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Le carenze della scuola italiana: il quadro secondo i dati OCSE
Alcuni paesi hanno chiuso le scuole solo localmente (Australia, Svezia, Stati Uniti); altri paesi hanno distinto le chiusure in base al grado (ad esempio chiusura delle sole scuole superiori); altri, infine, hanno chiuso totalmente le scuole per periodi più o meno brevi. In Italia le scuole sono rimaste totalmente chiuse per 13 settimane a fronte di una media per i paesi considerati di 10 settimane, mentre sono state implementate chiusure parziali (cioè limitate a certe aree o fasce d’età) per 22 settimane a fronte di una media di 16 (Fig. 1 e 2). Secondo i sondaggi degli insegnanti in posizione direttiva, il 34 per cento avverte la mancanza o l’inadeguatezza delle risorse tecnologiche (computer, tablet, software, lavagne interattive…) nelle proprie scuole a fronte di una media OCSE del 27,4 per cento. Infatti, nel 2018 le classi delle scuole primarie italiane accoglievano in media 19 studenti a fronte di una media OCSE di 21 (Fig. 4), guardando le scuole primarie di primo livello la media italiana sale a 21 studenti, mentre la media OCSE è di 23 studenti (Fig. 5). In realtà, gli insegnanti italiani hanno un livello iniziale di istruzione elevato rispetto agli alti paesi: considerando ad esempio gli insegnanti delle scuole secondarie di primo grado, il 78,8 per cento ha una laurea magistrale contro una media OCSE del 44,2 per cento. Le risorse destinate alle scuole primarie nel 2017 infatti ammontavano al 2 per cento della spesa pubblica complessiva, quelle destinate alla scuola secondaria al 3,8 per cento, mentre quelle destinate all’Università all’1 per cento (Fig. 7), per un totale del 6,8 per cento. La differenza con gli altri paesi permane anche considerando: la spesa in percentuale al Pil (3,6 per cento considerando scuola primaria, secondaria e terziaria contro una media OCSE del 4,4 per cento); la spesa per studente (9.178 dollari per studente, contro una media OCSE di 9.524 dollari).
Blocco e sblocco del turnover: gli effetti sulla PA
A partire dal 2008 le assunzioni della pubblica amministrazione (PA) sono state bloccate attraverso una serie di provvedimenti, che hanno previsto anche limitazioni alla sostituzione del personale in uscita. I limiti hanno riguardato fino al 2014 sia la spesa sostenuta per gli uscenti sia il numero di dipendenti (limite capitario) e dopo il 2014 solo la prima, consentendo un aumento del personale a parità di spesa. Anche nel settore privato si è osservato un calo dell’occupazione all’incirca nello stesso periodo, ma è stato meno forte: tra 2008 e 2012 il numero dei lavoratori del settore privato si è ridotto di circa 320.000 unità (2 per cento contro 5,6 per cento), per poi tornare a crescere fino al 2019. Questo aumento è in parte “fisiologico” in un paese che invecchia: nello stesso tempo, l’età media della popolazione italiana è aumentata di due anni e mezzo (da 43 a 45,5 anni) e l’aumento dell’età media dei dipendenti pubblici ha anche risentito dell’aumento dell’età di pensionamento. La legge finanziaria per il 2007 prevedeva che, in tutte le amministrazioni, si potesse procedere ad assunzioni per una spesa pari al 20 per cento di quella relativa alle cessazioni avvenute nell’anno precedente e per un numero di dipendenti non superiore al 20 per cento di quelli cessati. Per quanto riguarda gli enti di ricerca, il limite in termini di spesa dell’anno precedente è stato adeguato a quanto previsto per le amministrazioni centrali (oltre al limite di spesa dell’80 per cento delle entrate correnti). Per gli enti che hanno un valore superiore (quindi una spesa per il personale ritenuta non sostenibile) ad altri appositi valori soglia più elevati, è previsto invece un percorso di riduzione del rapporto fino al raggiungimento degli stessi, se necessario anche ricorrendo ad un turnover inferiore al 100 per cento.
Il test della multa: le risposte delle prefetture
Per circa un terzo delle prefetture la risposta è stata rapida e corretta, ma per oltre un terzo non è stato possibile avere una risposta. Abbiamo chiamato le 106 prefetture d’Italia chiedendo: (i) quali sono i termini per presentare ricorso al prefetto contro una multa per violazione del codice della strada; e (ii) quali sono le modalità per inoltrare tale ricorso. Il ricorso deve essere inoltrato alla prefettura del luogo dove è avvenuta la violazione entro 60 giorni dalla contestazione o notificazione per tramite di una raccomandata con ricevuta di ritorno, di posta elettronica certificata (PEC) o recandosi di persona in prefettura. Si è scelto di contattare gli URP perché questi dovrebbero essere, stando a quanto riportato nei siti internet delle prefetture, il punto di incontro con i cittadini, per guidarli e facilitarli nell’accesso ai servizi offerti, fornendo loro direttamente prestazioni e informazioni o indirizzandoli verso gli uffici preposti a farlo. Gli URP (o i centralini) di ciascuna prefettura sono stati chiamati per un massimo di tre volte, registrando l’informazione del numero di chiamate necessarie prima di avere una risposta. Un esempio di risposta imprecisa è indicare in 30 giorni, invece di 60, il termine di presentazione per il ricorso (questo è il termine per il ricorso al Giudice di Pace), oppure suggerire una sola tra raccomandata e PEC come possibile modalità di inoltro. Tra le 37 prefetture da cui non è stato possibile avere una risposta, per 11 il telefono è squillato a vuoto, per 5 è risultato sempre occupato, per 21 le chiamate hanno dato vita a una serie di inoltri del tutto inconcludenti.
Il test della telefonata: le risposte delle Agenzie delle Entrate
Dopo il nostro esperimento sui tempi di risposta delle Prefetture alle domande dei cittadini, abbiamo telefonato agli oltre 100 Uffici provinciali dell’Agenzia delle Entrate per effettuare un’indagine simile. Questa istanza, in base a quanto riportato sul sito dell’Agenzia delle Entrate, si può effettuare presentando all’Ufficio provinciale un modulo compilato assieme a dati anagrafici, catastali e documentazione della differenza tra rendita effettiva e rendita catastale. uffici (16,1 per cento della popolazione, 9,5 milioni) hanno ricevuto 1 punto e 21 uffici (16,0 per cento della popolazione, 9,5 milioni) hanno ricevuto il punteggio massimo (Tav. 1). Il punteggio medio è stato 0,6; il punteggio medio pesato per la popolazione (gli uffici che coprono province più popolate hanno un peso maggiore) è stato 0,5. In ogni caso, il problema principale rimane il fatto che – per due terzi della popolazione italiana – contattare l’Ufficio provinciale territorio dell’Agenzia delle Entrate per una semplice domanda è un’operazione che richiede più di tre tentativi oppure si traduce in una risposta sbagliata. Chiamando questi numeri, dopo una parte registrata che è comune sul territorio nazionale, la struttura delle opzioni varia da regione a regione, portando, comunque, a parlare con l’ufficio di cui si necessita. Inoltre, la somma delle quote di popolazione non è 100 perché la Provincia Autonoma di Bolzano è stata esclusa, in quanto il suo Ufficio provinciale è organizzato troppo diversamente per essere comparabile.
Come gestire la Pubblica Amministrazione? I Public Service Agreement britannici
Questo sistema, seppur nominalmente abolito nel 2010, è stato in parte mantenuto dai governi successivi e ha consentito di indirizzare maggiormente l’operato di ministri e dirigenti pubblici verso obiettivi concreti e coerenti con quelli del governo. I difetti principali dei PSA erano la mancanza di incentivi monetari per chi raggiungeva i risultati e la difficoltà da parte dei ministeri di allineare l’operato delle loro sotto-unità agli obiettivi generali indicati dal governo. Fin dalla loro nascita nel 1998, quando Tony Blair era Primo Ministro e Gordon Brown Cancelliere dello Scacchiere (ossia ministro del Tesoro), i PSA erano basati su “accordi” (per quanto informali) tra il ministero del Tesoro, che metteva a disposizione risorse, e i vari ministeri, che le ricevevano. Questi accordi informali contenevano una lista di risultati concreti e misurabili che i ministeri dovevano raggiungere entro un orizzonte temporale fissato, solitamente di medio periodo (da 2 a 4 anni, ma con obiettivi intermedi annuali). Di contro, a evolversi fu innanzitutto il numero di target (600 nel 1998, 160 nel 2000, 130 nel 2002, 110 nel 2004 e 30 nel 2007), che diminuì progressivamente per consentire maggior spazio di manovra a ministeri e sotto-unità nello stabilire come raggiungere obiettivi principali di più ampio respiro e sempre più spesso trasversali tra vari ministeri. Questo fenomeno potrebbe essere stato causato dalla necessità di adattare l’azione di ogni unità al contesto specifico, che è peraltro una delle critiche principali ai PSA. L’importanza ricoperta dai PSA nell’operato quotidiano del settore pubblico britannico trova riscontro anche nelle testimonianze degli stessi dirigenti pubblici. Inoltre, i PSA si sono costantemente evoluti grazie all’interesse dei politici all’apice del Partito Laburista e del governo britannico per la messa a punto di uno strumento di indirizzo e controllo dell’azione della PA, ritenuto fondamentale per dare credibilità e seguito ai progetti di riforma del New Labour.
La caduta del valore aggiunto reale della PA: evidenze e questioni aperte
In secondo luogo formuliamo alcune ipotesi sulle ragioni del calo del valore aggiunto reale e della produttività della PA. In sostanza, la caduta del valore aggiunto è dovuta principalmente al comparto dei servizi collettivi, mentre quella della produttività è dovuta quasi interamente al comparto della sanità. In particolare, non è chiaro se l’Istat, analogamente agli istituti degli altri paesi, riesca a misurare l’aumento di produttività e riduzione di sprechi che può accompagnare un calo degli addetti, quale quello che si è registrato negli ultimi anni nel comparto della pubblica amministrazione in senso stretto. Poiché il numero di addetti (misurato dalle ULA) è aumentato leggermente (+0,6 per cento; si veda la Figura 2 che mostra un analogo andamento per le ore lavorate), la produttività è caduta poco più del valore aggiunto (-6,3 per cento; Figura 3). In sostanza, la caduta del valore nominale aggiunto è dovuta principalmente al comparto dei servizi collettivi, mentre quella della produttività è dovuta quasi interamente al comparto della sanità e assistenza sociale e, all'interno di questo, in particolar modo alla sanità. Sostanzialmente la caduta della produttività è quasi interamente dovuta al comparto della sanità e assistenza sociale (-14,6 per cento), dove si registra un aumento degli addetti (+10,7 per cento) e una sensibile caduta del valore aggiunto (-5,0 per cento). Per questi servizi, la caduta del valore aggiunto reale (-9,1 per cento) riflette essenzialmente la caduta degli addetti (-14,1 per cento), ma è inferiore ad essa perché le altre componenti del valore aggiunto sono all’incirca costanti in termini reali: di qui l’aumento della produttività del comparto (+5,9 per cento). Riassumendo, il calo nel valore aggiunto reale della branca NACE PA osservabile nella Figura 1 è quindi principalmente attribuibile ai servizi collettivi della PA. A questo comparto sono infatti riconducibili quasi 10 miliardi di perdita di valore aggiunto dei 15 totali della branca; il resto è attribuibile quasi del tutto alla sanità.
Scuola statale: abbiamo pochi insegnanti o abbiamo insegnanti poco pagati?
Ma, al di là dell’emergenza Covid, è davvero necessario aumentare il numero di insegnanti nel medio periodo? Sembrerebbe di no. In Italia, il personale docente è relativamente numeroso. Cosa è successo negli ultimi decenni al rapporto tra insegnanti e alunni? [3] Il numero di insegnanti nella scuola statale è aumentato ininterrottamente dagli anni ‘60 fino ai primi anni ‘90. Alcune importanti innovazioni istituzionali tra gli anni ‘60 e ‘70, come la nascita della scuola materna statale e della scuola media unica, hanno determinato una crescita del numero di studenti da 6 a 10 milioni, ma l’aumento è stato più forte per i docenti, più che raddoppiati nello stesso periodo. Il numero di insegnanti è invece cresciuto di circa 100mila unità, portando il numero di insegnanti ogni 100 studenti a 11. Il confronto internazionale Nel 2018, e quindi anche prima del più recente aumento, il numero di insegnanti nella scuola statale era in media più alto rispetto ai paesi OCSE: al netto dei docenti di sostegno e di religione, c’erano circa 9 insegnanti ogni 100 studenti contro i 7 della media OCSE (Fig.3). Corrispondentemente, le nostre classi erano meno affollate di quelle della media OCSE: nel 2018, la dimensione media di una classe nella scuola primaria e secondaria di primo grado era di rispettivamente 19 e 21 studenti contro una media OCSE di 21 e 23. Per evitare salti di serie, il numero degli insegnanti di religione è ricavato dai dati del MEF. Il passaggio di competenze tra Istat e MIUR ha anche causato l’assenza di dati completi sui docenti nelle scuole primarie e secondarie statali tra il 1987 e il 1997.
Corruzione, si interrompe il miglioramento dell’Italia
Rispetto agli altri paesi, nella classifica per corruzione percepita, in cui il primo posto rappresenta il paese con il minor grado di corruzione, l’Italia si colloca al 52esimo posto su 180, perdendo una posizione rispetto all’anno scorso. Secondo Transparency International il miglioramento registrato tra 2014 e 2018 è spiegato dai progressi delle misure adottate per combattere la corruzione, quali il diritto generalizzato di accesso agli atti, una disciplina di tutela nei confronti di chi denuncia (whistleblower) e una maggiore trasparenza nei finanziamenti ai partiti. Pur con questi limiti per quanto riguarda il confronto del reale livello di corruzione tra paesi, il fatto che l’indice abbia smesso di migliorare negli ultimi due anni può indicare la mancanza di ulteriori progressi rispetto ai miglioramenti ottenuti ultimamente. Informazioni più robuste sul livello della corruzione possono invece essere tratte da un altro indice elaborato da Transparency International, che si basa sulla percentuale di persone che dichiarano di aver pagato almeno una mazzetta in un anno. L’ultima rilevazione di questo tipo, pur dando risultati migliori rispetto all’indice di percezione della corruzione, indica che, comunque, l’Italia è il peggior paese dell’Europa occidentale, con il 7 per cento degli intervistati che “confessa” di aver pagato almeno una mazzetta nel 2016 (Fig. 3). Tuttavia, il livello di corruzione sperimentata dell’Italia rimane tra i più bassi del mondo, dato che in quasi tutte le economie emergenti la corruzione è un fenomeno di gran lunga più diffuso. Nella maggior parte dei paesi l’indice della percezione della corruzione è correlato all’indice di esperienza diretta della corruzione.
Deposito disavventure burocratiche
Deposito disavventure burocratiche Home Archivio Studi e analisi Deposito disavventure burocratiche Deposito disavventure burocratiche Di Raffaela Palomba 17 settembre 2020 A partire da fine giugno scorso l’Osservatorio CPI ha lanciato un’iniziativa: raccogliere episodi quotidiani di eccessiva burocrazia raccontati dalle dirette “vittime”. Lo scopo è quello di portare alla luce le difficoltà pratiche che i cittadini incontrano nel rapportarsi con gli enti pubblici italiani e provare a fornire soluzioni per rendere più agevoli alcune procedure. Durante i primi due mesi di attività del “Deposito disavventure burocratiche” sono stati raccolti 204 episodi, dei quali 147 hanno superato una prima scrematura: sono stati esclusi quelli poco chiari, che non hanno consentito di individuare con esattezza il problema. Un’ulteriore procedura di cui molti genitori si lamentano è quella per cui, alla nascita di un figlio, è necessario recarsi prima al Comune e successivamente anche all’Agenzia delle Entrate per ottenere una stampa del certificato del codice fiscale, già attribuito dal Comune in sede di dichiarazione di nascita. Per iniziare, si riporta la vicenda di un cittadino che, nonostante abbia rispettato tutti gli adempimenti per il rilascio della patente, è in attesa di un appuntamento alla motorizzazione, che non risponde al telefono e non dà assistenza di persona perché necessario un appuntamento (che però non viene dato!). L’incrocio dei dati consente, infatti, di individuare gli ambiti di maggiore criticità per ogni ente; tali informazioni permetterebbero interventi differenziati per rispondere alle problematiche specifiche dei singoli enti, in modo da rendere più efficaci le misure necessarie per migliorarne l’efficienza. Ciò suggerisce, dunque, che gli interventi da realizzare per queste due categorie di enti dovrebbero avere priorità diverse: ridurre i tempi di risposta per i comuni e portare avanti il processo di digitalizzazione per le amministrazioni centrali.
L’andamento dell’occupazione pubblica italiana dal 2008
L’andamento dell’occupazione pubblica italiana dal 2008 Home Archivio Studi e analisi L’andamento dell’occupazione pubblica italiana dal 2008 L’andamento dell’occupazione pubblica italiana dal 2008 di Edoardo Frattola 17 giugno 2019 A fine 2017, l’Italia contava 3,24 milioni di dipendenti pubblici a tempo indeterminato. Tuttavia, la maggior parte del calo è avvenuta nei primi quattro anni (-6,5 per cento), mentre la riduzione è stata solo dell’1,1 per cento nei cinque anni successivi, essendosi molto allentate, e ora eliminate, le regole sul turn over. Non tutti i comparti si sono ridotti in eguale misura: il calo è stato più forte per gli enti pubblici non economici, le università, i ministeri e gli enti locali, dove forse esistevano maggiori eccessi di occupazione. È però vero che all’interno di ogni settore non si è cercato di distinguere tra enti con eccesso di personale ed enti con carenza di personale. L’effetto sull’età media del personale Se è vero che il blocco (parziale) del turn over è stato efficace nel ridurre il numero di dipendenti pubblici, è opinione comune che questa normativa abbia anche avuto come effetto collaterale una forte accelerazione nell’invecchiamento del personale. Inoltre, dato che l’età media dei dipendenti pubblici è aumentata in modo costante in tutto il decennio mentre il blocco del turn over è stato allentato negli ultimi anni, è verosimile che l’introduzione della legge Fornero sia il principale responsabile dell’invecchiamento nella seconda parte del periodo. Se è difficile che lo sblocco del turn over possa generare effetti rilevanti già nel 2019, non è da escludere che a partire dal 2020 il numero di dipendenti pubblici torni a crescere.
A parte un giusto contrasto ai cosiddetti “furbetti del cartellino”, il ddl prevede la creazione di un Nucleo per la Concretezza composto da 53 persone che dovrebbe monitorare la realizzazione di un Piano per la concretezza, che verrebbe stilato dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Una maggiore assenza dal lavoro rispetto al settore privato potrebbe essere fisiologica: il personale della PA ha una diversa composizione sociodemografica rispetto al settore privato, con una maggior presenza di donne ed una più alta età media, caratteristiche che portano ad assentarsi più spesso degli altri.[. Moltiplicando questi 2,77 giorni di assenza per 1,7 milioni di lavoratori, parliamo di 4,7 milioni di giorni di assenza “in eccesso”. Dato che si lavora circa 270 giorni l’anno, 4,7 milioni di giorni di assenza corrispondono ad un anno di lavoro di circa 17.500 dipendenti pubblici. Inoltre, come era stato rilevato già nel 2014, un meccanismo di turnover che si basa solo sulla spesa e non anche sul numero di dipendenti “prefigura senz'altro un elemento di "indebolimento" nel meccanismo, nel medio-lungo periodo, dei fattori che incidono sulla spesa per redditi di lavoro dipendente sostenuta dalle Amministrazioni”[15]. Commissari : per sveltire le procedure per la formazione delle commissioni, il ddl prevede di istituire un Albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici di concorso, cui attingere per la formazione delle commissioni, e di consentire a personale in pensione da non più di 4 anni di far parte delle commissioni. Considerando invece 5 giorni di lavoro a settimana, le giornate di lavoro sarebbero circa 220, ergo 4,7 milioni di giorni di assenza corrisponderebbero ad un anno di lavoro di circa 21500 dipendenti pubblici, e il costo dell’assenteismo sarebbe quindi di oltre 950 milioni.
Quali regioni hanno troppi dipendenti pubblici?
Quel che è chiaro, invece, è che le regioni a statuto speciale hanno un numero di dipendenti pro capite molto più alto delle altre, indipendentemente dalla loro localizzazione e anche al netto delle maggiori competenze. Fra le regioni a statuto ordinario, tre regioni (Liguria, Lazio e Calabria) hanno un numero di dipendenti più elevato di quanto sembra giustificabile in base alle dimensioni della loro popolazione e tenendo conto di possibili economie o diseconomie di scala. La conferma della specificità delle regioni a statuto speciale è visibile nella Figura 2, dove gli indici sono stati aggregati per macroarea e tipologia di regione: le regioni a statuto ordinario (RSO) dispongono in media di 10,1 dipendenti ogni 1000 abitanti, mentre quelle a statuto speciale (RSS) ne hanno 16,4, il 62% in più. Cosa può esserci quindi alla base della comune convinzione che le regioni del Sud sovrabbondino di dipendenti pubblici? Una possibile risposta può essere ipotizzata guardando alle dimensioni del personale degli enti territoriali in rapporto non all’intera popolazione regionale, ma soltanto alla popolazione occupata. Estendendo questo ragionamento ad altre categorie di dipendenti pubblici e a tutte le RSO, si può costruire una graduatoria tra regioni che tenga conto dell’esistenza di economie di scala, cioè che sottragga al valore effettivo di dipendenti per abitante il livello “giustificato” dalle economie di scala. Il risparmio in termini di spesa, utilizzando il valore della spesa media per dipendente ricavabile dai dati della Corte dei Conti per ciascuna di queste regioni, sarebbe pari a circa 186 milioni di euro per la Liguria, 611 milioni di euro per il Lazio e 129 milioni di euro per la Calabria. In conclusione, Liguria, Lazio, Calabria e forse Basilicata sono meritevoli di attenzione nel senso che l’elevato numero di dipendenti richiederebbe una spiegazione in termini di variabili oggettivamente misurabili (ad esempio, il numero di anziani sulla popolazione oppure la conformazione del territorio).
La divergenza degli stipendi pubblici si riduce, ma resta elevata per i dirigenti
Il mancato rinnovo dei contratti ha eliminato un’anomalia del settore pubblico italiano: un eccessivo livello dei salari pubblici non spiegato da differenze di competenze. Gli stipendi di molti dirigenti pubblici, soprattutto quelli delle fasce più elevate, restano invece ancora significativamente più alti di quelli dei dirigenti degli altri principali paesi europei. Nella media degli ultimi 36 anni, il rapporto tra retribuzioni pubbliche e private (linea blu continua nella Figura 1) è stato di 1,27: il differenziale salariale (wage gap) è stato quindi del 27 per cento a favore del settore pubblico. Il confronto tra retribuzioni pubbliche e private deve tener conto però delle differenze nelle competenze richieste e, in generale, delle diversità di composizione tra lavoratori pubblici e privati (per esempio, nel settore pubblico potrebbe essere maggiore la quota di lavoratori con un grado di istruzione più elevato). Gli stipendi italiani sono più elevati di quelli esteri per i dirigenti di prima fascia e per quelli di seconda fascia con funzioni di coordinamento, anche se, per quest’ultimo gruppo, gli squilibri sono meno contenuti e il differenziale risulta sostanzialmente uguale a quello francese. L’eccesso di retribuzione dei dirigenti italiani rispetto ai colleghi dei tre paesi europei si attesta, in media, al 65 per cento per i dirigenti apicali, al 96 per cento per i dirigenti di prima fascia e al 18 per cento per i dirigenti di seconda fascia con funzioni di coordinamento. Informazioni di fonte OCSE relative agli anni precedenti suggeriscono però che gli stipendi dei dirigenti di seconda fascia italiani, dopo anni di mancato rinnovo dei contratti, non siano ora più elevati di quelli degli altri paesi OCSE, sempre rispetto al reddito pro capite.