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La qualità delle istituzioni pubbliche nelle province italiane
Le province del Nord-Est risultano avere la migliore qualità delle istituzioni, seguite dall’area del Nord-Ovest e del Centro, mentre le ultime posizioni sono occupate interamente dal Mezzogiorno. Dal 2004 al 2019 i divari territoriali sono rimasti sostanzialmente invariati, ma alcune province sono migliorate, come Avellino e Pesaro-Urbino, mentre altre, come Aosta, sono peggiorate. Il confronto con l’European Quality of Government Index suggerisce che il grado di qualità delle istituzioni rilevato dai dati oggettivi corrisponde, in via generale, a quello percepito dai cittadini. È stato di recente aggiornato, con dati fino al 2019, l’Institutional Quality Index (IQI), un indice sintetico che misura la qualità delle istituzioni pubbliche per diverse provincie italiane. Confronto tra macro-regioni Aggregando i dati a livello di macro area (Nord, Sud e Centro), ponderati per la popolazione delle province, emerge un significativo divario territoriale tra Centro-Nord e Sud. Le regioni peggiori sono nel Mezzogiorno, con alcune differenze: in Abruzzo, Puglia e Basilicata la qualità delle istituzioni è superiore rispetto a Campania, Sicilia e Calabria che registrano valori inferiori a 0,25 (Tav.1). Confronto tra regioni e province: evoluzione temporale La regione che dal 2004 ha registrato il più forte miglioramento è stata la Campania (0,20 punti) che però partiva da un valore vicino a zero.
Blocco e sblocco del turnover: gli effetti sulla PA
A partire dal 2008 le assunzioni della pubblica amministrazione (PA) sono state bloccate attraverso una serie di provvedimenti, che hanno previsto anche limitazioni alla sostituzione del personale in uscita. I limiti hanno riguardato fino al 2014 sia la spesa sostenuta per gli uscenti sia il numero di dipendenti (limite capitario) e dopo il 2014 solo la prima, consentendo un aumento del personale a parità di spesa. Anche nel settore privato si è osservato un calo dell’occupazione all’incirca nello stesso periodo, ma è stato meno forte: tra 2008 e 2012 il numero dei lavoratori del settore privato si è ridotto di circa 320.000 unità (2 per cento contro 5,6 per cento), per poi tornare a crescere fino al 2019. Questo aumento è in parte “fisiologico” in un paese che invecchia: nello stesso tempo, l’età media della popolazione italiana è aumentata di due anni e mezzo (da 43 a 45,5 anni) e l’aumento dell’età media dei dipendenti pubblici ha anche risentito dell’aumento dell’età di pensionamento. La legge finanziaria per il 2007 prevedeva che, in tutte le amministrazioni, si potesse procedere ad assunzioni per una spesa pari al 20 per cento di quella relativa alle cessazioni avvenute nell’anno precedente e per un numero di dipendenti non superiore al 20 per cento di quelli cessati. Per quanto riguarda gli enti di ricerca, il limite in termini di spesa dell’anno precedente è stato adeguato a quanto previsto per le amministrazioni centrali (oltre al limite di spesa dell’80 per cento delle entrate correnti). Per gli enti che hanno un valore superiore (quindi una spesa per il personale ritenuta non sostenibile) ad altri appositi valori soglia più elevati, è previsto invece un percorso di riduzione del rapporto fino al raggiungimento degli stessi, se necessario anche ricorrendo ad un turnover inferiore al 100 per cento.
Le nuove norme sugli appalti previste dal dl Semplificazioni
Inoltre, esse impongono anche una serie di regole armonizzate per le gare d’appalto che eccedono un determinato valore economico (cd. soglie comunitarie) e che quindi vengono considerate di interesse sovra-nazionale. In particolare, le direttive europee stabiliscono l’obbligatorietà dell’assegnazione tramite procedure competitive (gare d'appalto), oltre a determinare le modalità di redazione e pubblicazione dei bandi di gara e prevedere l’obbligo di trasmettere i contenuti degli appalti al supplemento della Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Regole per la partecipazione alle gare per appalti di lavori Focalizzandoci ora sugli appalti di lavori (ossia gli “investimenti pubblici”), Il Codice dei Contratti pubblici nel 2016 prevedeva forme semplificate di appalto nei contratti con valori più modesti, a partire dalla assegnazione diretta senza gara (Tav.1). Inoltre, per i contratti con valore inferiore ad un milione di euro sono stati allentati i paletti della procedura negoziata, consentendo di restringere la gara a un minor numero di operatori per gli di importi minori. Dopo alcune variazioni nel DL Semplificazioni del 2020, Il DL Semplificazioni del 2021 definisce tre modalità di gara: l’affidamento diretto per lavori sotto 150.000 euro; la procedura negoziata con 5 operatori ammessa per i contratti da 150.000 euro a 1 milione di euro. PNRR e pari opportunità Per quanto riguarda gli appalti relativi alle opere del PNRR, il dl Semplificazioni prevede l’obbligo per le aziende con più di 15 dipendenti di presentare un rapporto sulla situazione del personale in riferimento all’inclusione delle donne nelle attività e nei processi aziendali. Vengono inoltre introdotti ulteriori provvedimenti per rafforzare la trasparenza nelle procedure relative agli appalti: grazie all’accorpamento della banca dati degli operatori economici alla banca dati dei contratti pubblici, sarà possibile monitorare in maniera più efficiente le performance degli assegnatari dei contratti d’appalto da parte delle stazioni appaltanti.
La riforma della PA: cosa manca nel PNRR
Un aspetto problematico di questa riforma, presente sia nel PNRR sia nelle schede tecniche, è la riforma del cosiddetto “ciclo della performance”, introdotto in teoria un decennio fa per focalizzare la PA verso una gestione della spesa pubblica orientata ai risultati. Dei tanti aspetti toccati dalla proposta di riforma della PA contenuta nel PNRR, qui ci concentriamo sulla gestione e sulla valutazione delle amministrazioni pubbliche tramite la definizione di obiettivi monitorabili, di indicatori di performance specifici, di un processo di valutazione dei risultati e del relativo premio al merito. Nonostante la riforma del 2009, in Italia la gestione e la valutazione della PA tramite la definizione di obiettivi chiari e misurabili non si è mai affermata in pratica. Limitare a poche righe nel testo principale del PNRR il trattamento della questione segnala che questa riforma non è certo considerata una priorità da parte del governo e, implicitamente, dalle forze politiche che lo sostengono. In questo modo le amministrazioni centrali faranno riferimento a un unico insieme di obiettivi; Il legame tra ciclo della performance e valutazione del raggiungimento degli obiettivi individuali e dei premi per i dirigenti sarà una parte significativa della loro remunerazione. Infatti, a differenza degli interventi, per esempio, per riformare il reclutamento dei dipendenti pubblici o per la digitalizzazione, l’implementazione della riforma del “ciclo della performance” e del “performance budgeting” è scandita da una sola milestone (obiettivo) fissata per fine 2024. Nello specifico, questa milestone prevede una vaga “implementazione di un insieme di indicatori della performance outcome-oriented” e l’inizio della redazione semestrale di un report su questi indicatori.
Fiumi di parole Home Archivio Studi e analisi Fiumi di parole Fiumi di parole di Carlo Cottarelli e Giulio Gottardo 13 maggio 2021 La lunghezza dei documenti di politica economica del governo italiano è aumentata nel tempo e ora supera di gran lunga quella degli altri paesi europei. Il Programma di Stabilità del 2021 contiene più del doppio delle parole rispetto alla media degli altri paesi europei, nonostante – in base alle norme europee – il contenuto richiesto sia lo stesso. Eppure, fino al 2005 il DEF italiano era più corto di quello tedesco e nel 2010 aveva metà delle parole rispetto ad oggi. Negli ultimi mesi sono circolati numerosi documenti di politica economica, dalla Legge di Bilancio di fine 2020 al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), passando per il Documento di Economia e Finanza (DEF). Per quanto si possano considerare l’economia e le finanze pubbliche italiane più complesse e “problematiche” di quelle degli altri paesi europei, è inverosimile che questi elementi siano in grado di spiegare da soli il fatto che il Programma di Stabilità italiano sia due volte più lungo di quello francese. Il fatto che tutti i paesi europei riescano a comunicare le stesse informazioni con documenti molto più corti suggerisce che sia possibile scrivere un Programma di Stabilità più conciso e accessibile. Anche i paesi UE che non appartengono all’Area Euro inviano alla Commissione un documento analogo al Programma di Stabilità nei contenuti, denominato “Programma di Convergenza”.
Il test della multa: le risposte delle prefetture
Per circa un terzo delle prefetture la risposta è stata rapida e corretta, ma per oltre un terzo non è stato possibile avere una risposta. Abbiamo chiamato le 106 prefetture d’Italia chiedendo: (i) quali sono i termini per presentare ricorso al prefetto contro una multa per violazione del codice della strada; e (ii) quali sono le modalità per inoltrare tale ricorso. Il ricorso deve essere inoltrato alla prefettura del luogo dove è avvenuta la violazione entro 60 giorni dalla contestazione o notificazione per tramite di una raccomandata con ricevuta di ritorno, di posta elettronica certificata (PEC) o recandosi di persona in prefettura. Si è scelto di contattare gli URP perché questi dovrebbero essere, stando a quanto riportato nei siti internet delle prefetture, il punto di incontro con i cittadini, per guidarli e facilitarli nell’accesso ai servizi offerti, fornendo loro direttamente prestazioni e informazioni o indirizzandoli verso gli uffici preposti a farlo. Gli URP (o i centralini) di ciascuna prefettura sono stati chiamati per un massimo di tre volte, registrando l’informazione del numero di chiamate necessarie prima di avere una risposta. Un esempio di risposta imprecisa è indicare in 30 giorni, invece di 60, il termine di presentazione per il ricorso (questo è il termine per il ricorso al Giudice di Pace), oppure suggerire una sola tra raccomandata e PEC come possibile modalità di inoltro. Tra le 37 prefetture da cui non è stato possibile avere una risposta, per 11 il telefono è squillato a vuoto, per 5 è risultato sempre occupato, per 21 le chiamate hanno dato vita a una serie di inoltri del tutto inconcludenti.
Il test della telefonata: le risposte delle Agenzie delle Entrate
Dopo il nostro esperimento sui tempi di risposta delle Prefetture alle domande dei cittadini, abbiamo telefonato agli oltre 100 Uffici provinciali dell’Agenzia delle Entrate per effettuare un’indagine simile. Questa istanza, in base a quanto riportato sul sito dell’Agenzia delle Entrate, si può effettuare presentando all’Ufficio provinciale un modulo compilato assieme a dati anagrafici, catastali e documentazione della differenza tra rendita effettiva e rendita catastale. uffici (16,1 per cento della popolazione, 9,5 milioni) hanno ricevuto 1 punto e 21 uffici (16,0 per cento della popolazione, 9,5 milioni) hanno ricevuto il punteggio massimo (Tav. 1). Il punteggio medio è stato 0,6; il punteggio medio pesato per la popolazione (gli uffici che coprono province più popolate hanno un peso maggiore) è stato 0,5. In ogni caso, il problema principale rimane il fatto che – per due terzi della popolazione italiana – contattare l’Ufficio provinciale territorio dell’Agenzia delle Entrate per una semplice domanda è un’operazione che richiede più di tre tentativi oppure si traduce in una risposta sbagliata. Chiamando questi numeri, dopo una parte registrata che è comune sul territorio nazionale, la struttura delle opzioni varia da regione a regione, portando, comunque, a parlare con l’ufficio di cui si necessita. Inoltre, la somma delle quote di popolazione non è 100 perché la Provincia Autonoma di Bolzano è stata esclusa, in quanto il suo Ufficio provinciale è organizzato troppo diversamente per essere comparabile.
La valutazione della performance della PA: alcuni spunti di riflessione
Viene redatta secondo gli indirizzi impartiti dal DFP e validata, in termini di forma e di contenuto, dall’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) entro il 30 giugno di ogni anno. Ma il dato di 376 giorni è il valore della durata media dei procedimenti civili nei tribunali ordinari del 2017, che viene mantenuto come valore di riferimento e fissato come target (come indicato nella Nota integrativa del Ministero, ma non nel Piano delle performance). Anche l’OIV, nella valutazione sulla Relazione sulla performance, parlando delle criticità segnala la “non chiarezza nel collegamento tra obiettivi di performance organizzativa e valutazione del grado di raggiungimento degli obiettivi individuali”. L’albero della performance del Ministero si ramifica infatti a partire da cinque macroaree di azione, tra le quali vengono poi ripartiti 21 obiettivi di performance derivanti dall’atto di indirizzo politico, affiancati da 16 obiettivi relativi ad attività amministrative continuative e generali, anche se tutti relativi ad una sola delle cinque macroaree. La performance viene misurata per ogni obiettivo da uno o più indicatori di diversa natura (sia di input, sia di output), rilevati rispetto ad un livello baseline di partenza, il che rappresenta sicuramente una best practice . Il documento di validazione disponibile sul Portale della Performance consta di sole tre pagine piuttosto schematiche, nelle quali non c’è traccia di molte delle osservazioni sul Piano della performance del Ministero attribuite all’OIV, secondo quanto riportato nella Relazione sulla performance; [9] , [10] alcuni indicatori non sono chiari. Simile discorso va fatto, ad esempio, per l’indicatore “numero di domande visto trattate dalla rete visti italiana nel corso del triennio successivo”, che potrebbe essere meglio espresso come numero delle domande di visto trattate sul totale delle domande pervenute; i target sono spesso poco sfidanti.
Come gestire la Pubblica Amministrazione? I Public Service Agreement britannici
Questo sistema, seppur nominalmente abolito nel 2010, è stato in parte mantenuto dai governi successivi e ha consentito di indirizzare maggiormente l’operato di ministri e dirigenti pubblici verso obiettivi concreti e coerenti con quelli del governo. I difetti principali dei PSA erano la mancanza di incentivi monetari per chi raggiungeva i risultati e la difficoltà da parte dei ministeri di allineare l’operato delle loro sotto-unità agli obiettivi generali indicati dal governo. Fin dalla loro nascita nel 1998, quando Tony Blair era Primo Ministro e Gordon Brown Cancelliere dello Scacchiere (ossia ministro del Tesoro), i PSA erano basati su “accordi” (per quanto informali) tra il ministero del Tesoro, che metteva a disposizione risorse, e i vari ministeri, che le ricevevano. Questi accordi informali contenevano una lista di risultati concreti e misurabili che i ministeri dovevano raggiungere entro un orizzonte temporale fissato, solitamente di medio periodo (da 2 a 4 anni, ma con obiettivi intermedi annuali). Di contro, a evolversi fu innanzitutto il numero di target (600 nel 1998, 160 nel 2000, 130 nel 2002, 110 nel 2004 e 30 nel 2007), che diminuì progressivamente per consentire maggior spazio di manovra a ministeri e sotto-unità nello stabilire come raggiungere obiettivi principali di più ampio respiro e sempre più spesso trasversali tra vari ministeri. Questo fenomeno potrebbe essere stato causato dalla necessità di adattare l’azione di ogni unità al contesto specifico, che è peraltro una delle critiche principali ai PSA. L’importanza ricoperta dai PSA nell’operato quotidiano del settore pubblico britannico trova riscontro anche nelle testimonianze degli stessi dirigenti pubblici. Inoltre, i PSA si sono costantemente evoluti grazie all’interesse dei politici all’apice del Partito Laburista e del governo britannico per la messa a punto di uno strumento di indirizzo e controllo dell’azione della PA, ritenuto fondamentale per dare credibilità e seguito ai progetti di riforma del New Labour.
Le dimensioni dello Stato imprenditore italiano
Si dice spesso che le imprese pubbliche in Italia hanno ora un peso minore che in Francia e Germania e che dovrebbero svolgere nel nostro paese un maggiore ruolo “strategico”. Tuttavia, se si considera il comparto delle maggiori imprese, quelle che possono svolgere un ruolo strategico, le partecipate pubbliche hanno già un peso simile in Italia rispetto alla Francia (e superiore a Germania, Spagna e Regno Unito). Sull’onda di Tangentopoli, un referendum dell’aprile 1993 abrogò la legge del 1956 che aveva istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali, con il conseguente passaggio delle partecipazioni pubbliche al Ministero del Tesoro. Gli enti locali infatti hanno fatto sempre più utilizzo di società di diritto privato per la gestione di servizi e per l’esercizio di attività pubbliche, il che ha posto la necessità di limitare l’utilizzo dello strumento societario da parte dei piccoli comuni e di razionalizzare le partecipate locali. Tav. 1: Confronto delle partecipazioni pubbliche strategiche (società non bancarie, 2019) Italia Francia Germania Spagna Regno Unito Partecipate pubbliche tra le 50 società più grandi numero 13 15 6 5 0 Dipendenti delle partecipate pubbliche tra le 50 società più grandi numero (migliaia) 556 1.938 1.681 158 0 percentuale (sul totale delle 50) 34,3 29,0 25,5 7,1 0 Fonte: Elaborazione OCPI su dati Orbis (2019). Infatti, anche se impiegano circa un terzo dei dipendenti delle corrispondenti francesi e tedesche, le principali partecipate pubbliche italiane hanno comunque una quota superiore al 30 per cento della forza lavoro delle 50 maggiori imprese del paese, un dato di 5,3 e 8,8 punti percentuali superiore rispetto a Francia e Germania (Tav. 1). È probabile che questo sia almeno in parte dovuto alla buona performance delle imprese di pubbliche o para-pubbliche che hanno beneficiato di una gestione più trasparente ed efficiente, grazie alla privatizzazione di diritto (ad es. Eni ed Enel in Italia).
Divari territoriali e conti pubblici
A scanso di equivoci, ripetiamo che queste considerazioni sono per noi un mero esercizio di “fact checking” e che la nostra opinione è che le risorse pubbliche per lo sviluppo del Mezzogiorno devono essere incrementate. Per quello che riguarda i dati, la radice del problema è che i CPT non usano le convenzioni internazionali, per cui tutte le definizioni delle variabili, a cominciare dalla definizione del perimetro delle amministrazioni pubbliche, sono diverse da quelle ISTAT/Eurostat. A scanso di equivoci, ripetiamo ancora che queste considerazioni sono per noi un mero esercizio di fact checking e che la nostra opinione, come cittadini e come economisti, è che le risorse pubbliche e private per lo sviluppo del Mezzogiorno debbano essere incrementate. I dati CPT invece sono redatti secondo criteri che prescindono completamente dalle istruzioni Eurostat e, per questo motivo, quando vengono sommati fra tutte le regioni italiane, producono dei totali nazionali che sono molto lontani dai dati ISTAT (Tav. 1.1 e 1.2, prima colonna). Quindi, nei dati afferenti all’aggregato Italia, la colonna “Banca d’Italia” riporta i dati dell’ISTAT (nella versione che era nota nel novembre del 2018, data nella quale è stata pubblicata la ricostruzione dei dati regionali da parte di Banca d’Italia). Gli scostamenti tra i dati di fonte CPT e quelli di contabilità nazionale ISTAT sono giustificati dal diverso metodo di rilevazione che li origina: i primi seguono il principio di cassa, i secondi sono calcolati in termini di competenza. È vero che i CPT hanno un punto di forza nel fatto che rilevano anche la contabilità di quello che essi definiscono Settore Pubblico Allargato (SPA), un concetto del tutto peculiare, che comprende anche le società esterne alla PA, ma controllate direttamente o indirettamente da enti pubblici.
Ancora non sappiamo a che prezzi comprano effettivamente le Pubbliche Amministrazioni
Infatti, proprio gli acquisti che avvengono al di fuori del raggio d’azione delle centrali di acquisto (come Consip) non sono registrati adeguatamente, in quanto è impossibile conoscere i prezzi unitari di acquisto. Negli ultimi vent’anni gli acquisti delle Pubbliche Amministrazioni italiane, sia centrali che locali, sono stati oggetto di un programma di razionalizzazione tramite accentramento. Con la riforma del 2014 si sono potenziati gli enti incaricati di intermediare gli acquisti delle pubblica amministrazione (PA), tra cui Consip e una trentina di altri “Soggetti Aggregatori” per lo più operanti a livello regionale. In ogni caso, questi documenti, seppur informativi, non erano esaustivi, dato che la Relazione riguardava quasi esclusivamente l’operato di Consip, [1] mentre la Rilevazione era un’indagine a campione che confrontava i prezzi solo di alcune merceologie in base alla modalità di acquisto. Occorre ricordare in proposito che la riforma del 2014 prevedeva anche la creazione di una banca dati di degli acquisti della PA e l’elaborazione dei cosiddetti “prezzi di riferimento”, ovvero di prezzi unitari indicativi per le forniture “a maggiore impatto in termini di costo” non intermediate dai Soggetti Aggregatori. Uno dei motivi per cui è difficile coprire un numero maggiore di prodotti è che la banca dati registra sì gli acquisti effettuati dalle varie PA, ma non contiene informazioni circa le quantità acquistate, rendendo quindi impossibile ricavare delle indicazioni di massima sui prezzi unitari. In possesso di questi dati, infatti, sarebbe possibile individuare più rapidamente gli ambiti di spesa e le forniture più “sospette” agendo di conseguenza, ad esempio con dei controlli, oppure ampliando il raggio d’azione delle centrali d’acquisto.
Il quadro di finanza pubblica per il 2020-21: un aggiornamento
Volendo mantenere invariato il grado di sostegno dato dalla politica fiscale all’economia, rispetto all’entità dello shock economico subito, il deficit nel 2021 potrebbe essere del 7,6 per cento ed essere accompagnato da una crescita del Pil del 6,3 per cento. Il prossimo anno il fabbisogno scenderebbe leggermente (510 miliardi) e, sulla base dei piani di finanziamento annunciati, potrebbe essere finanziato per il 48 per cento dalle istituzioni europee, un grado di copertura simile a quello di quest’anno e che dovrebbe quindi essere ben accettato dai mercati finanziari. Nel seguito, quindi, ipotizziamo una caduta del Pil nel 2020 del 9,5 per cento, come nelle previsioni di inizio luglio della Banca d’Italia. Il debito pubblico nel 2020 e 2021 Le precedenti stime implicano che il rapporto debito pubblico/Pil aumenti dal 134,8 per cento di fine 2019 al 160,4 per cento nel 2020 (Fig. 1), contro i 155,7 previsti dal DEF 2020. Il calo, in presenza di un minor deficit, riflette la ripresa consistente del Pil. La quota del debito pubblico detenuta dalla BCE e dalle altre istituzioni europee (fondo Next Gen. Eu e MES) salirebbe dal 17 per cento nel 2019 a oltre il 27 per cento nel 2021. Rispetto al Pil, il debito pubblico italiano detenuto dal mercato a fine 2021 sarebbe all’incirca uguale a quello detenuto a fine 2019 (intorno al 112 per cento), ben al di sotto del massimo raggiunto nel 2014 (quasi il 129 per cento del Pil). La crescita attualmente prevista nel già citato quadro della Banca d’Italia di inizio luglio (che, come si è detto, è in linea con gli ultimi dati disponibili) è di -9,5 per cento quest’anno e di +4,8 per cento nel 2021.
La giustizia civile italiana resta la più lenta d’Europa, ma c’è qualche miglioramento
La performance della giustizia civile italiana nel biennio 2017-2018: l’ultimo rapporto CEPEJ Due sono i principali indicatori tratti dal rapporto su cui vale la pena di soffermarsi: (1) il tasso di smaltimento dei procedimenti e (2) il tempo necessario per portare a compimento i procedimenti. (1) Il tasso di smaltimento dei procedimenti Il tasso di smaltimento misura il rapporto tra i procedimenti definiti e quelli iscritti in un anno (moltiplicato per 100) e quindi dà informazioni sulla capacità degli uffici o sistemi giuridici di gestire il proprio carico di lavoro. Il disposition time per i processi che giungono al terzo grado di giurisdizione (Corte di Cassazione), di solito i processi più importanti, si è ridotto nel 2018 da 2.950 a 2.656 giorni (meno 294 giorni). Questo andamento complessivo deriva da un miglioramento del secondo e terzo grado di giudizio (rispettivamente di 130 e 176 giorni), mentre il disposition time del primo grado è aumentato, anche se solo marginalmente (13 giorni) (Fig. 2). Il Tribunale di Patti è in ultima posizione nel 2019, con 938 giorni, a causa di un aumento della durata media dei procedimenti di 214 giorni dal 2017. In terzultima e in penultima posizione ci sono il Tribunale di Vibo Valentia (912 giorni) e Vallo della Lucania (749 giorni), anche se la durata media dei loro procedimenti si è ridotta rispettivamente di 117 e 35 giorni dal 2017. Ad esempio, se in un ufficio i procedimenti definiti alla fine di un anno sono 80 e quelli pendenti 40, il disposition time di quell’ufficio è pari a 730 giorni e indica che a quell’ufficio serviranno due anni per esaurire l’ammontare di procedimenti rimasti aperti a fine anno.
Corruzione, si interrompe il miglioramento dell’Italia
Rispetto agli altri paesi, nella classifica per corruzione percepita, in cui il primo posto rappresenta il paese con il minor grado di corruzione, l’Italia si colloca al 52esimo posto su 180, perdendo una posizione rispetto all’anno scorso. Secondo Transparency International il miglioramento registrato tra 2014 e 2018 è spiegato dai progressi delle misure adottate per combattere la corruzione, quali il diritto generalizzato di accesso agli atti, una disciplina di tutela nei confronti di chi denuncia (whistleblower) e una maggiore trasparenza nei finanziamenti ai partiti. Pur con questi limiti per quanto riguarda il confronto del reale livello di corruzione tra paesi, il fatto che l’indice abbia smesso di migliorare negli ultimi due anni può indicare la mancanza di ulteriori progressi rispetto ai miglioramenti ottenuti ultimamente. Informazioni più robuste sul livello della corruzione possono invece essere tratte da un altro indice elaborato da Transparency International, che si basa sulla percentuale di persone che dichiarano di aver pagato almeno una mazzetta in un anno. L’ultima rilevazione di questo tipo, pur dando risultati migliori rispetto all’indice di percezione della corruzione, indica che, comunque, l’Italia è il peggior paese dell’Europa occidentale, con il 7 per cento degli intervistati che “confessa” di aver pagato almeno una mazzetta nel 2016 (Fig. 3). Tuttavia, il livello di corruzione sperimentata dell’Italia rimane tra i più bassi del mondo, dato che in quasi tutte le economie emergenti la corruzione è un fenomeno di gran lunga più diffuso. Nella maggior parte dei paesi l’indice della percezione della corruzione è correlato all’indice di esperienza diretta della corruzione.
Perché il lavoro dei parlamentari è considerato un part-time?
Infatti, al contrario che per i Ministri e i dipendenti pubblici, Deputati e Senatori possono svolgere attività lavorative remunerate al di fuori del Parlamento, con i conseguenti rischi in termini di conflitto di interessi e diminuzione dell’impegno profuso. Recentemente, il Senatore Matteo Renzi è stato criticato per aver partecipato a un incontro a Riyad con il Principe ereditario saudita Mohammad Bin-Salman (dietro compenso in quanto parte del board di Future Investment Initiative). In questa nota non entreremo nel merito di tale decisione, bensì ci concentreremo su ciò che ha reso legalmente possibile lo scandalo, ovvero la normativa a cui devono attenersi i parlamentari per quanto riguarda secondi lavori e altre attività remunerate. In generale, durante i loro mandati, i parlamentari italiani possono continuare a svolgere attività lavorative estranee al lavoro parlamentare (sia occasionali, sia più regolari), beneficiando dei relativi redditi, quasi come se il lavoro di parlamentare fosse considerato una sorta di “part-time”. In conclusione, i servitori dello Stato a tutti i livelli, dai dipendenti part-time ai Ministri passando per i dirigenti, sono tenuti dalla legge a dedicarsi pressoché esclusivamente alla loro attività principale. Queste precauzioni appaiono coerenti con l’obiettivo di assicurare che queste persone siano dedicate al loro incarico e che i conflitti di interessi non diventino pervasivi. In questo ambito il problema del conflitto di interessi è in parte irrisolto ed è la radice dell’acceso dibattito negli anni passati riguardante le imprese di Silvio Berlusconi.
Decreto Semplificazioni: i provvedimenti attuativi ostacolano la sua efficacia?
A mesi di distanza dalla sua emanazione, si sostiene che gli obiettivi siano lontani dall’essere raggiunti a causa della mancata adozione dei provvedimenti attuativi, ovvero di tutte quelle norme secondarie che, disciplinando aspetti di dettaglio di una legge, sono essenziali per garantirne una piena efficacia. Ma è sufficiente questo per concludere che l’efficacia del decreto sia al momento limitata? No, perché i principali effetti del decreto non dipendono dai provvedimenti attuativi. Quella più importante è però volta al rafforzamento della regola del “silenzio assenso”: in pratica, nei casi previsti dalla legge 241/1990, non solo il silenzio della pubblica amministrazione equivale a tacito assenso, ma eventuali atti di dissenso adottati tardivamente (ossia oltre i termini pattuiti dalla legge) sono da considerarsi inefficaci. Il sesto, previsto dall’articolo 12, richiede invece al Presidente del consiglio di definire le modalità e i criteri di misurazione dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggior impatto per cittadini e imprese, oltre che le modalità di pubblicazione degli stessi sui siti internet delle amministrazioni. Il terzo titolo richiede l’adozione di cinque provvedimenti attuativi, di cui appena tre sono in linea con l’obiettivo di sostenere e diffondere l’amministrazione digitale. Tra questi, quello previsto dall’articolo 26 appare il più rilevante, perché dovrebbe definire gli aspetti di funzionamento della piattaforma digitale per la notificazione degli atti della PA a cittadini e imprese (si usa il condizionale perché il provvedimento, al pari degli altri quattro, non è ancora stato emanato). Tra i provvedimenti poco rilevanti, un esempio è offerto dal decreto attuativo richiesto dall’articolo 49 (comma 5-ter lettera g), con il quale devono essere definite le tipologie di modifica delle caratteristiche costruttive e funzionali di un veicolo per le quali non è necessaria una prova del mezzo in motorizzazione.
Questa nota aggiorna stime eseguite da diversi autori nel passato, per mostrare come al Mezzogiorno – senza un recupero di efficienza delle istituzioni – incrementi anche consistenti dei trasferimenti correnti e in conto capitale hanno effetti molto modesti sul divario di reddito con il Centro-Nord. Questo avanzo è la somma algebrica dell’avanzo primario del Centro-Nord (100 miliardi., 8 per cento del PIL dell’area) e del deficit primario del Mezzogiorno (63 miliardi, 18 per cento del PIL dell’area). Anche se i consumi e il deficit commerciale sono indicatori di una presenza costante di trasferimenti, negli ultimissimi anni il rapporto investimenti-PIL (che include tutti gli “investimenti fissi lordi”, pubblici e privati) del Meridione è caduto per la prima volta dal 1951 al di sotto di quello del Centro-Nord. Il capitale installato pro capite reagisce di conseguenza, crescendo più rapidamente al Centro-Nord che nel Meridione, dando quindi inizio a una divergenza, ulteriormente accelerata dal calo degli investimenti totali avvenuto dopo le crisi del 2008-2009 e del 2011-2012, che è stato più intenso nel Mezzogiorno. Si osservi tuttavia che fino al 2010 il rapporto investimenti fissi lordi su PIL rimane maggiore nel Mezzogiorno: a parità di efficienza con il Centro-Nord, ciò avrebbe dovuto comportare una riduzione dei divari di reddito, che invece si è verificata in misura pressoché impercettibile. Evidentemente questi investimenti non sono stati in grado di generare una crescita autopropulsiva e di emancipare il Mezzogiorno dalla necessità di trasferimenti facendone crescere la produttività che è ferma, oggi come in passato, a poco più di metà del Centro-Nord. È quindi possibile calcolare il rapporto tra capitale installato pro capite al Mezzogiorno e al Centro-Nord in ogni periodo: a parità di efficienza degli investimenti (e quindi del capitale), il rapporto tra PIL pro capite del Meridione e del Centro-Nord dovrebbe essere allineato ad esso.
Confronto tra paesi sul numero di parlamentari
L’aumento, però, è meno che proporzionale per l’esistenza di “economie di scala”, sicché paesi più grandi tendono ad avere un rapporto più basso tra numero di parlamentari e popolazione. Se si tiene conto di questo ulteriore fattore, l’attuale numero di parlamentari in Italia appare in linea con quello degli altri paesi. Il coefficiente stimato è negativo e altamente significativo (tavola 1, colonna 1), il che conferma la presenza di “economie di scala”: al crescere della popolazione il numero dei parlamentari cresce meno che proporzionalmente. Tenendo conto di questo fattore, il numero appropriato di parlamentari in Italia sale a 829, il che comporta una discrepanza rispetto al numero effettivo di solo 116 unità. Con il taglio proposto di 345 parlamentari il parlamento italiano, con 600 membri, avrebbe un numero di parlamentari di 229 unità al di sotto di quello che sarebbe appropriato sulla base di questo confronto internazionale che tiene conto della sua natura bicamerale (Fig. 5). Sono stati stimati anche modelli in cui il rapporto tra popolazione e numero di parlamentari è funzione del livello della popolazione e del logaritmo del livello, ma il modello riportato nel testo è quello che meglio descrive i dati sulla base del valore dei residui statistici. Il numero appropriato di parlamentari è basato sul confronto con gli altri paesi europei, la stima è stata effettuata sulla base della regressione riportata nella tavola 1, colonna 2.
Confronto tra paesi sul numero di deputati
Confronto tra paesi sul numero di deputati Home Archivio Studi e analisi Confronto tra paesi sul numero di deputati Confronto tra paesi sul numero di deputati di Federica Paudice 9 settembre 2020 In una scorsa nota abbiamo risposto alla domanda “abbiamo troppi parlamentari?”. Dall’analisi risultava che, tenendo conto del bicameralismo paritario in Italia, l’attuale numero di parlamentari appare solo di poco al di sopra di quello appropriato sulla base dei confronti con gli altri paesi europei. Anche in questo caso la conclusione è che al momento il numero dei parlamentari è al di sopra della norma, ma che, con il taglio proposto scenderemmo al di sotto della norma. L’effetto della popolazione è molto significativo e il coefficiente è negativo: paesi di maggiore dimensione hanno un più basso rapporto tra numero di parlamentari per 100.000 abitanti (come evidente anche dalla figura 1). Per vedere se l’Italia ha un numero di parlamentari più elevato di quanto spiegabile dalla sua dimensione, occorre andare a vedere come il rapporto tra numero di parlamentari e popolazione si colloca rispetto alla retta di regressione interpretabile come le “media” del comportamento degli altri paesi (Figura 2). Sulla base di questo modello l’Italia sembra avere un numero di deputati elevato rispetto agli altri paesi. In altre parole, sebbene l’attuale numero di deputati risulti superiore rispetto agli altri paesi, un taglio di 230 deputati risulta eccessivo.
Deposito disavventure burocratiche
Deposito disavventure burocratiche Home Archivio Studi e analisi Deposito disavventure burocratiche Deposito disavventure burocratiche Di Raffaela Palomba 17 settembre 2020 A partire da fine giugno scorso l’Osservatorio CPI ha lanciato un’iniziativa: raccogliere episodi quotidiani di eccessiva burocrazia raccontati dalle dirette “vittime”. Lo scopo è quello di portare alla luce le difficoltà pratiche che i cittadini incontrano nel rapportarsi con gli enti pubblici italiani e provare a fornire soluzioni per rendere più agevoli alcune procedure. Durante i primi due mesi di attività del “Deposito disavventure burocratiche” sono stati raccolti 204 episodi, dei quali 147 hanno superato una prima scrematura: sono stati esclusi quelli poco chiari, che non hanno consentito di individuare con esattezza il problema. Un’ulteriore procedura di cui molti genitori si lamentano è quella per cui, alla nascita di un figlio, è necessario recarsi prima al Comune e successivamente anche all’Agenzia delle Entrate per ottenere una stampa del certificato del codice fiscale, già attribuito dal Comune in sede di dichiarazione di nascita. Per iniziare, si riporta la vicenda di un cittadino che, nonostante abbia rispettato tutti gli adempimenti per il rilascio della patente, è in attesa di un appuntamento alla motorizzazione, che non risponde al telefono e non dà assistenza di persona perché necessario un appuntamento (che però non viene dato!). L’incrocio dei dati consente, infatti, di individuare gli ambiti di maggiore criticità per ogni ente; tali informazioni permetterebbero interventi differenziati per rispondere alle problematiche specifiche dei singoli enti, in modo da rendere più efficaci le misure necessarie per migliorarne l’efficienza. Ciò suggerisce, dunque, che gli interventi da realizzare per queste due categorie di enti dovrebbero avere priorità diverse: ridurre i tempi di risposta per i comuni e portare avanti il processo di digitalizzazione per le amministrazioni centrali.
Gli stipendi dei dipendenti pubblici sono troppo bassi?
A chi ha fatto notare che, in questo momento, sono i lavoratori del settore privato a sostenere il peso della crisi, è stato risposto che gli stipendi pubblici erano stati erosi dai blocchi al rinnovo dei contratti iniziati nel 2010. Attualmente il rapporto tra stipendi pubblici e privati non appare particolarmente basso, essendo solo di poco inferiore alla media degli ultimi decenni. Anche confrontando i livelli del rapporto tra stipendi pubblici e stipendi privati con gli altri paesi, non sono attualmente rilevabili grosse anomalie: il blocco dei rinnovi ha portato le retribuzioni degli statali italiani in linea con quelle dei dipendenti pubblici degli altri paesi avanzati. I principali sindacati hanno indetto per il 9 dicembre uno sciopero dei dipendenti pubblici, anche perché ritengono insufficienti gli stanziamenti previsti dalla legge di bilancio per i rinnovi contrattuali (400 milioni aggiuntivi all’anno fino al 2023, a cui dovrebbero sommarsi gli 1,1 miliardi annui destinati alle retribuzioni di medici e infermieri). L’evoluzione del rapporto tra retribuzioni pubbliche e private Effettivamente, il blocco dei contratti pubblici ha portato a una caduta di questi salari rispetto a quelli privati. Conclusione In conclusione, l’attuale livello delle retribuzioni dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati è di poco inferiore rispetto alla media degli ultimi quarant’anni, mentre il wage premium è in linea con quello degli altri paesi avanzati. Inoltre, è possibile che la crisi porti ad una caduta delle retribuzioni nel settore privato tale da innalzare questo rapporto di più rispetto allo stanziamento previsto dal governo.
Performance budgeting: un'analisi del caso italiano
n.90/2016) sono stati introdotti nel nostro ordinamento i principi del cosiddetto “performance budgeting”, un modo di gestire il bilancio dello stato più orientato alla misurazione dei risultati che si pianifica di ottenere attraverso la spesa pubblica. La spesa pubblica è stata così ripartita in un insieme di “missioni” (ad esempio “Giustizia”), “programmi” (ad esempio “Amministrazione penitenziaria”) ai quali sono associati “obiettivi” ed “azioni” (ad esempio “Miglioramento delle condizioni di detenzione”) e indicatori per la misurazione del raggiungimento degli obiettivi. All’interno di ogni missione ministeriale, le azioni sono le unità di riferimento per la spesa di bilancio e a ciascuna di esse viene destinato uno specifico budget. Tutte queste informazioni sono contenute all’interno della cosiddetta “Nota Informativa”, che fa parte dei documenti del ciclo di bilancio e viene preparata annualmente da ogni Ministero, con il coordinamento della Ragioneria Generale dello Stato. indicatori sono stati scelti per misurare il raggiungimento degli obiettivi, di cui 22 indicatori di risultato (o output ), 34 indicatori di realizzazione fisica e 1 indicatore di impatto ( outcome ). Le osservazioni e gli aspetti critici sollevati all’interno di quella nota sono quindi largamente sovrapponibili alle criticità della Nota Integrativa di previsione 2019-2021, con l’aggiunta dei seguenti problemi: 80 indicatori sui 96 presentati non riportano il benchmark di riferimento. Invece dell’indicatore sulla realizzazione di corsi di formazione e qualificazione, che misura il numero assoluto di partecipanti ai corsi, sarebbe stato meglio utilizzare un indicatore di efficacia dei corsi erogati, come ad esempio la percentuale di individui che hanno superato il test finale del corso.
Lo Stato si accolla i debiti di Comuni e Province: pro e contro di un’operazione complessa
L’accollo da parte dello Stato consente di ridurre l’onere del debito per gli enti locali, e di conseguenza per l’intera PA, perché lo Stato paga interessi più bassi. Il successo di questa operazione dipenderà dal lavoro dell’Unità di coordinamento predisposta, che dovrà ricevere, vagliare e dare attuazione alle richieste di migliaia di Comuni e Province. Nell’attale situazione di scarsa chiarezza nei rapporti finanziari fra Stato ed enti locali, questa misura, anche se è di natura una tantum, potrebbe creare un precedente e generare un problema di moral hazard. Il debito di Comuni, Province e Città metropolitane è molto contenuto rispetto a quello dello Stato Centrale, ammontando a 41,7 miliardi a giugno 2020, di cui 35,2 a carico dei Comuni e i restanti 6,5 delle Province. L’operazione di accollo Per ridurre il peso degli interessi sul bilancio dell’aggregato PA (e dei Comuni in particolare), alla fine del 2019, è stato ideato un meccanismo di accollo dei debiti allo Stato. Secondo molti commentatori infatti questo piano di rinegoziazione delle obbligazioni è nato dall’insoddisfazione dei Comuni e di alcuni politici di fronte al salvataggio di Roma Capitale, che non riservava agli altri enti locali alcun aiuto nella gestione dei loro debiti. Va anche considerato che gli enti locali non vengono mai lasciati fallire e che il complesso delle norme che regolano i rapporti fra Stato ed enti locali (imposte proprie, compartecipazioni a tributi erariali, trasferimenti ecc.) sono oggetto di continue rinegoziazioni e cambiamenti frequenti.
La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni
Il fatto che la spesa nominale pro capite sia simile, ma il reddito e le entrate pro capite siano sensibilmente maggiori al Centro-Nord, fa sì che il peso della spesa della PA nelle regioni del Meridione sia molto maggiore. È quindi pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e le opportunità d’affari sono tipicamente maggiori. La distribuzione regionale della spesa Passando alla pars costruens, per fare un’analisi solida della distribuzione regionale della spesa, occorre fare riferimento all’aggregato della Pubblica Amministrazione (che a livello nazionale è calcolato dall’ISTAT, in base ai criteri Eurostat), la cui disaggregazione per regioni e macroaree è calcolata dalla Banca d’Italia. L’altra correzione ai dati grezzi sulle uscite della PA muove dalla considerazione che nel Mezzogiorno i prezzi sono più bassi che al Centro-Nord; ogni euro di spesa in una regione del Sud ha quindi un potere d’acquisto – e quindi un valore reale – maggiore rispetto al resto del Paese. Per fare questo è necessario effettuare una regressione multivariata, che consenta di cogliere separatamente l’effetto della grandezza e dello status di ogni regione sulla spesa pro capite della PA, lasciando che l’appartenenza al Mezzogiorno spieghi le differenze restanti. Al netto di questi fattori, se non si escludono le pensioni dalla spesa della PA, la differenza tra spesa pro capite nel Mezzogiorno e al Centro-Nord è significativa e negativa: i cittadini meridionali riceverebbero ciascuno circa 1.560 euro in meno (colonna (1)). Come mostra la Tavola 3 (di fonte Ufficio Parlamentare di Bilancio), nella media del periodo 2013-2015, sommando i dati CPT delle entrate per Regione si ottiene un totale nazionale pari al 49,4 per cento del Pil dell’Italia, mentre il dato reale (ISTAT) è 47,7 percento: si tratta di una differenza di circa 29 miliardi.