Smart working: dove eravamo, dove siamo e come sta reagendo la rete italiana
di Francesco Tucci e Giampaolo Galli
23 aprile 2020
In una recente nota ci siamo occupati della digitalizzazione, con particolare riferimento al mondo della PA.[1] In questa approfondiamo invece un altro aspetto fondamentale di tale processo, quello dello smart working, analizzandone sia la diffusione nel nostro Paese prima dell’epidemia, sia come quest’ultima abbia contribuito in maniera decisiva a stimolarne ulteriormente l’introduzione nel mondo del lavoro (pubblico e privato). Da ultimo, analizziamo anche come la rete infrastrutturale italiana abbia risposto all’incremento del traffico per via dell’emergenza e le misure adottate in materia dall’AGCOM.
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L’epidemia in corso ha obbligato un gran numero di persone, lavoratori dipendenti, autonomi, studenti ecc., a ricorrere al lavoro o allo studio online. Facendo di necessità virtù, il DPCM del 4 marzo 2020 ha stabilito che la modalità di lavoro agile (più comunemente noto come “smart working”) possa essere estesa, per tutta la durata dello stato d’emergenza dichiarato il 31 gennaio, a tutti i rapporti di lavoro subordinato, anche derogando ad alcuni degli obblighi originari previsti dalla legge istitutiva di questa modalità di lavoro nel nostro ordinamento.[2],[3]
Per quanto possa sembrare strano alla luce di quanto sta succedendo oggi, il lavoro agile ha trovato una sistemazione legislativa solo di recente, con la legge n. 81/2017, la quale lo definisce all’art. 18 come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’ attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.[4] Lo smart working si differenzia quindi in maniera sostanziale dallo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità cd. di telelavoro. Mentre quest’ultimo infatti, pur permettendo l’esecuzione della prestazione lavorativa da remoto, prevede l’installazione presso l’abitazione del lavoratore di specifiche apparecchiature tecnologiche e il rispetto degli stessi orari di lavoro che il dipendente avrebbe osservato in ufficio, lo smart working garantisce al lavoratore piena libertà di scelta del luogo (e spesso anche dell’orario) in cui svolgere la prestazione lavorativa. Per questo motivo, alcuni esperti hanno sottolineato come solo lo smart working consenta una valutazione delle performance del lavoratore esclusivamente legata agli obiettivi raggiunti, e non a criteri connessi ad esempio all’estensione temporale della prestazione lavorativa.[5]
Sebbene l’attuale contesto di forzata applicazione dello smart working domestico a molti rapporti di lavoro non consenta di apprezzare pienamente i benefici e gli svantaggi che possono derivarne in condizioni normali, di seguito si fornisce un breve inquadramento del tema in vista del dibattito che verosimilmente accompagnerà la diffusione di questa modalità di lavoro al termine del lockdown.
La diffusione dello smart working prima del COVID-19
I pochi studi comparativi sulla diffusione dello smart working prima dei grandi cambiamenti provocati dall’epidemia delineavano un quadro non molto confortante con riferimento al nostro Paese. Un rapporto di Eurofound del 2017 posizionava infatti l’Italia in fondo alla classifica dei paesi UE per la diffusione dello smart working tra i lavoratori, con un misero 7 per cento dei dipendenti a farne ricorso, rispetto al 12 per cento della Germania, al 25 per cento della Francia e al 26 per cento del Regno Unito.[6]
Sulla base dei dati dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, i lavoratori in smart working in Italia nel 2019 venivano stimati in 570.000 unità, con un incremento del 20 per cento rispetto al 2018.[7] Con riferimento alla dimensione aziendale, il 65 per cento delle grandi imprese considerate sosteneva di aver intrapreso iniziative strutturate o informali (con una netta predominanza delle prime sulle seconde) per la diffusione del lavoro agile, contro il 30 per cento delle PMI e il 23 per cento delle PA.[8]
Per quanto riguarda la percentuale di progetti in fase di sviluppo e/o valutazione, il 27 per cento delle grandi imprese dichiarava di essere sul punto di realizzare una qualche modalità di smart working o di ritenerne probabile una prossima introduzione, contro il 9 per cento delle PMI e il 36 per cento delle PA.
Accanto a questi studi, alcune ricerche elaborate in seguito allo scoppio dell’epidemia COVID-19 hanno cercato di stimare la percentuale di occupazioni potenzialmente eseguibili in modalità smart working nel nostro Paese. In un recente contributo, Boeri et al. (2020) stimano tale percentuale attorno al 24 per cento della forza lavoro.[9] In un altro recente studio, Barbieri et al. (2020) classificano i 21 macro-settori economici italiani in base ad un indice di propensione al lavoro da remoto, con il settore dell’ICT, quello delle attività professionali e le attività finanziarie che mostrano gli indici di propensione allo smart working più elevati.[10] A livello nazionale, le stime fornite dagli autori indicano come il 34,6 per cento dei lavoratori svolga occupazioni caratterizzate da un’elevata propensione al lavoro da remoto.[11]
La diffusione dello smart working durante l’epidemia
Con il diffondersi dell’epidemia nel nostro Paese, alcuni studi basati su sondaggi effettuati tra diversi operatori del sistema economico testimoniano come il sistema produttivo si sia adattato velocemente alle nuove esigenze, il che ha portato a una rapida diffusione dello smart working anche in ambiti dove in precedenza tale modalità non era stata ancora introdotta.
Uno studio commissionato da ManagerItalia ad AstraRicerche mostra infatti come nel 29 per cento delle piccole imprese, nel 39 per cento delle medie e nel 45-47 per cento delle grandi imprese sia stato consentito a molte persone di operare per la prima volta in modalità smart working.[12] Anche se la natura del quesito posto dal sondaggio non consente un confronto omogeneo, è evidente come da questi ordini di grandezza, se comparati con le stime citate in precedenza riguardo al numero di imprese che ritenevano probabile l’implementazione del lavoro agile, si evince che lo shock organizzativo provocato dall’epidemia è stato molto forte e ha spinto moltissime imprese, comprese quelle che non avevano in programma di farlo, ad introdurre lo smart working. L’introduzione del lavoro agile è stata più diffusa nel Nord del paese (42 per cento per il Nord Ovest, 33 per cento per il Nord Est), rispetto al Centro/Sud (28 per cento), accentuando ulteriormente la disparità territoriale nella diffusione di tale pratica. Infatti, la percentuale di lavoratori che, facendone già uso in precedenza, hanno intensificato il ricorso allo smart working in queste settimane presenta la stessa distribuzione geografica, anche se con differenze territoriali più contenute.[13]
Un altro sondaggio effettuato dall’AIDP nelle scorse settimane fornisce un ordine di grandezza simile per quanto riguarda la diffusione dello smart working. Su 638 capi del personale partecipanti al sondaggio, 350 (circa il 55 per cento) hanno risposto infatti di aver adottato il lavoro agile come modalità di risposta all’emergenza sanitaria.[14]
Per quanto riguarda l’estensione del ricorso al lavoro agile nella PA, gli unici dati al momento disponibili riguardano il personale dipendente delle Regioni.[15] Il dato nazionale ci dice che, per il momento, il 73,8 per cento di tale categoria ricorre attualmente allo smart working, un livello incoraggiante che però nasconde un’ampia eterogeneità, anche se con linee di demarcazione diverse rispetto alla classica frattura tra Nord e Sud del Paese. Al Sud infatti si registra sia il dato di diffusione più basso (il 46 per cento della Calabria), sia quello più alto (il 100 per cento dell’Abruzzo). Al Nord invece si registrano sia dati molto elevati (come il 98,4 per cento della Lombardia), sia performance più deludenti (come il 51,9 per cento del Veneto).
È evidente che nell’emergenza lo smart working è stato essenziale per mantenere in attività una grande quantità di servizi, a cominciare da quasi tutti quelli erogati dalle amministrazioni pubbliche, ed è probabile che nella fase due della graduale ripresa e poi con il ritorno alla normalità questa modalità di lavoro si stabilizzi su valori molto più elevati che in passato. Va detto però che, al di là dell’emergenza, vi sono opinioni diversificate circa i suoi possibili benefici a livello economico e socio-psicologico. Tra i benefici che sono stati prospettati, vi è consenso nell’indicare un miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata,[16] un aumento di produttività (Angelici e Profeta, 2020),[17] oltre ad una maggiore efficienza dei processi aziendali (in particolare per quanto riguarda l’orientamento agli obiettivi).[18] Al contrario, in cima alle problematiche emerse finora troviamo la percezione di un maggior isolamento rispetto all’ambiente di lavoro, la possibilità di distrazioni esterne provenienti dall’ambiente domestico e il pericolo di overworking.[19]
E la rete infrastrutturale italiana come reagisce?
L’articolo 82 del Decreto Cura Italia (dl. 18 del 17 marzo 2020) stabilisce una serie di misure in capo agli operatori fornitori di reti e di comunicazioni elettroniche, al fine di agevolare l’incremento del traffico dati sulle infrastrutture, anche e soprattutto per la maggiore diffusione dello smart working dalle utenze domestiche.
A tale proposito l’AGCOM viene incaricata, laddove necessario, di modificare il quadro regolatorio vigente, al fine di renderlo omogeneo con l’obiettivo prioritario di facilitare lo sviluppo del traffico dati. Nelle linee guida di applicazione dell’art. 82, l’AGCOM ha inoltre specificato che le misure proposte dagli operatori saranno valutate anche nella prospettiva di favorire la migrazione a tecnologie in fibra ottica.[20]
Con Circolare del 20 marzo, l’Autorità ha richiesto: i) che tutti gli operatori si adoperino per individuare soluzioni tecniche per un aumento della banda media per cliente su rete fissa di almeno il 30 per cento; ii) la riduzione da 30 a 10 giorni del preavviso sul portale wholesale di TIM della disponibilità di nuove infrastrutture di accesso a banda ultralarga (NGA), prima della possibilità di attivarle in condizioni di parità di trattamento.[21]
Inoltre, fino al 30 giugno 2020, in caso di assenza di copertura da rete fissa a banda larga e ultralarga, su richiesta del condominio o dell’Ente o soggetto giuridico, gli operatori devono valutare: i) soluzioni di accesso a banda larga o ultralarga radio, tramite un singolo accesso condiviso; ii) misure di condivisione degli hot-spot Wi-Fi dei propri utenti (di cui gli operatori devono comunque raccomandare l’uso) anche nei confronti di utenti terzi, per l’eventuale condivisione di capacità inutilizzata; iii) eventuali ulteriori misure di traffic management.
Per quanto riguarda le misure proposte dagli operatori stessi, sono state approvate dall’AGCOM: i) le proposte avanzate da TIM di riduzione dei costi wholesale unitari della banda Ethernet su rete in rame e fibra; ii) per le migrazioni “massive” verso servizi UBB (UltraBroadBand), le riduzioni dei contributi di migrazione a carico degli altri operatori fra il 30 e il 50 per cento rispetto all’Offerta di Riferimento 2018 (OR 2018), in base ai volumi mobilitati. Per Open Fiber è stata invece approvata la promozione di 50 euro sui contributi di attivazione di una linea FTTH.[22]
Dal rapporto pubblicato il 15 aprile dall’autorità di regolazione europea (BEREC) emerge come l’AGCOM risulti essere l’unico regolatore nazionale ad aver adottato un pacchetto di misure volte ad agevolare l’incremento dei flussi di traffico sulla rete infrastrutturale.[23] Si può dunque sottolineare come l’Autorità abbia certamente adottato tempestivamente misure opportune a gestire l’emergenza in corso.
Il 3 aprile, l’AGCOM ha avviato un monitoraggio specifico del traffico dati e voce per valutare la tenuta della rete infrastrutturale. I dati non sono ancora disponibili, ma sembra si possa dire, anche guardando i reclami rivolti all’AGCOM e all’AGCM, che fino ad ora non sono state evidenziate particolari criticità. Rimane il dato che una parte del paese non è ancora raggiunta dalla banda larga (il 26 per cento delle famiglie)[24] e che, secondo l’Istat, il 12,3 per cento dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni non ha accesso alla didattica a distanza perché non ha un pc o un tablet a casa.[25]
[6] Eurofound and the International Labour Office (2017), Working anytime, anywhere: The effects on the world of work, Publications Office of the European Union, Luxembourg, and the International Labour Office, Geneva.
[8] Il 58 per cento delle grandi imprese dichiarava di aver intrapreso iniziative strutturate, a fronte di un 7 per cento di imprese con iniziative informali.
[9] Boeri, T., Caiumi, A., Paccagnella, M. (2020), Mitigating the work-safety trade-off, Covid Economics: vetted and real-time papers, 2 issue, 8 aprile. Nello studio tali tipologie di lavori vengono definite di “tipo 1”.
[11] La propensione al lavoro da remoto di un’occupazione è elevata se l’indice di possibilità di lavoro della stessa ricade all’interno del terzile più alto della distribuzione degli indici, pesati per la quota di lavoratori che ricoprono una determinata occupazione.
[13] 49 per cento al Nord Ovest, 45 per cento al Nord Est e 39 per cento al Sud.
[14] Si veda AIDP (2020), Comunicato stampa: il 90 per cento delle aziende ha adottato misure per contrastare il coronavirus, 3 marzo.
[16] Da questo punto di vista, sarà interessante analizzare in futuro l’effetto che lo smart working produrrà sulla riduzione o meno del gender pay gap.
[18] Osservatorio Smart Working POLIMI (2019), op. cit.
[19] Eurofound and the International Labour Office (2017), op. cit.
[21] AGCOM (2020), Prime misure in attuazione dell’art.82 del Decreto “Cura Italia”, Circolare del 20 marzo.
[24] Banfi, A., Galli, G. (2020), op. cit.
[25] Istat (2020), Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, 6 aprile.