmente a far parte della pressione fiscale hanno natura del tutto particolare. Ci riferiamo alle misure relative alla rivalutazione dei valori di terreni e partecipazioni (842 milioni nel 2020) e al blocco di alcune deduzioni per le banche (1.644 milioni). La prima di queste due misure consente di rivalutare terreni e partecipazioni non quotate versando l’11 per cento della plusvalenza teorica: questa è un’entrata per il bilancio dello Stato, ma è un vantaggio per il contribuente – tant’è che è opzionale – in quanto consente di rivalutare dei beni che altrimenti, se non altro per l’effetto dell’inflazione, alla lunga diventerebbero pressoché inalienabili. Per quanto riguarda le misure sulle banche, si tratta di norme che non eliminano le deduzioni, ma le dilazionano nel tempo. Ciò significa che nel bilancio dello Stato viene contabilizzato un maggiore gettito perché nel primo anno le banche devono versare maggiori imposte; negli anni successivi, però, vi sarà un minore gettito perché i crediti verso lo Stato rimangono nel bilancio delle banche. Si tratta dunque di norme che nella sostanza sono una tantum o comunque hanno carattere di transitorietà. Ciò non toglie che gli effetti sulla liquidità delle banche possano essere significativi.

Misure sulla spesa pubblica

Le misure sul lato della spesa sono nel complesso abbastanza modeste, sia quelle in aumento che quelle in riduzione.

Come negli anni precedenti, le misure di revisione della spesa (circa 2,3 miliardi) sono limitate a tagli negli stanziamenti dei ministeri e non sono collegate a riforme strutturali. Si tratta quindi di “stringere la cinghia” più che di eliminare programmi di spesa sulla base di analisi della loro efficacia. L’art. 72 della Legge di Bilancio ha come finalità non tanto l’efficientamento della spesa quanto il suo contenimento. Viene infatti previsto che, per alcune voci di spesa, i futuri stanziamenti non possano eccedere un determinato livello di spesa parametrato a quanto speso nei precedenti esercizi. In proposito, al fine di razionalizzare la spesa, sarebbe importante anche sviluppare una cultura di valutazione dei programmi di spesa che ancora non esiste. Per esempio, l’efficacia dei “bonus” introdotti negli ultimi anni non è mai stata valutata e, cosa anche peggiore, non si è pensato a raccogliere le informazioni che servirebbero a tale valutazione (per esempio, gli acquisti effettivamente fatti con il “bonus cultura”). Più in generale, occorre far ripartire, come sembra sia intenzione del governo, un’azione di revisione della spesa più strutturata e orientata al medio periodo. C’è certamente spazio, per esempio, per rendere più efficiente la spesa per acquisti di beni e servizi, la cui riforma, iniziata nel 2014, non è stata portata avanti con sufficiente energia dopo il 2015. A tale proposito interviene l’art. 71 della Legge di Bilancio che mira a una maggiore centralizzazione e trasparenza degli acquisti della pubblica amministrazione. In particolare, attraverso l’obbligo di acquisizione centralizzata per alcune categorie di merci attraverso Consip e le centrali regionali di riferimento per gli acquisti si mira anche a una riduzione dei costi tramite la possibilità di acquistare a prezzi più bassi rispetto al prezzo medio ottenuto dalla PA mediante acquisti autonomi. Si stimano potenziali risparmi per 400 milioni nel triennio 2020-22 che non vengono però inclusi negli effetti finanziari in quanto quantificabili solo a consuntivo.

È stato suggerito da alcuni che sarebbe appropriato abolire per il 2020-21 Quota 100. Abbiamo più volte criticato Quota 100, per il suo effetto negativo sull’equità intergenerazionale e per l’ulteriore aumento del rapporto tra spesa per pensioni e Pil. Ciò detto, il risparmio che si verificherebbe da tale abolizione è limitato (al netto della perdita di entrate da tassazione sulle pensioni) a circa 400-850 milioni nel 2020, perché la maggior parte dei pensionamenti con Quota 100 era previsto nel 2019.[8] Inoltre, tale abolizione sul finire del 2019 porterebbe a un cambiamento repentino dell’età di pensionamento rispetto alle aspettative, con il possibile ripetersi del fenomeno degli “esodati”. Più che revocare questa riforma, occorre invece che il governo prenda una posizione chiara su quello che accadrà al termine dei tre anni per i quali Quota 100 era stata introdotta. Se, da un lato, il suo mancato rinnovo creerebbe un ben noto “scalone”, dall’altro tale scalone non causerebbe un peggioramento delle condizioni di pensionamento rispetto alla situazione precedente Quota 100. Sarebbe quindi inappropriato considerare inevitabile una uscita graduale da Quota 100. In altri termini, il fatto che alcuni lavoratori hanno beneficiato di un trattamento di favore attraverso il pensionamento con Quota 100 non deve comportare che tale trattamento di favore debba essere esteso ad altri, evitando così un ulteriore appesantimento della nostra spesa pensionistica.

Riguardo agli aumenti di spesa, ci limitiamo alle seguenti considerazioni:

  • Spese per la famiglia: il calo demografico è un problema serissimo per l’economia italiana, con riflessi negativi per la crescita del Pil potenziale (anche attraverso una minore crescita della produttività) e per le finanze pubbliche. Le misure considerate (il “Fondo famiglia”) sono di portata limitata. Ma il problema fondamentale è che, per avere effetto, misure in quest’area devono essere percepite come stabili perché parte di una strategia di medio-lungo termine.[9] È improbabile che interventi occasionali, spesso decisi nell’urgenza della definizione delle leggi di bilancio, abbiano un effetto significativo sulle decisioni familiari.
  • Un problema di precarietà negli interventi emerge anche per i sussidi all’innovazione. Nel caso specifico, sarebbe appropriato rifinanziare il programma Industria 4.0 per un periodo prolungato e non, come attualmente previsto, per solo un anno. Da questo punto di vista, va valutata positivamente la decisione presa (sul lato della tassazione) di prorogare le misure a favore del super e iper ammortamento al 2021 e 2022.
  • L’abolizione del superticket non trova una chiara giustificazione. Il superticket, per effetto di decisioni prese dalle varie regioni, non veniva comunque a gravare su individui e famiglie con redditi bassi. L’uso di strumenti di compartecipazione, per i redditi medi e medio-alti, fornisce risorse che possono utilmente essere usate per rafforzare il sistema sanitario e ridurre il rischio di una domanda di servizi sanitari non effettivamente necessari.[10]

Un’ultima annotazione riguarda l’assenza di un piano di maggiori stanziamenti per la pubblica istruzione. Studi econometrici indicano che la spesa per pubblica istruzione è la forma di spesa più correlata alla crescita di lungo termine di un’economia, oltre che essere essenziale a garantire a tutti un punto di partenza adeguato nello sviluppo economico e sociale. Al contrario, la spesa per pubblica istruzione è stata nell’ultimo decennio sacrificata rispetto ad altre esigenze di spesa, soprattutto per quanto riguarda la spesa universitaria, per la quale siamo attualmente all’ultimo posto in Europa anche in termini di spesa pro capite per i giovani in età universitaria.[11]

 

[1] Tutti i dati riportati nel testo per deficit, avanzo primario e pressione fiscale si riferiscono alle pubbliche amministrazioni e sono basati sul Documento Programmatico di Bilancio dell’ottobre 2019.

[2] Va ricordato come, a seguito di alcune revisioni nella metodologia statistica concordate a livello europeo, le stime dei debiti pubblici dei paesi dell'Unione Europea siano state recentemente riviste. Queste revisioni in sé non hanno particolari ripercussioni sulla tenuta dei conti pubblici, in quanto dettate solo da variazioni dei principi contabili. Per l'Italia, il rapporto fra debito pubblico e Pil per l'anno 2018 è passato dal 132,2 al 134,8 per cento. È quindi rispetto a quest'ultimo valore che vanno raffrontate le proiezioni della Commissione Europea e, di conseguenza, desunto il trend del debito pubblico (si veda https://www.bancaditalia.it/media/comunicati/documenti/2019-02/cs-revisione-stime-20190923.pdf).

[4] A partire dal 1999, il governo coreano ha introdotto per i contribuenti la possibilità di ottenere deduzioni per le spese sostenute con mezzi di pagamento elettronici: in particolare, vengono considerati tutti i pagamenti al di sopra di una soglia minima e al di sotto di un tetto massimo, con una percentuale di deduzione che negli anni è oscillata tra il 10 e il 30 per cento dell’ammontare speso. Grazie alla semplicità di questo sistema, alla certezza per il contribuente di ottenere il rimborso in tempi rapidi e alla possibilità per l’autorità fiscale di avere accesso ai dati delle transazioni, la Corea si è trasformata in un’economia quasi cashless, con il valore dei pagamenti elettronici che ha raggiunto il 49 per cento del Pil nel 2014. Inoltre, la misura ha avuto un effetto netto positivo sul gettito per lo Stato: a fronte di costi da mancate entrate stimati in circa 1,4 miliardi di euro, gli incentivi hanno generato maggiori entrate per circa 2,6 miliardi di euro, con un effetto netto pari a 1,2 miliardi di euro (+4,2 per cento rispetto allo scenario controfattuale). Si veda lo studio “Can Tax Incentives for Electronic Payments Curtail the Shadow Economy? Korea’s Attempt to Reduce Underreporting in Retail Businesses” (2017) disponibile al link: https://pdfs.semanticscholar.org/28ef/def1ed4bd8f9f97ea290b7c5f6f82647149d.pdf.

[6] Si veda l’articolo di Stefano Manestra disponibile al link: https://www.lavoce.info/archives/56036/serve-davvero-mettere-gli-evasori-in-manette/.

[7] Si veda l’analisi di Carlo Valdes e Edoardo Frattola disponibile al link https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-ma-le-tasse-sul-gioco-d-azzardo-funzionano-davvero.

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