La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni
di Giampaolo Galli e Giulio Gottardo
26 settembre 2020
Lo Stato spende di più per i cittadini del Centro-Nord che per quelli del Mezzogiorno? Al netto della spesa per interessi e di quella pensionistica – che lo Stato non può decidere come allocare a livello territoriale – la risposta è negativa. Se poi si tiene conto del diverso costo della vita, il Meridione sembra beneficiare di un trattamento migliore rispetto al Centro-Nord. Il fatto che la spesa nominale pro capite sia simile, ma il reddito e le entrate pro capite siano sensibilmente maggiori al Centro-Nord, fa sì che il peso della spesa della PA nelle regioni del Meridione sia molto maggiore. Di conseguenza, il Mezzogiorno riceve ogni anno cospicui trasferimenti pubblici dalle regioni a statuto ordinario più ricche, tutte del Centro-Nord.
*La nota è stata ripresa da Repubblica in questo articolo del 26 settembre 2020.
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Il calcolo Svimez
Di recente, il presidente dell’Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno (Svimez) ha dichiarato che “il Nord ha sottratto al Sud 60 miliardi all’anno”.[1] Come è stata ottenuta questa stima? Nell’analisi della Svimez vi sono una serie di peculiarità che a nostro avviso distorcono notevolmente il risultato.[2] Innanzitutto, l’analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell’Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto di notevole gravità che è già stato messo in evidenza dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (si veda l’Appendice).
In secondo luogo, viene considerata la spesa della cosiddetta PA allargata, ovvero l’insieme di società partecipate, enti locali e amministrazioni centrali.[3] Di conseguenza, in questi 60 miliardi sono incluse le spese di società come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo che sono quotate in borsa e non operano in base a obiettivi di perequazione geografica, bensì di profittabilità e che devono comunque cercare di soddisfare la domanda effettiva per i beni e servizi prodotti.[4] È quindi pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e le opportunità d’affari sono tipicamente maggiori. Consegue che considerare tutta la PA allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica.[5]
In terzo luogo, nel calcolo dei 60 miliardi “sottratti” al Mezzogiorno, secondo Svimez, ci sono anche le pensioni, che rappresentano più di 250 miliardi all’anno di spesa pubblica. Tuttavia, lo Stato non ha alcun controllo sulla loro allocazione regionale: dato che al Centro-Nord i lavoratori (provenienti sia dal Nord che dal Sud) hanno versato più contributi, i pensionati settentrionali hanno mediamente diritto a pensioni più alte, il che fa inevitabilmente lievitare la spesa pubblica pro capite nelle loro regioni.
Infine, la Svimez non tiene conto delle differenze molto rilevanti nel costo della vita tra regioni.
La distribuzione regionale della spesa
Passando alla pars costruens, per fare un’analisi solida della distribuzione regionale della spesa, occorre fare riferimento all’aggregato della Pubblica Amministrazione (che a livello nazionale è calcolato dall’ISTAT, in base ai criteri Eurostat), la cui disaggregazione per regioni e macroaree è calcolata dalla Banca d’Italia.[6]
Se si considera il dato grezzo dell’intera PA al netto degli interessi sul debito, con riferimento alla media del periodo 2014-2016, il Mezzogiorno appare leggermente svantaggiato, nel senso che la spesa pro capite è pari 10.900 euro a fronte di 11.850 euro nel resto del paese, con un gap di 950 euro (Tavola 1, prima colonna).[7] Va detto subito che questo dato non è statisticamente significativo perché, come si mostra più avanti, vi sono differenze significative fra regioni a statuto ordinario e a statuto speciale, nonché fra regioni di diverse dimensioni all’interno delle stesse macroaree. In ogni caso, moltiplicando questo gap per la popolazione del Mezzogiorno (20,5 milioni) si ottiene la cifra di 19,5 miliardi all’anno, che è rilevante, ma molto lontana dal dato citato dalla Svimez.
Tuttavia, se si sottraggono le pensioni, sulla cui allocazione geografica il decisore politico non ha alcun controllo, la spesa pro capite di tutta la PA nelle varie regioni rimane abbastanza eterogenea, ma la “classifica” non sembra discriminare il Meridione rispetto al Centro-Nord; anzi, il gap si rovescia a favore del Mezzogiorno e diventa positivo (+350 euro pro capite, Tavola 1, seconda colonna).
L’altra correzione ai dati grezzi sulle uscite della PA muove dalla considerazione che nel Mezzogiorno i prezzi sono più bassi che al Centro-Nord; ogni euro di spesa in una regione del Sud ha quindi un potere d’acquisto – e quindi un valore reale – maggiore rispetto al resto del Paese. Per eseguire l’aggiustamento a Parità di Potere d’Acquisto della spesa, è stata utilizzata l’unica fonte ufficiale disponibile che è rappresentata dalle soglie di povertà definite dall’ISTAT.[8] La soglia di povertà nel Mezzogiorno è inferiore del 20 percento circa rispetto al Centro e del 24 rispetto al Nord, rispecchiando una considerevole differenza nel costo della vita. Quando si opera anche questa correzione, il gap diventa molto rilevante (+1950 euro pro capite) e decisamente favorevole al Mezzogiorno (Tavola 1, terza colonna). In valori assoluti, si tratta di una maggiore spesa “reale” nel Mezzogiorno pari a quasi 40 miliardi.
Anche per quanto riguarda le singole regioni, la spesa non pensionistica pro capite a Parità di Potere d’Acquisto non sembra penalizzare il Mezzogiorno, ma piuttosto appare favorire le regioni a statuto speciale e quelle più piccole (Figura 1).
Il Mezzogiorno è discriminato?
Per un’analisi più accurata occorre tenere conto del fatto che la differenza di spesa pro capite tra regioni è determinata anche da fattori quali la popolazione (dato che vi sono notevoli economie di scala) e il lo status costituzionale (regioni a statuto ordinario e a statuto speciale). Per fare questo è necessario effettuare una regressione multivariata, che consenta di cogliere separatamente l’effetto della grandezza e dello status di ogni regione sulla spesa pro capite della PA, lasciando che l’appartenenza al Mezzogiorno spieghi le differenze restanti. In altre parole, si individua la differenza nella spesa pro capite tra una regione del Mezzogiorno e una del Centro-Nord a parità di popolazione e status.[9]
I risultati sono presentati nella Tavola 2. Come anticipato, la spesa pro capite è minore nelle regioni grandi (350-400 euro pro capite in meno per ogni milione di abitanti) e maggiore in quelle a statuto speciale (oltre 2.000 euro pro capite in più). Al netto di questi fattori, se non si escludono le pensioni dalla spesa della PA, la differenza tra spesa pro capite nel Mezzogiorno e al Centro-Nord è significativa e negativa: i cittadini meridionali riceverebbero ciascuno circa 1.560 euro in meno (colonna (1)). Tuttavia, se si escludono le pensioni da questo calcolo, la differenza tra Sud e Centro-Nord non è più statisticamente significativa. In altre parole, il Sud non è discriminato nella distribuzione geografica della spesa pubblica nominale non pensionistica (colonna (2)). Infine, se si considera la spesa della PA a Parità di Potere d’Acquisto, ovvero se si tiene conto delle differenze nei prezzi, il Sud appare significativamente favorito, nell’ordine di quasi 1.400 euro pro capite (colonna (3)). Questo risultato dipende ovviamente dal fatto che quasi tutti gli stipendi pagati dalla PA sono uguali tra regioni e rispecchia quindi il loro maggior valore reale nel Mezzogiorno. In altre parole, tenendo conto anche delle differenze nel costo della vita, il Mezzogiorno riceverebbe un trattamento più generoso del resto dell’Italia. A livello aggregato, questa maggiore spesa pro capite equivarrebbe a circa 28,6 miliardi all’anno.
Quante risorse redistribuisce lo Stato?
La combinazione tra un ampio divario in termini di PIL pro capite tra Centro-Nord e Meridione e una spesa pubblica nominale pro capite più equilibrata tra le due macroaree, fa sì che, anche includendo la spesa pensionistica e senza tenere conto delle differenze di potere d’acquisto, il peso della PA sul PIL regionale sia estremamente alto nel Mezzogiorno e più contenuto nel resto del Paese. Agli estremi ci sono la Lombardia, in cui la spesa pubblica è poco più del 33 percento del prodotto regionale, e la Calabria, dove questo dato raggiunge l’80 percento, una cifra davvero elevata. Poiché il peso delle entrate della PA sui PIL regionali è molto più omogeneo, l’esistenza di massicci trasferimenti tra regioni (i cosiddetti residui fiscali) è inevitabile (Figura 2).[10]
La Banca d’Italia calcola che nel periodo 2002-2016, i trasferimenti pubblici a favore del Mezzogiorno sono oscillati fra il 15 e il 20 percento del Pil dell’area; rapportato alla media del PIL 2014-2016, queste percentuali corrispondono a cifre annuali tra 57 e 76 miliardi di euro.[11] Le regioni che hanno sostenuto la quasi totalità di quest’onere sono la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Lazio, il Veneto, il Piemonte e la Toscana.
Da parte della Svimez (e di molti meridionalisti) si argomenta che quello dei residui fiscali è un falso problema perché il prelievo riguarda gli individui, non i territori, e perché i diritti di cittadinanza non possono variare in base alla residenza. L’argomento è comprensibile e in parte condivisibile. Occorre però tenere conto che in tutte le strutture federali è prevista una qualche corrispondenza fra la capacità contributiva di una regione e la sua spesa. Se si pensa che questa corrispondenza non possa o non debba verificarsi, allora non si capisce che senso abbia dire che l’autonomia delle Regioni prevista dalla Costituzione vada contemperata con i livelli essenziali delle prestazioni; bisognerebbe dire chiaramente che non si ritiene auspicabile alcuna forma di federalismo o tantomeno di autonomia differenziata.
In ogni caso, non sembra in alcun modo accettabile distribuire in ragione della popolazione anche la spesa delle imprese partecipate che operano sul mercato, nonché le pensioni che dipendono dai redditi percepiti nel passato. Quanto alla questione delle Parità di Potere d’Acquisto, si può essere dell’opinione che gli stipendi pubblici e forse anche quelli privati debbano essere gli stessi in tutto il paese, ma non si può negare che un euro al Sud ha un potere d’acquisto – e quindi un valore – maggiore che nel resto del Paese.
Questo insieme di fattori fa sì che il Mezzogiorno d’Italia sia una delle poche aree al mondo in cui il livello dei consumi (privati più collettivi) è superiore al PIL: sempre con riferimento al periodo 2014-2016, tale rapporto è pari a 102,5 percento nel Mezzogiorno e a solo 74,6 percento nel resto d’Italia.
In un’altra nota di prossima pubblicazione, mostriamo che questa peculiarità esiste dagli anni cinquanta del secolo scorso e è la ragione principale dell’ampio e persistente deficit commerciale del Mezzogiorno, per cifre anch’esse tipicamente comprese fra il 15 e il 20 percento del PIL.
Conclusione e problemi irrisolti
Alla luce di queste considerazioni la dichiarazione del presidente della Svimez circa i 60 miliardi “sottratti” ogni anno dal Nord al Sud – al netto dei gravi limiti dei dati sottostanti – è vera soltanto se si considera l’intera PA allargata, senza tenere conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni). Questa dichiarazione è infatti ispirata ad un’interpretazione estremamente estensiva del principio costituzionale di perequazione della spesa pubblica, in quanto sottintende che la distribuzione geografica della spesa pro capite dovrebbe essere simile in tutte le aree del paese, includendo nella valutazione anche le imprese partecipate che operano con criteri di mercato e le pensioni che dipendono dai redditi passati. In ogni caso, per quanto riguarda la spesa della PA in senso stretto – e quindi la spesa che il decisore politico può decidere dove allocare – già al netto delle pensioni il Meridione non appare discriminato; se poi si corregge per il costo della vita sembrerebbe addirittura favorito. Questo trattamento, equo nominalmente e vantaggioso a Parità di Potere d’Acquisto si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno.
Questa considerazione è puramente quantitativa e non è detto che “più sia meglio”: come mostrano gli indicatori della stessa Svimez, la qualità dei servizi pubblici al Sud è generalmente peggiore; quindi l’assenza di discriminazione nell’ammontare di risorse non esclude una carenza di servizi, anche essenziali, che pesa negativamente sulle persone e sulle imprese di molte aree del Mezzogiorno.
Appendice: l’attendibilità dei dati
Al di là delle considerazioni di merito, esiste un problema che riteniamo grave per quanto riguarda l’affidabilità dei dati con cui è stata costruita la stima della Svimez. L’Osservatorio aveva già sottolineato come i dati dei Conti pubblici territoriali (CPT) dell’Agenzia per la Coesione Territoriale non fossero coerenti con quelli dell’ISTAT.[12] Anche in questo caso i dati CPT si sono rivelati problematici: la somma della spesa pubblica e quella delle entrate della PA delle regioni non corrispondono ai totali nazionali ISTAT. Come mostra la Tavola 3 (di fonte Ufficio Parlamentare di Bilancio), nella media del periodo 2013-2015, sommando i dati CPT delle entrate per Regione si ottiene un totale nazionale pari al 49,4 per cento del Pil dell’Italia, mentre il dato reale (ISTAT) è 47,7 percento: si tratta di una differenza di circa 29 miliardi. [13] Anche una parte dei dati riguardati le singole Regioni appare visibilmente fuori scala; in particolare non è chiaro come le entrate di alcune Regioni (Lazio, Puglia, Calabria) possano superare il 55 percento del Pil.
In considerazione di questi problemi, per quest’analisi sono stati impiegati solo dati della Banca d’Italia, che, per regionalizzare la spesa pubblica, si serve solo parzialmente dei dati CPT apportando correzioni consistenti.[14]
[4] Le principali società incluse vi sono: Enel, Eni, Poste, Ferrovie, Leonardo, Cassa Depositi e Prestiti e molte altre.
[7] Anche l’analisi Svimez è al netto degli interessi, perché questi sfuggono a qualunque logica di allocazione territoriale, dipendendo esclusivamente da chi, residente o non residente, ha acquistato i titoli di Stato in passato.
[8] Si è considerata una famiglia con due adulti e un minore. Utilizzando altre tipologie famigliari, i dati rimangono pressoché inalterati.
[9] Le province autonome di Trento e Bolzano sono trattate separatamente.
[10] Tutti i valori sono al netto degli interessi sul debito