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L’impatto dell’inflazione inattesa sui conti pubblici nel 2021-22

25 febbraio 2022

Intermedio

L’impatto dell’inflazione inattesa sui conti pubblici nel 2021-22

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Un’inflazione superiore al previsto, come quella manifestatasi nel 2021 e 2022, impatta i conti pubblici tramite vari canali. Dal lato delle entrate, il gettito IVA aumenta al crescere dei prezzi: l’impatto è di 0,6 miliardi nel 2021 e di 6,5 miliardi nel 2022 (assumendo un tasso di inflazione del 5 per cento). Dal lato delle spese primarie, la risposta non è automatica, ma il Governo ha deciso di contrastare l’aumento dei prezzi energetici con maggiori risorse di quelle previste nella Legge di Bilancio (7,5 miliardi nel 2022). Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse, legato alla maggiore inflazione, potrebbe comportare una maggiore spesa per interessi di 2,2 miliardi nel 2022 per il rinnovo dei titoli in scadenza e per i titoli indicizzati all’inflazione. Considerando oltre a questi effetti l’aumento del deflatore del Pil (e quindi l’erosione nel valore dei titoli di Stato in circolazione dovuto all’inflazione, di fatto una tassa occulta), lo shock inflazionistico dal settembre 2021 dovrebbe portare a una riduzione del rapporto debito/Pil a fine 2022 di 2,8 punti percentuali rispetto a quanto previsto dalla Nadef. Ciò il equivale a un risparmio di 55 miliardi, soprattutto a spese dei risparmiatori che hanno comprato titoli di Stato a tassi di interesse fissi, una vera tassa occulta. Naturalmente, il risparmio per lo Stato sarebbe molto inferiore se, per rispondere alla maggiore inflazione, la BCE aumentasse più rapidamente i tassi di interesse. 

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Il punto di partenza di questa nota è il quadro macroeconomico della NADEF del settembre 2021. La domanda che ci poniamo è: in che misura l’aumento dell’inflazione negli ultimi mesi rispetto a quello previsto nella NADEF influenza i conti pubblici nel 2021 e nel 2022? In linea di principio, un’inflazione inattesa impatta i conti pubblici attraverso diversi canali.

1. Entrate

1.1. Gettito IVA. Nel caso italiano, in assenza di una risposta dei redditi all’inflazione (che sembra essere stata modesta finora in presenza di un’inflazione prevalentemente importata), la principale entrata tributaria che dipende strettamente dalla variazione dei prezzi è l’IVA. Se aumenta il valore nominale di prodotti e servizi venduti, a parità di aliquota, cresce anche il gettito IVA.

La NADEF dello scorso settembre prevedeva un’inflazione, relativamente ai prezzi al consumo, dell’1,5 per cento in media annua per il 2021 (variazione annuale tra l’indice medio dei prezzi al consumo del 2021 su quello del 2020). L’inflazione effettiva nel 2021 è stata invece dell’1,9 per cento.

Per il 2022, la Nadef prevedeva un’inflazione dell’1,6 per cento, sempre per i prezzi al consumo. Alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi, compresi i tragici eventi in Ucraina negli ultimi giorni con il conseguente rincaro delle materie prime, è chiaro che l’inflazione sarà più elevata. Ipotizziamo - in un quadro che potrebbe anche essere considerato ottimistico – che l’inflazione annuale rimanga al 5 per cento (ossia la variazione osservata a gennaio) per tutto il 2022, invece di scendere come previsto fino a qualche giorno fa dalla BCE. La variazione annuale dell’indice medio sarà dunque del 5 per cento.

La Nadef prevede un gettito IVA di 154,7 miliardi nel 2021 e 175,5 nel 2022. Stimiamo che nel 2021, l’inflazione inattesa dello 0,4 per cento (ossia la differenza tra l’inflazione prevista – 1,9 per cento – e attesa – 1,5 per cento) abbia generato un gettito extra di 0,6 miliardi (lo 0,4 per cento del gettito IVA previsto). Nel 2022, questo effetto è ben maggiore. Tenendo conto dell’effetto cumulato dell’inflazione inattesa nel 2021 e nel 2022, l’extra gettito salirebbe a 6,5 miliardi.

Oltre al canale IVA, l’inflazione inattesa opera sulle entrate anche attraverso altri canali, ma questi hanno un impatto limitato nel caso in questione:

1.2. Impatto sulle imposte sul reddito. Normalmente, al crescere del livello dei prezzi, i redditi tendono ad aumentare. Non consideriamo questo effetto perché la risposta dei redditi (per lo meno quelli dei dipendenti) all’aumento dell’inflazione è stata per ora modesta. Per lo stesso motivo non si considera l’effetto del fiscal drag, ossia l’aumento delle entrate fiscali che si verifica quando, all’aumento del reddito, in un sistema di tassazione progressiva, l’aliquota media di tassazione tende a crescere.

1.3. Effetto Tanzi. Si tratta di un meccanismo attraverso il quale l’inflazione può ridurre il gettito in termini reali. Questo è dovuto al possibile ritardo con cui vengono pagate le tasse rispetto al momento in cui il reddito viene percepito. Tuttavia, tale effetto è basso per valori dell’inflazione quali quelli considerati, anche tenendo conto che la ritenuta alla fonte elimina il ritardo nel pagamento delle imposte dirette per i lavoratori dipendenti.

1.4. Signoraggio. Con un livello dei prezzi più alto del previsto, la domanda di base monetaria dovrebbe essere più alta. Dunque, i profitti della BCE (per la quota spettante all’Italia) e della Banca d’Italia, che sono trasferiti al Tesoro italiano, dovrebbero essere più alti. L’impatto è basso per questi livelli di inflazione e, in ogni caso, è ritardato di un anno.

2. Spese

Al contrario degli effetti sopra indicati, l’effetto della maggiore inflazione sulle spese è in gran parte discrezionale.

2.1. Indicizzazione delle pensioni. L’unico effetto diretto dell’inflazione inattesa è sulla spesa pensionistica tramite l’indicizzazione delle pensioni. Per il 2022, infatti, vi sarà un adeguamento dell’1,7 per cento rispetto all’1,6 stimato dalla Nadef: tale conguaglio è stimabile in 0,3 miliardi. L’inflazione prevista nel 2022 comporterà una maggiore indicizzazione delle pensioni a partire dal 2023.[1]

Due canali di maggiore entità stanno di fatto operando:

2.2. Maggiori spese per rincari dei prezzi energetici. Per contenere il rincaro dei prezzi energetici superiore rispetto a quello atteso nella NADEF, da inizio 2022 il Governo ha stanziato ulteriori risorse per circa 7,5 miliardi (con il Decreto Sostegni-Ter e il Decreto Energia).

2.3. Effetto sulla spesa per interessi. I tassi di interesse sui titoli di Stato sono aumentati, probabilmente per effetto dell’aumento dell’inflazione (i creditori chiedono rendimenti superiori per compensare l’erosione del proprio capitale causata dalla maggiore inflazione), con un impatto sulla la spesa per interessi. Quest’ultima aumenta sia perché i titoli in scadenza sono rinnovati a tassi più elevati sia perché i titoli indicizzati all’inflazione (come i BTP Italia) pagano una cedola più elevata se l’inflazione aumenta. Tutto sommato stimiamo la maggior spesa per interessi nel 2022 in circa 2,2 miliardi (1,5 miliardi dal rinnovo dei titoli in scadenza, assumendo un rialzo dei tassi di un punto percentuale fisso per il resto dell’anno, e 0,6 miliardi per i titoli indicizzati all’inflazione).

3. Impatto sul rapporto debito/PIL

L’inflazione inattesa impatta il rapporto debito pubblico/Pil tramite due canali:

3.1 Effetto sull’indebitamento netto. Il deficit pubblico varia, rispetto a quanto previsto dalla Nadef, in funzione delle entrate e delle spese inattese.
Nel 2021, il gettito extra IVA di 0,6 miliardi ha migliorato il deficit della stessa cifra.

Nel 2022, considerando (i) il maggior gettito IVA (6,5 miliardi); (ii) le maggiori spese legate ai rincari energetici (7,5 miliardi) e alle pensioni (0,3 miliardi); (iii) le maggiori spese per interessi (2,2 miliardi), il deficit aumenterebbe, rispetto a quanto previsto dalla Nadef di 3,5 miliardi. Di conseguenza aumenterebbe, anche se lievemente, lo stock di debito pubblico (il numeratore del rapporto).

3.2. Effetto sul Pil nominale (effetto “denominatore”). L’aumento del livello dei prezzi (non dei consumi, ma dei beni e servizi prodotti internamente; ossia il “deflatore del Pil”) implica che il Pil nominale (cioè in euro) cresca a un ritmo superiore rispetto al previsto. Nell’attuale situazione di inflazione, in buona parte importata, il deflatore del Pil tende a crescere meno rapidamente dei prezzi al consumo perché non comprende le importazioni (mentre comprende il prezzo delle esportazioni).

Per il 2021, la Nadef prevedeva un aumento del deflatore del Pil dell’1,5 per cento, in linea con l’inflazione dei prezzi al consumo. L’inflazione dei prezzi al consumo nel 2021 è stata più alta (+1,9 per cento), ma il deflatore del Pil è cresciuto invece in misura più modesta (1,1 per cento).

Per il 2022, la Nadef prevede che il deflatore del Pil aumenti dell’1,6 per cento. Anche in questo caso sembra una stima conservativa. Applicando il differenziale tra i due deflatori stimato da Banca d’Italia per il 2022 (1 p.p.) al nostro scenario di inflazione, otteniamo un aumento del deflatore del Pil pari al 4 per cento.

Il rapporto debito pubblico/Pil della Nadef è al 153,5 per cento nel 2021 ed era previsto scendere al 150,2 per cento nel 2022. Le nostre stime, considerando sia l’impatto di entrate e spese inattese sul deficit sia l’impatto del deflatore del Pil sul denominatore del rapporto, indicano invece nel 2021 un debito/Pil al 154,2 per cento, mentre nel 2022 del 147,4 per cento.[2]

Quindi, nel 2022, l’inflazione inattesa dovrebbe migliorare il rapporto debito/Pil del 2,8 per cento. Questo equivale a un risparmio di 55 miliardi, interamente dovuto all’erosione del valore dei titoli di stati in termini reali che ricade sui detentori di titoli non indicizzati, una vera tassa occulta.

 

[1] Dal 2023 sarà anche corrisposto un conguaglio di 0,2 punti percentuali (ossia la differenza tra l’inflazione realizzata nel 2021 – 1,9 per cento – e il tasso di indicizzazione stabilito – 1,7 per cento). Si noti che l’indicizzazione avviene al 100 per cento per le pensioni di importo sino a 4 volte il trattamento minimo (516 euro), per poi calare al 90 per cento (sino a 5 volte il trattamento minimo) e al 75 per cento per gli importi successivi. Essendo la pensione media liquidata (1.167 euro) ben inferiore rispetto alla soglia per cui cala leggermente l’indicizzazione, non consideriamo questo effetto, alla luce anche della piccola differenza tra inflazione prevista e inflazione effettiva nel 2021.

[2] Volendo stimare l’effetto dovuto all’inflazione inattesa a parità di altre condizioni, manteniamo lo stock di debito pubblico (correggendo per entrate e spese inattese come descritto) e i tassi di crescita reale (+ 6 per cento nel 2021; +4,7 per cento nel 2022) previsti dalla NADEF.

Un articolo di

Luca Favero e Salvatore Liaci

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