Civiltà Socialista

Autonomia differenziata, un progetto dannoso e probabilmente inattuabile

03 giugno 2024

Autonomia differenziata, un progetto dannoso e probabilmente inattuabile

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Il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata è una concessione alle Regioni del Nord, ma si sforza di non togliere nulla alle altre regioni. Ciò comporta che alla fine i costi ricadrebbero sullo Stato centrale, in una misura che non è sostenibile. La riforma appare scritta con il precipuo scopo di essere sostanzialmente inattuabile, se non attraverso compromessi pasticciati che finirebbero per peggiorare lo status quo di un federalismo già sufficientemente deresponsabilizzate e opaco.

* * *

L’autonomia differenziata è un progetto dannoso che probabilmente non vedrà mai la luce; se qualcosa ne scaturirà, sarà probabilmente un peggioramento rispetto alla pessima situazione attuale nei rapporti fra Stato e Regioni.

Come è stato scritto, il difetto è all’origine: il disegno di legge Calderoli pretende di estendere l’autonomia regionale e di differenziarla a partire da un assetto istituzionale multilivello in sé contraddittorio e deresponsabilizzante, con l’effetto di peggiorarlo ulteriormente evidenziandone le conseguenze estreme e destabilizzanti. In queste condizioni è sbagliato insistere sulla strada intrapresa, essa è sostanzialmente un vicolo cieco politico e istituzionale.[1]

Che la situazione attuale sia pessima, o comunque largamente subottimale, dovrebbe essere a tutti evidente. Lo è principalmente per la deresponsabilizzazione connessa all’assenza di risorse proprie. A questo si aggiunge la mancanza di chiarezza su chi fa cosa, specie per le numerosissime materie definite come concorrenti dalla Costituzione, e la mancanza di trasparenza del sistema di riparto delle risorse fra le regioni.

Il ddl Calderoli non fa nulla per ovviare a questi problemi e anzi tende a peggiorare la situazione.

La deresponsabilizzazione

Le regioni spendono e lo Stato effettua loro i trasferimenti necessari. Le risorse proprie delle regioni sono pressoché inesistenti, il che significa che vi è un totale scollamento fra chi ha il privilegio di spendere e chi ha la responsabilità di garantire che le entrate dello stato siano sufficienti ai fini dell’equilibrio di bilancio. Questo è il guaio di fondo del federalismo italiano, ciò che ci induce a ritenere che in realtà il nostro sia un finto sistema federale. Se infatti la responsabilità del bilancio sta tutta in capo allo Stato centrale, le Regioni non possono che operare in condizioni che non è eccesivo definire di “libertà vigilata”. Nel non breve periodo del governo di centro destra, dal 2001 al 2005 e poi ancora dopo il 2008, al ministero del Tesoro vi è stato quasi sempre un uomo, Giulio Tremonti, che era considerato molto vicino al partito che allora si chiamava “Lega Nord”; non è un caso che Tremonti non abbia mai concesso nulla sul fronte dell’autonomia delle Regioni. Anche in quel periodo, le Regioni operavano sotto la stretta supervisione del Ministero delle Finanze, ossia in condizioni di “libertà vigilata”. Esattamente come oggi. Peraltro governi di vari colori sono stati costretti a stipulare piani di rientro o a commissariare molte regioni per riportate sotto controllo la spesa sanitaria che è di gran lunga la principale spesa delle regioni.

La via maestra

Per affrontare questi problemi occorrerebbe quanto meno:

  1. definire in modo chiaro e una volta per tutte quali sono le risorse proprie delle regioni, in modo da responsabilizzarle, e
  2. definire regole chiare e trasparenti per un fondo perequativo che trasferisca le risorse alle regioni più povere.

Naturalmente, la responsabilizzazione richiede anche che si definisca in modo chiaro quali sono le competenze delle Stato e quelle delle Regioni riducendo al minimo le aree, oggi amplissime, di sovrapposizione. Vanno ricondotte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie che hanno esternalità e/o economie di scala di rilevanza nazionale, come l’energia, i trasporti nazionali, l’istruzione, le telecomunicazioni, l’ambiente, il commercio con l’estero e i rapporti con l’Unione europea. Vanno anche definite procedure chiare per risolvere i conflitti di competenze fra Stato e Regioni sulle materie concorrenti, decongestionando il contenzioso che si accumula presso la Corte Costituzionale. Sarebbe quanto mai utile, in sede di riforma Costituzionale, avere una seconda Camera che si occupi principalmente di rapporti fra Stato e autonomie, come era nel progetto di riforma caduto nel referendum del 2016. Infine, e forse sarebbe il caso di dire soprattutto, va introdotta una clausola di supremazie dello Stato, clausola che è presente in quasi tutti gli ordinamenti federali, e che può essere adottata con le opportune cautele, quali per esempio maggioranze assolute, o anche qualificate, sia alla Camera che al Senato. In un quadro di questo tipo non avrebbe alcun senso parlare di autonomia differenziata. L’autonomia, nei suoi diversi possibili gradi, dovrebbe essere di tutti o di nessuno. Se si possono accettare delle differenziazioni per ragioni storiche, non ha alcun senso progettare di complicare il sistema creando ulteriori differenziazioni.

Perché il ddl Calderoli peggiora la situazione

Nulla di tutto ciò che dovrebbe caratterizzare un sistema federale ragionevole è presente nel ddl Calderoli, anche dopo le revisioni che sono state apportate la Senato le quali, anzi, ingarbugliano ulteriormente la materia. Non vi è la definizione di un’imposta regionale; non si capisce come funzionerebbe la ripartizione dei finanziamenti e un eventuale fondo di solidarietà; non è chiaro quali sia il ruolo dei LEP; non vi è ovviamente la definizione di ambiti che andrebbero riportati sotto la esclusiva competenza dello stato; non vi è una clausola di supremazia dello Stato.

Sotto il profilo istituzionale, la procedura prevista ha l’effetto, davvero incredibile, di tagliare fuori il Parlamento, il cui parere è solamente consultivo: “Il Presidente del Consiglio dei ministri, ove ritenga di non conformarsi in tutto o in parte agli atti di indirizzo di cui al comma 4, riferisce alle Camere con apposita relazione, nella quale fornisce adeguata motivazione della scelta effettuata”. (art 2 c.5). Dunque il Parlamento non si pronuncia su un testo preciso, ma si esprime con un mero atto di indirizzo.[2] E per di più, a questo atto può non conformarsi il Presidente del Consiglio (!).

Sotto il profilo dei finanziamenti, la matassa si complica notevolmente con affermazioni fra di loro contradditorie. All’art. 4 c. 1. è scritta la seguente frase, davvero degna di nota: “Qualora dalla determinazione dei LEP… derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si può procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale, ivi comprese le Regioni che non hanno sottoscritto le intese, al fine di scongiurare disparità di trattamento tra Regioni… “(corsivo nostro). In sostanza, se il trasferimento di una funzione (poniamo l’istruzione) a una Regione comporta maggiori oneri per la finanza pubblica (sottinteso, rispetto alla spesa storica), al fine di evitare disparità di trattamento, tali maggiori oneri devono essere distribuiti a tutte le regioni!! In pratica, basta che una sola regione chieda un trasferimento di competenza che comporta maggiori risorse perché queste risorse vadano pro quota anche a tutte le altre regioni. E’ del tutto ovvio che una riforma del genere non è attuabile. E’ vero che subito dopo si dice: “coerentemente con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio”, ma non si capisce se alla fine si debbano dare più risorse a tutti oppure si debbano rispettare gli equilibri di bilancio. Talché appare come poco più che una clausola di stile il precetto dell’articolo 9 in base al quale “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.[3]

Chi finanzia i LEP?

A questo si aggiunga che la chiave di volta di tutto il ddl sono i LEP. Questi dovrebbero assicurare l’eguaglianza di trattamento dei cittadini in tutte le Regioni al punto che il trasferimento di competenze alle regioni è subordinato alla definizione dei LEP. Prima si definiscono i LEP e poi si traferiscono le competenze.[4] In astratto questo può sembrare una sistema ragionevole per evitare disparità di trattamento. In pratica, l’esperienza dei LEA in sanità dovrebbe avere insegnato che a) occorrono decenni per definire le prestazioni essenziali, b) queste cambiano rapidamente nel tempo e, soprattutto, c) non sono idonee a stabilire la risorse necessarie, perché nessuna regione è disposta ad ammettere che ha un eccesso di risorse. Infatti, la ripartizione fra Regioni del Fondo sanitario nazionale non è fatto in base ai LEA, ma di fatto è proporzionale alla popolazione, con una minima correzione per tenere conto dell’età media della popolazione.

Gli emendamenti del Senato non superano le critiche

Ulteriori complicazioni sono derivate dalle risposte che gli emendamenti del Senato hanno dato a due delle principiali critiche che erano state rivolte all’originale di disegno di legge sull’AD.

Una è era la possibilità di devolvere in blocco 23 materie, ossia tutte le concorrenti più le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente. L’altra era l’assenza di norme che consentano di evitare il formarsi di avanzi di bilancio presso le Regioni con più alta dinamica delle basi imponibili delle compartecipazioni a scapito degli equilibri finanziari dello Stato e delle altre Regioni.[5]

Al primo problema si è ovviato dando al solo Presidente del Consiglio il potere di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa” (art. 2 c. 2). Sembra quasi quasi incredibile che questo potere non sia in capo al Parlamento. L’attribuzione di questo potere al solo Presidente del Consiglio fa sì che questioni fondamentali di interesse nazionale (per es. le grandi rete di telecomunicazione) siano ostaggio delle convenienze politiche del momento di una sola persona.

Al secondo problema, si è ovviato demandando a una commissione paritetica fra lo Stato, la Regione interessata e le sue autonomie locali la ricognizione annuale “dell’allineamento fra i fabbisogni di spesa e l’andamento dei tributi compartecipati…”. In caso di scostamenti decide il Ministro dell’ Economia e delle Finanze su proposta della commissione paritetica.[6] Non è chiaro cosa succeda nel caso, assai probabile, in cui la Regione interessata abbia un surplus (perché ha un tasso di crescita del Pil e delle entrate superiore alla media nazionale) e si rifiuti di proporre un taglio alle proprie risorse. Dato che la Commissione è paritetica, è probabile che le decisioni vengano prese all’unanimità; il veto della Regione interessata dovrebbe quindi impedire il taglio delle risorse.

In questo modo non si risolve il problema che era stato sollevato e in più si aggrava la mancanza di trasparenza del sistema.

L’opacità dell’allocazione delle risorse

Come si è detto all’inizio, al guaio fondativo del federalismo italiano (la deresponsabilizzazione), si aggiunge la assoluta opacità del sistema dei trasferimenti statali, i quali sono oggetto di continui aggiustamenti e modifiche in tutte le leggi di bilancio e anche in altri provvedimenti che si approvano nel corso dell’anno. A testimonianza di questa opacità citiamo un recente lavoro dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani che cerca di ricostruire i criteri di ripartizioni delle risorse del Servizio Sanitario nazionale fra Regioni.[7] Il lavoro si inerpica nei sentieri impervi della conferenza Stato-Regioni e dei LEA, per concludere che, a seguito di moltissimi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, alla fine le risorse sono essenzialmente distribuite in ragione della popolazione, con una minima correzione per l’età media della popolazione: in sostanza, nel 2023 circa 2.100 euro a testa. Citiamo gli autori: “Di fatto, le molteplici modifiche dei coefficienti avvenute a partire dal 2000 fino alla riforma del 2011 hanno seguito prevalentemente criteri politici, stabiliti in sede di conferenza Stato-Regioni-Province autonome, modificando di volta in volta quelli che dovevano essere criteri relativi alla popolazione per far quadrare il riparto definito in sede politica”. L’ultima modifica è del 2023 e da questa è scaturita la ripartizione in base alla popolazione che con scarsa o nulla considerazione dei possibili diversi LEA e fabbisogni delle regioni.

La redistribuzione dal Centro-Nord al Mezzogiorno

La domanda che a questo punto ci si può fare è perché la Lega non proponga un “normale” sistema federale trasparente, con il giusto dosaggio di responsabilizzazione (con risorse proprie) e di solidarietà. Dopo tutto, la Lega non manca di persone di buon livello, che sono ben consapevoli delle critiche che vengono mosse la ddl Calderoli. Perché dunque non propongono un sistema più chiaro, semplice e trasparente?

La domanda andrebbe ovviamente rivolta agli interessati, ma alcuni numeri possono essere utili per capire di cosa si tratti. In sostanza, l’attuale sistema comporta un imponente e continuo trasferimento di risorse dal Centro- Nord al Mezzogiorno. Chi vuole (o voleva) rappresentare gli interessi delle regioni del Nord si chiede come si possano trattenere sul proprio territorio una parte di queste risorse. Ma si rende ben conto (specie se questi stessi ora vogliono essere un partito nazionale) che ciò comporterebbe un taglio alle risorse del Mezzogiorno, dunque una rottura potenzialmente molto grave dell’unità nazionale. La redistribuzione di risorse all’interno del paese avviene in virtù del fatto che le entrate della PA sono all’incirca proporzionali al Pil delle diverse aree (quindi sono minori in valore assoluto nelle aree più povere), mentre la spesa pro capite della PA è abbastanza omogenea sul territorio (quindi dà luogo a un rapporto spesa-Pil maggiore nelle aree più povere).[8]

Di conseguenza, se si confrontano le entrate e le spese della PA in ciascuna macroarea (il cosiddetto “residuo fiscale”), si trova un surplus nel Centro-Nord e un deficit nel Mezzogiorno.[9] La Tavola 1 (prime due righe) mostra come viene fatto questo calcolo.[10] Nella terza colonna c’è il “residuo fiscale” dell’Italia (media 2014-2016), che corrisponde all’avanzo primario del bilancio dell’intera PA nazionale: nel periodo, l’avanzo è stato di 35,5 miliardi, pari al 2,4% del Pil italiano. Questo avanzo è la somma algebrica dell’avanzo primario del Centro-Nord (ben 100 miliardi, pari all’8% del Pil dell’area) e del deficit primario del Mezzogiorno (63 miliardi, pari al 18% del Pil dell’area).

Questa situazione di avanzi primari al Centro-Nord e rilevantissimi deficit al Meridione è chiaramente documentata dai dati della Banca d’Italia ricostruiti per il periodo 2002-2016: come si vede dalla Figura 1, il Centro-Nord ha sempre mantenuto un avanzo nell’ordine del 9-10% del Pil, mentre nel Mezzogiorno si è registrato un deficit fra il 15% e il 20% del Pil.

Questi trasferimenti si sono tradotti in maggiori consumi e quindi in un tenore di vita al Sud molto più elevato di quello che sarebbe prevalso altrimenti.[11] Elevati trasferimenti si traducono anche in un saldo commerciale passivo, perché la maggior capacità di spesa genera maggiori importazioni dall’esterno. Il rapporto consumi-Pil e il saldo commerciale delle macro-aree sono esposti nella Tavola 1. L’avanzo commerciale dell’Italia (29,3 miliardi nel periodo considerato) è la somma algebrica dell’avanzo del Centro-Nord (99 miliardi) e del deficit del Mezzogiorno (-69,7 miliardi). Allo stesso modo, il rapporto consumi-Pil al Centro-Nord è in linea con i valori delle generalità dei paesi avanzati, mentre nel Mezzogiorno è fuori scala. Più precisamente, nel Mezzogiorno i consumi totali (privati e collettivi) sono maggiori del Pil, un caso molto raro a livello internazionale.[12] Se il rapporto consumi-Pil del Meridione fosse lo stesso del Centro-Nord (74%), i consumi del Mezzogiorno sarebbero più bassi di circa 100 miliardi di euro. Questa cifra può essere in parte imputata al minor reddito del Mezzogiorno (nell’ipotesi realistica che la propensione al consumo sia più alta per i redditi bassi) e per circa 60 miliardi ai trasferimenti provenienti dal Centro-Nord.

I limiti della solidarietà

Come si è detto, la redistribuzione dal Centro-Nord al Mezzogiorno avviene perché la spesa è all’incirca equidistribuita in base alla popolazione mentre le entrate fiscali dipendono dal reddito che nel Mezzogiorno è più basso. Su questo punto ci sono continue aspre dispute fra regioni del Nord e del Mezzogiorno. Chi difende questo sistema fa notare che un cittadino del Mezzogiorno ha diritto agli stessi servizi (e dunque alla stessa spesa pro-capite) di un cittadino del Nord. E ha anche diritto a essere tassato nello stesso modo, il che comporta che se nel Mezzogiorno il reddito dei residenti è mediamente più basso sarà anche più basso il gettito fiscale con cui il Mezzogiorno contribuisce al gettito complessivo della nazione. In altre parole, a un cittadino benestante del Nord si chiede lo stesso “sacrificio” per aiutare un cittadino meno benestante del Nord o del Sud.[13] Questo argomento ha la sua forza evidente, ma si scontra contro la volontà delle regioni del Nord di tenere una parte delle risorse sul proprio territorio.

Al fondo, vi è una domanda sulla giustizia distributiva che non ha una risposta semplice. Fin dove si deve spingere la solidarietà fra regioni? E perché, per esempio, la stessa solidarietà che il Nord accorda alle regioni italiane più povere non dovrebbe essere estesa anche alle regioni svantaggiate d’Europa? Non è forse questo che si chiede ai paesi più ricchi della Unione europea quando si propone per esempio un debito comune?

Noi rinunciamo a rispondere a questa domanda, ma osserviamo che un sistema siffatto non può essere definito federalista. Al di là dei nominalismi (che pure sono cruciali in politica), la sostanza è che siamo di fronte a un sistema finanziario perfettamente centralizzato. Una spesa pubblica ripartita fra i territori in base alla popolazione è una caratteristica tipica e caratterizzante dei sistemi unitari centralizzati. Anche per questo dunque è giusto parlare di regioni in “libertà vigilata”, o meglio ancora di “federalismo immaginario”. Oppure di federalismo solo amministrativo, che in realtà non merita la definizione di federalismo. Più propriamente si dovrebbe parlare di decentramento amministrativo.

Cosa accadrebbe senza solidarietà?

Cosa succederebbe se le Regioni del Centro-Nord riuscissero a impedire la redistribuzione del reddito favore del Mezzogiorno? La domanda è fatta a puri scopi esemplificativi dal momento che questa non è una prospettiva realistica. Si possono però immaginare molte soluzioni intermedie.

In ogni caso, proseguendo nell’esemplificazione, ci sono due soluzioni possibili, a seconda che il blocco dei trasferimenti al Sud sia o no compensato da un aumento del deficit pubblico. Nell’ipotesi in cui il blocco non sia compensato da un aumento del deficit della nazione, il Mezzogiorno subirebbe un taglio di risorse nell’ordine del 18% del suo Pil. Questo non è un numero qualunque; è un numero enorme che non è paragonabile a nessuna recessione sperimentata da paesi avanzati perché il taglio non sarebbe temporaneo (uno o due anni al massimo come accade con le recessioni anche gravi), ma sarebbe un taglio permanente e dunque molto più grave.

Se invece il taglio fosse compensato da un aumento del deficit pubblico dell’Italia, dato che il Mezzogiorno rappresenta circa il 23% del Pil del Paese, il deficit pubblico della nazione aumenterebbe circa del 4% (18%x23%). Apparentemente questo è un numero grande (corrisponde a oltre 80 miliardi di oggi), ma non enorme. Va però considerato che l’aumento non sarebbe una tantum, ma sarebbe permanente e sarebbe comunque più che sufficiente a creare serissimi problemi al sistema Italia nel suo complesso. Va anche aggiunto che con questa soluzione i trasferimenti dal Centro-Nord al Mezzogiorno non verrebbero meno, ma verrebbero messi a carico delle future generazioni. Dunque, questa soluzione andrebbe incontro solo apparentemente alle aspettative delle regioni del Nord.

Alla fine, il punto da cui non si scappa è che il Mezzogiorno dipende da trasferimenti che sono nell’ordine del 15-20% del Pil; non è una situazione nuova, anzi è una situazione che dura almeno dagli anni cinquanta e che finora le politiche per lo sviluppo del Sud non sono riuscite a risolvere.[14]

Il federalismo immaginario

In ogni caso, sulla base di questi numeri, risulta piuttosto chiaro il motivo per il quale al tempo stesso le regioni del Nord vorrebbero trattenere le risorse sui loro territori e però un partito nazionale (come vuol essere la Lega oggi) non può permettersi di tagliare le risorse al Mezzogiorno. Risulta anche abbastanza ovvia l’opposizione durissima che tutte le Regioni del Mezzogiorno stanno facendo al progetto di autonomia differenziata. Altresì chiara dovrebbe essere la ragione per la quale l’attuale sistema è tanto deresponsabilizzante e opaco. Se non fosse così, una redistribuzione tanto massica di risorse non sarebbe immaginabile. È quindi facile intuire la ragione per la quale viene presentato un disegno di legge pressoché incomprensibile e comunque contradditorio e sostanzialmente inattuabile. Se fosse più chiaro, l’opposizione delle regioni meridionale sarebbe ancora più forte. Quello di Calderoli è sostanzialmente realismo politico. Anche il suo federalismo merita di essere definito “federalismo immaginario”, oltre che tremendamente pasticciato.


[1] Fondazione merita, Politiche di sviluppo e autonomia differenziata, di Claudio De Vincenti, Napoli, 5-6 aprile 2024.

[2] Si veda Stefano Fassina, Autonomia differenziata: fa male anche la Nord?, 2024, in via di pubblicazione.

[3] Non stupisce che la Banca d’Italia rilevi il rischio di maggiori oneri per la finanza pubblica. Si veda a questo link, l’audizione della Banca d’Italia presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, 30 ottobre 2023.

[4] “Il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP di cui all’articolo 3, può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese, soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio”. (Art. 4 c. 1).

[5] Su questo punto si veda a questo link: M. Bordignon, L. Rizzo, G. Turati, Come si finanzia l’autonomia differenziata? Lavoce.info, 28 novembre 2023. E anche a questo link, l’audizione di Giampaolo Arachi, UPB, presso la Commissione 1° del Senato, 6 giugno 2023.

[6] “La Commissione paritetica provvede altresì annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati per il finanziamento delle medesime funzioni. Qualora la suddetta ricognizione evidenzi uno scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi, anche alla luce delle variazioni del ciclo economico, il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata, adotta, su proposta della Commissione paritetica, le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione...” (art. 8 c. 2).

[7] Si veda al seguente link: Francesco Scinetti, Giberto Turati, Leoluca Virdagamo, Come viene finanziata la sanità tra le regioni, Ocpi, 31 maggio 2024.

[8] La spesa pro-capite è leggermente più alta al Centro-Nord. È più alta al Sud se sottraggono le pensioni, sulla cui allocazione geografica il decisore politico non ha alcun controllo. È notevolmente più alta al Sud se si tiene conto che i prezzi al Sud sono notevolmente più bassi che nel resto del paese. Si veda al seguente link: Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni, Ocpi, 2 ottobre 2020.

[9] I residui fiscali sono calcolati dalla Banca d’Italia in Banca d’Italia, 2018, “Economie regionali: l’economia delle regioni italiane”, 23, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economie-regionali/2018/2018-0023/1823-eco-regioni.pdf.

[10] La tabella così come la figura che segue sono tratte da Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, La mancata convergenza del Mezzogiorno: trasferimenti pubblici, investimenti e qualità delle istituzioni, Ocpi, 2 ottobre 2020.

[11] Per un’opinione critica sull’utilizzo dei residui fiscali, si veda l’Audizione della Svimez presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati del 10 dicembre 2019.

[12] I paesi con un rapporto consumi-Pil maggiore del 100% sono pochissimi. Si tratta di paesi molto poveri che dipendono fortemente dagli aiuti allo sviluppo e dalle rimesse provenienti dall’estero.

[13] L’argomento secondo cui questa redistribuzione è fisiologica alla luce del precetto costituzionale è ben sviluppato in M. Volpe, “Federalismo differenziato: qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato”, Osservatorio del Sud, 16 febbraio 2019, http://www.osservatoriodelsud.it/2019/02/16/federalismo-differenziato-di-mariella-volpe/.

[14] Si veda G. Galli, M. Onado, 1990, “Dualismo territoriale e sistema finanziario”, in Il sistema finanziario del Mezzogiorno, Banca d’Italia.

Un articolo di

Giampaolo Galli

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