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Audizione in tema di politiche dell'Unione Europea
Soprattutto nella prima fase della crisi c’è chi ha fatto notare come, ancora una volta, gli Stati Uniti si stavano muovendo più rapidamente dell’Europa, soprattutto in termini di politica di bilancio. Le decisioni prese dalle istituzioni europee, con l’eccezione della BCE che infatti si è mossa più rapidamente, devono essere raggiunte attraverso una faticosa mediazione e in un contesto istituzionale inevitabilmente più lento. Il secondo punto di vista, quello secondo me più appropriato, riguarda il confronto tra la risposta data dalle istituzioni europee nella crisi presente e nelle crisi del 2008-09 e del 2011-12. Forme di prestiti in comune furono limitati al finanziamento del MES e del suo predecessore, il FESF, ma questi enti raccoglievano finanziamenti per prestiti di emergenza a paesi che avevano perso l’accesso al mercato e che avrebbero dovuto ridurre il proprio deficit pubblico, non aumentarlo. Questa differenza nei tempi e nelle modalità di reazione deve senza dubbio molto alle caratteristiche della crisi attuale, una crisi non soltanto di entità anche più grave di quelle precedenti, ma causata da un fattore esogeno, sanitario, indipendente dalle azioni dei singoli paesi e del tutto inatteso. È chiaro che il MES era stato creato per scopi diversi da quelli per cui si intende usarlo ora. Era stato volto a finanziare paesi che avessero bisogno di un aggiustamento relativamente rapido nelle loro politiche di bilancio (Irlanda, Portogallo, Grecia, Cipro) o nel settore bancario (Spagna). In questo senso, la proposta sarebbe un passo, ancorché di limitate proporzioni, nel colmare un vuoto che attualmente esiste nell’architettura dell’Unione Economica e Monetaria, ossia l’assenza di un bilancio europeo di sufficienti dimensioni che possa svolgere, in via permanente, un ruolo anticiclico.
3 indicatori economici a confronto, dal 1861
Il rapporto debito pubblico/Pil Il primo indicatore è il livello del debito pubblico espresso in rapporto al Pil. Il governo prevede che quest’anno il rapporto debito pubblico/Pil aumenti dal 134,8 per cento del 2019 al 155,7 per cento. Negli anni successivi, il debito scese rapidamente grazie agli accordi di Washington del 14 novembre 1925 e di Londra del 27 gennaio 1926, nell’ambito della definizione delle riparazioni di guerra dovute dai tedeschi ai vincitori della prima guerra mondiale. Il rapporto deficit pubblico/Pil Il secondo indicatore è il rapporto tra deficit e Pil. Il governo prevede che nel 2020 il rapporto deficit/Pil salga al 10,4 per cento. Non si tratta di un record: durante la prima guerra mondiale il deficit fu in media del 22 per cento annuo (1914-1918); durante la seconda fu del 23 per cento (1940-1945) con un picco del 33 per cento; infine, nel periodo dal 1975 al 1995 fu in media del 9,5 per cento. Il finanziamento monetario del deficit teneva anche basso il differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita: dalla seconda guerra mondiale ai primi anni ’80, gli interessi impliciti pagati sul debito erano minori rispetto al tasso di crescita nominale del Pil e questo conteneva il rapporto debito/Pil. 3. Di conseguenza, per evitare un aumento tendenziale del debito e del relativo carico di interessi, i paesi dovrebbero attuare politiche di graduale riduzione del rapporto debito pubblico/Pil in periodi non caratterizzati da shock, in modo da consentire un aumento del debito in presenza di sorprese negative. Nel contesto italiano, dal 1861 si sono verificati ben 16 shock negativi che hanno aumentato il rapporto debito/Pil di oltre 10 punti percentuali e sono per lo più legati alle dinamiche delle due guerre mondiali e a momenti di grave crisi economica.
La sanità in Italia: cosa è cambiato nell’ultimo decennio
L’andamento dei posti letto I dati del Ministero della Salute indicano che tra il 2010 e il 2018 i posti letto fra strutture pubbliche e private convenzionate con il SSN sono scesi del 13,7 per cento in termini assoluti e del 15,5 per cento in rapporto alla popolazione. Se al Sud il numero di posti letto in rapporto alla popolazione è sensibilmente più basso rispetto al resto del paese, la riduzione più forte si è verificata invece al Centro (-19,8 per cento; Figura 1). Il calo dei posti letto pro-capite è stato più marcato per le strutture pubbliche (17,1 per cento), ma si è manifestato anche in quelle private accreditate (9 per cento). Inoltre nel 2017 il dato italiano (318 posti ogni 100.000 abitanti), pur essendo simile a quello di paesi come Spagna, Portogallo, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi, era inferiore sia alla media OCSE (467 posti), sia alla media UE28 (541 posti). La terapia intensiva In Italia il numero di posti letto in terapia intensiva in rapporto alla popolazione è invece aumentato del 5,7 per cento tra il 2010 e il 2018 (Figura 3). Le risorse umane: gli infermieri Anche il numero di infermieri è sceso (-7,2 per cento nel periodo 2010-2017), con cali più consistenti nel Centro e nel Sud e Isole (-13 per cento e -10,7 per cento rispettivamente). Per quanto riguarda il personale infermieristico invece, nello stesso periodo, il Veneto (che ha sistematicamente esibito un numero più elevato in rapporto alla popolazione) ha ridotto gli effettivi del 7,4 per cento, a fronte di un mantenimento pressoché costante dell’organico di infermieri da parte della Lombardia.
Smart working: dove eravamo, dove siamo e come sta reagendo la rete italiana
come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’ attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”. In un altro recente studio, Barbieri et al. (2020) classificano i 21 macro-settori economici italiani in base ad un indice di propensione al lavoro da remoto, con il settore dell’ICT, quello delle attività professionali e le attività finanziarie che mostrano gli indici di propensione allo smart working più elevati. Uno studio commissionato da ManagerItalia ad AstraRicerche mostra infatti come nel 29 per cento delle piccole imprese, nel 39 per cento delle medie e nel 45-47 per cento delle grandi imprese sia stato consentito a molte persone di operare per la prima volta in modalità smart working. L’introduzione del lavoro agile è stata più diffusa nel Nord del paese (42 per cento per il Nord Ovest, 33 per cento per il Nord Est), rispetto al Centro/Sud (28 per cento), accentuando ulteriormente la disparità territoriale nella diffusione di tale pratica. Il dato nazionale ci dice che, per il momento, il 73,8 per cento di tale categoria ricorre attualmente allo smart working, un livello incoraggiante che però nasconde un’ampia eterogeneità, anche se con linee di demarcazione diverse rispetto alla classica frattura tra Nord e Sud del Paese. La propensione al lavoro da remoto di un’occupazione è elevata se l’indice di possibilità di lavoro della stessa ricade all’interno del terzile più alto della distribuzione degli indici, pesati per la quota di lavoratori che ricoprono una determinata occupazione.
Le misure economiche della Germania per combattere la crisi
Come tutti i paesi colpiti dall’emergenza economica da coronavirus, la Germania ha utilizzato due tipi di politiche: misure discrezionali di tipo fiscale e garanzie pubbliche per sostenere le imprese. Le prime movimentano 156 miliardi di risorse nel 2020 (4,7 per cento del Pil) portando il deficit delle pubbliche amministrazioni (governo federale, enti locali e previdenziali) al 7,2 per cento del Pil, tenendo conto anche degli stabilizzatori automatici (principalmente perdite di entrate dovute alla recessione). Visto che era previsto un surplus dello 0,75 per cento del Pil, l’effetto di sostegno all’economia (da misure discrezionali e stabilizzatori automatici) rispetto ai piani originari è di circa 8 punti percentuali di Pil (Tav.1). Misure discrezionali fiscali Governo federale, Lander, enti locali e istituti previdenziali hanno stanziato le seguenti risorse: 55 miliardi per programmi di spesa diretta a contenere gli effetti della pandemia, di cui 11,2 miliardi per spese sanitarie; 81,1 miliardi a supporto di piccole imprese e lavoratori autonomi. Tuttavia, sono previste eccezioni per imprese che svolgano ruoli fondamentali per l’economia oppure che abbiano un’urgenza nella necessità di supporto; 100 miliardi per rifinanziare alcuni programmi di Kfw già in essere. Simili anche le risorse aggiuntive per spese sanitarie: la Germania ha mobilitato 11,2 miliardi (0,3 per cento del Pil), mentre l’Italia ha stanziato 7,3 miliardi (0,4 per cento del Pil). In Germania la cassa integrazione è stata erogata su richiesta dei datori di lavoro dagli enti previdenziali e direttamente accreditata sul conto corrente dei lavoratori entro 15 giorni dalla ricezione della domanda, mentre per i trasferimenti a fondo perduto ci sono voluti massimo 5 giorni.
Aiuti di Stato: la Commissione sta davvero penalizzando i Paesi ad alto debito?
La Commissione, oltre ad aver accordato flessibilità sulle politiche di bilancio, ha introdotto un nuovo “Quadro temporaneo” sugli aiuti di Stato per permettere agli Stati di liberare le risorse necessarie. Intanto, in questi giorni, si discute se la Commissione stia penalizzando i Paesi ad alto debito nell’accordare gli aiuti, ma l’Italia risulta il secondo Paese europeo per aiuti notificati sul Pil, dopo la Germania. Per “aiuto di Stato” si intende qualsiasi trasferimento di risorse pubbliche da parte dello Stato alle imprese, creando un vantaggio economico che rischia di falsare la concorrenza. Gli aiuti di Stato sono regolamentati dagli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), e vietati se non in caso di “obiettivi di comune interesse” e nel caso di correzione dei cosiddetti “fallimenti di mercato”. Questo sostegno può essere integrato con gli aiuti “de minimis” (per un massimo di 200.000 euro) ed altre tipologie di aiuti di Stato, portando così l’aiuto massimo per la singola impresa a 1 milione di euro. Le misure italiane All’interno dei circa 300 miliardi di aiuti di Stato che la Commissione ha approvato per l’Italia sono comprese misure economiche di diverso impatto. Tav. 1: Aiuti di Stato per Paese Paese % su totale accordati Aiuti in miliardi Aiuti di Stato / Pil Germania 51,0% 994,5 28,9% Italia 15,5% 302,2 16,9% Francia 17,0% 331,5 13,7% Belgio 3,0% 58,5 12,4% Polonia 2,5% 48,7 9,2% Regno Unito 4,0% 78 3,1% Altri 7,0% 136,5 - Totale 100% 1950 Fonte: elaborazioni Osservatorio CPI su dati Commissione UE e AMECO [1] Per una definizione più dettagliata: http://www.politicheeuropee.gov.it/it/attivita/aiuti-di-stato/ .
Come funzionano gli acquisti di titoli pubblici della BCE?
A fine aprile 2020, lo stock di titoli acquistati dalla BCE nell’ambito del suo APP ammontava ad oltre 2.800 miliardi di euro. Il ritmo degli acquisti mensili dell’APP è variato nel corso del tempo, oscillando tra un massimo di 80 miliardi al mese (nel periodo aprile 2016 – marzo 2017) e un minimo di 15 miliardi al mese (tra ottobre e dicembre 2018). Il 24 marzo il Consiglio direttivo della BCE ha poi introdotto un ulteriore programma straordinario di acquisto di titoli sia pubblici che privati (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) del valore di 750 miliardi di euro; questo programma non rientra nell’APP, ma lo affianca temporaneamente con caratteristiche parzialmente diverse (vedi sotto). Come sono ripartiti i redditi e i rischi legati ai titoli acquistati? La ripartizione dei redditi e la condivisione dei rischi che derivano dall’acquisto di titoli pubblici nell’ambito del PSPP dipendono dalla tipologia del titolo in questione (Tav. 1). Per i titoli nazionali acquistati dalla BCE, i rischi sono condivisi e i redditi che maturano finiscono nel bilancio della BCE, per poi essere redistribuiti alle BCN in base alla capital key al momento della distribuzione dell’utile di esercizio. Ha una dotazione complessiva di 750 miliardi e prevede l’acquisto di tutte le tipologie di titoli che possono essere acquistate nell’ambito dell’APP (quindi titoli sia pubblici sia privati). Il capitale totale della BCE è pari a 10,8 miliardi, di cui 8,8 miliardi conferiti dalle 19 banche centrali nazionali dei paesi dell’Eurozona e 2 miliardi dalle 8 banche centrali nazionali dei paesi con valuta diversa dall’euro.
Il coronavirus ha effetti fiscali retroattivi!
Corrispondentemente, il deficit strutturale, che viene utilizzato per la valutazione del rispetto dei parametri europei all’interno del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), una volta che questi parametri siano riattivati, viene sovrastimato, anche per il passato. Le condizioni del ciclo economico nel PSC Come tengono conto le regole fiscali europee della congiuntura economica in cui si trovano gli Stati membri? La variabile rilevante è l‘output gap, ovvero la differenza percentuale tra il Pil effettivo e il Pil potenziale. L’output gap viene considerato per calcolare il deficit “strutturale”, cioè quello che si avrebbe se non ci fossero fattori temporanei che influiscono sul deficit, quali, appunto, il ciclo economico e misure “una tantum”. Per esempio, se il Pil effettivo fosse inferiore a quello potenziale (cosa che avverrebbe in una fase debole del ciclo economico), le entrate dello Stato sarebbero temporaneamente basse e il deficit effettivo sarebbe più alto di quello aggiustato per il ciclo. Per stimare il valore di lavoro, capitale e TFP quando l’output gap è zero, il MEF utilizza delle serie storiche (tasso di partecipazione alla forza lavoro, numero medio di ore lavorate, investimenti) che coprono il periodo dal 1960 fino all’ultimo anno dell’orizzonte preventivo considerato (es. il DEF 2020 arriva fino al 2021). Successivamente, mediante tecniche di filtraggio delle serie storiche ed equazioni che descrivono la relazione tra prezzi e output gap, si giunge a una stima delle componenti di trend e potenziali delle diverse variabili che, sostituite nell’equazione di cui sopra, conducono ad una stima del Pil potenziale. Conseguentemente, il livello del deficit strutturale è stato rivisto, anche per il 2017-19 in modo significativo (per il 2018 la revisione è di un intero punto di Pil), nonostante l’assenza di revisioni nel deficit corrente e nelle misure una tantum.
La ristrutturazione del debito tedesco nel 1953: è rilevante per i problemi di oggi?
Da un lato, il debito che fu cancellato all’epoca non era stato contratto liberamente dalla Germania ma era frutto di riparazioni di guerra risalenti addirittura al Trattato di Versailles. Quindi il debito che fu oggetto del negoziato era pari al 22,5 per cento del Pil. I debiti cancellati furono pari a 17,8 miliardi di marchi – 8,6 per i debiti post prima guerra mondiale e 9,2 per debiti post seconda guerra mondiale. L’escamotage che fu trovato fu quello di affermare al comma 1 dell’articolo 5 del LDA che le riparazioni della prima guerra venivano escluse dall’accordo e che alcuni debiti anteguerra della Germania sarebbero stati pagati solo in seguito alla riunificazione. Rimarrebbe dunque un 62 per cento di debiti che non sarebbero direttamente riconducibili alle riparazioni della guerra; di questi, il 30 per cento è rappresentato da debiti federali, il 6 per cento da debiti dei Lander e il 25 per cento da debiti contratti da privati. Nel frattempo, la fase di euforia aveva fatto sì che nei sei anni successivi all’inizio del piano Dawes la Germania ricevette un afflusso di capitali pari a 14,577 miliardi di marchi a fronte di 11,134 miliardi di marchi corrisposti alle diverse potenze vincitrici a titolo di riparazioni. Come detto, molti altri paesi, che avrebbero poi fatto default, avevano debiti di guerra con gli Stati Uniti (Tavola 4), ma, a riprova che le riparazioni di Versailles furono una componente importante del LDA, nessun paese aveva un debito paragonabile a quello della Germania. Il debito più rilevante era quello del Regno Unito nei confronti degli Stati Uniti che era di quasi 5 miliardi di dollari, una cifra di molto inferiore al debito della Germania, anche dopo le due ristrutturazioni degli anni venti (dm 40 miliardi equivalenti a quasi $10 miliardi).
Quanto spendono gli altri paesi per l'emergenza coronavirus?
In attesa di conoscere i dettagli e le cifre del secondo decreto economico che il governo ha annunciato per il mese di aprile, in questa nota sintetizziamo le informazioni disponibili (spesso ancora parziali) su quanto deciso in campo di finanza pubblica da parte degli altri principali paesi avanzati. Il primo intervento, deciso a metà febbraio, prevedeva 500 miliardi di yen (lo 0,1 per cento del Pil) di prestiti statali a favore di piccole e medie imprese del settore del turismo. Un terzo intervento molto più significativo è però previsto per l’inizio di aprile: le singole misure fiscali sono ancora in fase di discussione, ma la cifra finale dovrebbe ammontare ad almeno 15.000 miliardi di yen, ovvero il 2,7 per cento del Pil giapponese. Il primo pacchetto include un programma di spesa per 30 miliardi di sterline, circa l’1,4 per cento del Pil, di cui 5 miliardi per il sistema sanitario nazionale e 7 a supporto di imprese e lavoratori, mentre i restanti 18 miliardi saranno distribuiti sul biennio 2020-21. Nello specifico, 330 miliardi, pari al 15 per cento del Pil, consistono in garanzie sui debiti delle imprese che necessitano liquidità, mentre i restanti 20 miliardi, lo 0,9 per cento del Pil, sono destinati al taglio delle tasse e a sussidi per le imprese e i lavoratori. USA In USA si è arrivati all’accordo bipartisan per uno stimolo economico di circa 2.000 miliardi di dollari (il 9 per cento del Pil) per attenuare gli effetti depressivi del coronavirus sull’economia, anche se non è del tutto chiaro se queste misure avrebbero effetto interamente nel 2020. In aggiunta, sono previste possibili iniezioni di risorse tramite acquisti di azioni societarie e di obbligazioni di KfW fino a un massimo di 200 miliardi (5,8 per cento del Pil).
Abbiamo bisogno di un Piano Marshall?
Abbiamo bisogno di un Piano Marshall? Home Studi e documentazione Studi e analisi Archivio studi e analisi Abbiamo bisogno di un Piano Marshall? Abbiamo bisogno di un Piano Marshall? di Pietro Mistura 16 aprile 2020 Per uscire dalla crisi economica causata dal coronavirus, molti auspicano un Piano Marshall europeo. Il Piano Marshall Lo European Recovery Program (ERP), meglio noto con Piano Marshall, venne annunciato nel 1947 dal Segretario di Stato Marshall e approvato dal Congresso nel 1948 tramite il Foreign Assistance Act, una legge che conteneva anche altri programmi di aiuti a Europa e Cina. Il Piano Marshall e la risposta alla crisi del coronavirus La generosità del Piano Marshall è indubbia, soprattutto se messa a confronto con le pesanti riparazioni di guerra fissate col Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale. Quello di cui l’Europa ha bisogno ora sono risorse finanziarie per attenuare gli effetti delle chiusure sulle famiglie e sulle imprese (evitando crisi di liquidità) e, una volta superata l’emergenza medica, di una spinta sulla domanda aggregata. Il tipo di aiuti che veniva offerto dal Piano Marshall, che in pratica consisteva di esportazioni dall’America all’Europa, con benefici per l’occupazione americana, non sarebbe utile per affrontare la crisi attuale. Oltre agli elementi di condizionalità citati sopra (e l’implicito sussidio dato alle esportazioni americane verso l’Europa) molti storici hanno affermato l’esistenza di una condizionalità politica meno palese, compresa una chiara collocazione a ovest della cortina di ferro dei paesi che ricevevano gli aiuti. La finalità del Piano Marshall era di dare una svolta “alla situazione che caratterizza[va] i paesi dell’Europa, situazione che mette[va] a rischio la prosecuzione di una pace duratura e la realizzazione degli obiettivi delle Nazioni Unite.
Ma gli effetti di un acquisto di titoli sul mercato primario sarebbero davvero così diversi rispetto a quelli dell’acquisto sul mercato secondario? In realtà, dal punto di vista delle condizioni di finanziamento per lo Stato sembra esserci poca differenza. del TFEU, alla BCE è vietato l’acquisto di titoli di Stato sul mercato primario, il che significa che non può partecipare direttamente alle aste; gli acquisti sono quindi avvenuti e stanno avvenendo esclusivamente sul mercato secondario. Ma gli effetti di un acquisto di titoli sul mercato primario sarebbero davvero così diversi rispetto a quelli che già abbiamo con l’acquisto sul mercato secondario? O è vero quanto suggerito invece anche dal modello IS-LM? Consideriamo i due scenari. Tuttavia, è evidente che, nel decidere quanti titoli domandare all’asta e a quale prezzo acquistarli, gli investitori privati terranno conto del fatto che la banca centrale ha avviato un programma di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. In altre parole, gli investitori sanno che la domanda di titoli di Stato sul mercato secondario è elevata (grazie al programma della banca centrale) e dunque non ci saranno particolari difficoltà a rivendere i titoli che acquisteranno. In primo luogo, nei giorni precedenti l’emissione di un nuovo titolo la banca centrale può acquistare sul mercato secondario titoli simili a quello che verrà emesso: in tal caso, gli investitori possono “compensare” i titoli venduti alla banca centrale acquistando una maggiore quantità di titoli simili all’asta. In conclusione, se ciò che interessa è l’effetto sul costo del finanziamento per degli Stati, non sembra esserci una differenza significativa tra acquisti della banca centrale effettuati sul mercato primario e acquisti sul mercato secondario.
Coronavirus e blocco delle attività: cosa succede all'estero?
section --> L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. Spagna Le misure attualmente in vigore in Spagna sono simili a quelle adottate in Italia, e prevedono la chiusura di tutte le attività “non essenziali”, sia commerciali sia produttive. Alcune misure di chiusura erano già in vigore dal 14 marzo, ma sono state rafforzate dal 30 marzo fino (per ora) al 9 aprile. Belgio Le attività produttive “non essenziali” sono bloccate solo se non possono essere svolte tramite telelavoro o garantendo le distanze di sicurezza all’interno dell’azienda (1,5 metri tra una persona e l’altra). Tutti i negozi e le attività commerciali sono chiusi, ad eccezione di alimentari, farmacie, edicole, stazioni di servizio e parrucchieri; tutti gli altri possono fare solo consegne a domicilio. Paesi Bassi Attualmente sono chiusi fino al 28 aprile soltanto i bar, i ristoranti e in generale tutte le attività commerciali non essenziali che richiedono il contatto fisico (come i parrucchieri). Alcuni Stati hanno provveduto a chiudere solamente le scuole, mentre altri come lo Stato di New York (dove si concentra il maggior numero di casi di coronavirus) hanno chiuso bar, ristoranti, cinema e tutte le attività che comportano un contatto fisico (come i parrucchieri).
Cura Italia: interventi diretti a sostegno delle imprese
Va ricordato che il Fondo opera a favore dei professionisti e delle PMI, ossia imprese con meno di 250 addetti, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro e/o il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. La garanzia copre una quota pari al 33 per cento (a) del maggior credito utilizzato tra la data dell’entrata in vigore del decreto e il 30 settembre 2020; (b) dei prestiti in scadenza che hanno beneficiato di un allungamento della durata; (c) delle singole rate oggetto di sospensione. Prevede la corresponsione del 50 per cento delle spese per la sanificazione degli ambienti e l’acquisto di strumenti di lavoro a favore degli esercenti attività di impresa e professionisti fino ad un massimo di 20 mila euro per ciascun beneficiario ed entro il limite complessivo di 50 milioni. Per quanto riguarda le misure trasversali, l’articolo 72 istituisce un fondo per la promozione delle esportazioni con una dotazione iniziale di 150 milioni di euro per il 2020; tali risorse serviranno per adottare misure di comunicazione, potenziare la promozione del Made in Italy e a cofinanziare iniziative di promozione dei mercati esteri. L’articolo stabilisce un contributo in favore di taxi e servizi di Noleggio con Conducente, per l’acquisto di divisori atti a separare il posto guida dai sedili riservati alla clientela attraverso l’istituzione di un apposito fondo con dotazione di 2 milioni di euro. Viene riconosciuta un’indennità a favore di collaboratori di società e associazioni sportive dilettantistiche pari a 600 euro per il mese di marzo 2020, entro un limite massimo di 50 milioni di euro. Per quanto riguarda il settore del trasporto aereo, l’articolo prevede una misura di sostegno a fronte dei danni subiti attraverso l’incremento del fondo di solidarietà pari a 200 milioni di euro, di cui 120 andranno ad incrementare il deficit 2020.
Che effetti può avere una pandemia sull’economia mondiale?
L’entità dell’effetto dipende da quanto è contagioso e letale il virus, ma è importante sottolineare che tutti gli effetti economici stimati, per quanto forti, sono soprattutto di breve periodo. Quali potrebbero essere gli effetti economici di una pandemia di coronavirus? Rispondere a questa domanda è prematuro visto che la risposta dipende dall’estensione del contagio, ma in passato diversi studi hanno provato a quantificare l’impatto economico di un’eventuale pandemia basandosi sulle esperienze del secolo scorso. Questi risultati dipendono quindi dalle caratteristiche dei modelli e dalle ipotesi sull’entità di due variabili fondamentali: il “tasso di attacco” del virus (cioè la percentuale di popolazione che si ammala) e il suo “tasso di letalità” (cioè la percentuale di contagiati che muore). Si stima che il tasso di attacco di tutte e tre le pandemie fosse compreso tra il 25 e il 35 per cento, mentre il tasso di letalità era compreso tra il 2 e il 3 per cento per la spagnola e inferiore allo 0,2 per cento negli altri due casi (OMS, 2009). Verikios et al. (2011) simulano gli effetti trimestrali di due pandemie: un virus poco contagioso ma molto letale (tasso di attacco del 3 per cento, tasso di letalità del 10 per cento) e un virus molto contagioso ma poco letale (tasso di attacco del 40 per cento, tasso di letalità dello 0,5 per cento). Nello scenario con virus molto contagioso, invece, nel primo anno il Pil globale si riduce del 3,3 per cento, con picchi del 4-4,5 per cento nel secondo e terzo trimestre; per l’occupazione e il commercio internazionale i picchi trimestrali sono ancora più bassi (-6,5 per cento e -5 per cento, rispettivamente). Nello scenario più “mite” (tasso di attacco del 25 per cento, tasso di letalità dello 0,1 per cento, assenza media dal lavoro di quattro giorni), invece, la pandemia ridurrebbe il Pil dell’1 per cento nel primo anno, con uguale contributo delle due tipologie di shock.
Questo aspetto del problema è forse più importante del processo negoziale in corso che porterà a definire la quota di fondi che spettano all’Italia. Quando è stata pubblicata la bozza di Regolamento della Recovery and Resilience Facility - il programma più corposo del piano Next Generation EU in quanto assorbe 560 miliardi dei 750 totali previsti - l’attenzione dei media si è focalizzata principalmente sulle tempistiche della spesa e sulla sua ripartizione fra gli Stati. In realtà, dal punto di vista dell’Italia, la variabile chiave sarà la capacità delle amministrazioni di proporre progetti validi e di realizzarli nei tempi prestabiliti, superando un vaglio rigoroso a cui verranno sottoposti da parte della Commissione. L’Allocation key dei singoli Stati è riportata all’interno della bozza di Regolamento (Annex I) e per l’Italia è del 20,45 per cento; 250 miliardi di prestiti che verranno concessi per riforme e investimenti ulteriori rispetto a quelli che beneficiano dei trasferimenti. Le modalità e tempistiche per l’accesso ai fondi (Fig. 1) sono descritte negli articoli dal 15 al 19 della bozza di Regolamento: “Il Recovery and Resilience Plan presentato dallo Stato Membro deve essere parte integrante del suo Programma Nazionale di Riforma e deve essere ufficialmente inviato entro il 30 aprile. Basti ricordare che dei Fondi strutturali e di investimento europei (SIE) relativi al ciclo di programmazione 2014-2020, per un totale di 75 miliardi, ad oggi solo il 73 per cento è stato allocato e solo il 35 per cento è stato speso. Gli Stati Membri presentano al consiglio europeo i Piani Nazionali di Riforma con valenza triennale che descrivono le politiche che saranno messe in atto riguardanti le misure macroeconomiche e di politica di bilancio, le riforme strutturali e microeconomiche e le politiche del lavoro.
Effetti del lockdown sulla mobilità delle persone nei diversi paesi
In particolare, la mobilità verso i luoghi di lavoro scende di oltre il 60 per cento in Italia e Spagna, del 38 per cento negli Stati Uniti e solo del 29 per cento in Germania e del 24 nei Paesi Bassi. Sulla base dei dati messi a disposizione da Apple e da Google misuriamo di seguito, sia pure con inevitabili approssimazioni, come si è ridotta la mobilità delle persone negli ultimi due mesi in vari paesi europei e negli Stati Uniti. In particolare, Google ha reso disponibili dei report che illustrano come si sia evoluta la frequentazione di negozi, ristoranti, bar, musei, luoghi per l’acquisto di beni essenziali, parchi, mezzi di trasporto, luoghi di lavoro e di residenza rispetto a sabato 29 febbraio 2020, data di inizio della rilevazione. I Paesi Bassi rientrano nella categoria dei paesi meno colpiti in base alle due tipologie di dati e questo risultato è coerente con quanto effettivamente stabilito dal governo, che si è limitato alla chiusura delle attività commerciali non essenziali che richiedono il contatto fisico. Al fine di valutare come la mobilità sia ulteriormente cambiata dopo l’introduzione delle misure di distanziamento sociale, abbiamo raccolto nella Tavola 3 la variazione nella mobilità tra il giorno prima dell’entrata in vigore delle misure e lo stesso giorno della settimana successiva. Ad ogni modo la Tavola mostra che il calo della mobilità a seguito del lockdown è stato brusco nel caso di Francia, Italia e Spagna, medio nel caso degli Stati Uniti, Paesi Bassi e Germania e più blando nel caso di Belgio e Regno Unito. Questo lo si evince sia dai dati Apple che dividono la mobilità per spostamenti in auto, tramite trasporti pubblici e a piedi, sia dai dati Google che offrono uno spaccato del calo delle visite per tipologia di luogo di destinazione.
Recovery Fund: chiarimenti su finalità e cifre
Anche se viene presentato come una risposta eccezionale ad una situazione di emergenza, il piano della Commissione rappresenterebbe di fatto un passo rilevante nella direzione di un bilancio comune. In sintesi, tale proposta è fondata sull’introduzione di un programma innovativo di sostegno all’economia europea, denominato Next Generation EU, per un totale di 750 miliardi di euro, e sul potenziamento del Multiannual Financial Framework (MFF, o “quadro finanziario pluriennale”) 2021-2027 mediante altri programmi. L’obiettivo del piano della Commissione è quello di fornire strumenti adeguati di reazione ai danni sociali ed economici generati dalla crisi sanitaria, che siano allo stesso tempo in grado di accelerare il raggiungimento degli obiettivi europei relativi alla sostenibilità ambientale e alla trasformazione digitale. La parte più innovativa della proposta presentata dalla CE riguarda sicuramente l’introduzione del piano Next Generation EU, di natura temporanea per il periodo 2021-2024 e con una potenza di fuoco di 750 miliardi di euro fra contributi a fondo perduto, prestiti e garanzie. Per quanto riguarda le altre misure, in aggiunta al piano Next Generation EU, la Commissione ha previsto il finanziamento di una serie di altri programmi comunitari già in essere, per un totale di 69 miliardi di euro. Il primo è che i tassi di interesse a cui si finanzia l’UE sono molto più bassi di quelli a cui si finanzia l’Italia; questo ragionamento vale sia per la componente di trasferimenti che per i prestiti, quindi per l’intera cifra di 170 miliardi. Tuttavia, si delinea un percorso che pone l’esigenza di far fare un salto all’architettura istituzionale dell’UE in modo da rendere possibile il superamento di quella fondamentale carenza dell’Unione Monetaria che è rappresentata dall’assenza di una politica di bilancio comune.
Come raggiungere un accordo nell’Eurogruppo
Come raggiungere un accordo nell’Eurogruppo Home Studi e documentazione Studi e analisi Archivio studi e analisi Come raggiungere un accordo nell’Eurogruppo Come raggiungere un accordo nell’Eurogruppo di Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Enrico Letta 3 aprile 2020 * * * La crisi in corso è più violenta di quella del 2008. Ciononostante, anche per ridurre il peso che grava sulla BCE, è utile integrare questa fonte di finanziamento con una risposta congiunta e solidale da parte dei governi dell’area dell’euro. Terzo, e conseguentemente, le risorse raccolte emettendo strumenti di raccolta finanziaria come parte di una risposta comune dovrebbero essere spese attraverso politiche concordate in comune: si raccolgono risorse insieme, si decide insieme come spenderle. Essa è vantaggiosa per tutti i paesi dell’Eurozona, per tre motivi: Anche se alcuni paesi potrebbero fronteggiare l’emergenza attuale attraverso le loro politiche di bilancio, altri potrebbero trovare più difficile finanziarsi sul mercato, soprattutto se il contesto internazionale peggiorasse in modo marcato. Una risposta comune quale quella sopra descritta dimostrerebbe una comunanza di intenti tra paesi europei di fronte a uno shock comune, non dovuto ai comportamenti di nessun singolo paese, nessuno dei quali stava violando le regole fiscali europee prima dello shock. Da un lato si deve capire che la crisi che sta colpendo in modo più duro il sud del continente non ha nulla a che fare con l’eccessiva accumulazione di debito. Dall’altro si deve capire che una risposta comune non può diventare un modo per introdurre surrettiziamente la mutualizzazione del debito, che deve rimanere responsabilità dei singoli stati.
Le prospettive per i conti pubblici nel 2020
Di quanti soldi avrà bisogno lo Stato italiano quest’anno in uno scenario di caduta del Pil del 6 per cento? Prevedere l’andamento dei conti pubblici quest’anno è particolarmente difficile. In un primo scenario ipotizziamo che: Il Pil reale scenda del 6 per cento nonostante le misure di sostegno, che in ogni caso non potranno alleviare lo “shock di offerta” derivante dalla chiusura di parte delle attività produttive. Sulla base di queste ipotesi, e anche tenendo conto della perdita di entrate dovuta alla recessione, il deficit pubblico dovrebbe salire quest’anno a 139 miliardi, ossia all’8,2 per cento del Pil (contro l’1,6 per cento nel 2019). Il totale di acquisti di titoli di Stato italiani e di altri prestiti da parte di istituzioni europee, assumendo che l’Italia utilizzi i fondi del MES, potrebbe quindi ammontare a 277 miliardi (224+17+36). Fabbisogno e finanziamento nel caso di una caduta del Pil reale del 10 per cento La Tavola 1 presenta anche uno scenario di caduta del Pil reale del 10 per cento. Implicazioni di queste tendenze per la sostenibilità del debito pubblico Una minore quota di debito detenuta dal settore privato riduce nell’immediato il rischio associato a un certo livello di debito pubblico, in termini di possibili crisi sul mercato dei titoli di Stato. Si ipotizza quindi che tutti gli acquisti di titoli italiani in questo programma (ottenuto moltiplicando l’importo totale del programma di 750 miliardi per la capital key dell’Italia, pari al 17 per cento) consistano in titoli di Stato.
Il MES: cos’è e come potrebbe essere utilizzato nell’attuale emergenza
Oltre agli aiuti agli Stati in crisi, il MES prevede i prestiti precauzionali, ossia interventi a favore di quei Paesi che, nonostante siano in condizioni macroeconomiche solide, potrebbero aver bisogno di aiuto. Funzionamento del MES Il MES offre sostegno agli Stati Membri attraverso prestiti o con l’attivazione di linee di credito che sono garantite dal capitale sottoscritto dai paesi membri. Il capitale sottoscritto (704 miliardi di euro) differisce dal capitale effettivamente versato (80,5 miliardi di euro) in quanto il primo definisce l’ammontare massimo che potrebbe essere richiesto agli Stati Membri in caso di insolvenza di uno Stato debitore. La PCCL richiede una condizionalità molto attenuata; anch’essa richiede la sottoscrizione di un MoU (mentre nella proposta di riforma che era stata approvata in linea di principio dal Consiglio UE del giugno 2019 richiederebbe la semplice sottoscrizione di una lettera di intenti). L’accesso alla PCCL è riservato a quei paesi che hanno rispettato alcune condizioni quantitative nei due anni precedenti alla richiesta di assistenza al MES, le quali sono piuttosto stringenti e in linea con quelle del Patto di Stabilità e Crescita. Queste limitazioni potrebbero essere attenuate nel caso in cui tali proventi venissero destinati per intraprendere politiche di bilancio a livello comunitario, di cui tutti i paesi membri potrebbero beneficiare, come un sussidio di disoccupazione o un programma di investimenti europeo. Va anche considerato che i paesi con basso debito non hanno problemi ad affrontare l’emergenza con mezzi propri e non è chiaro se siano in grado di far accettare ai loro elettorati proposte di mutualizzazione anche parziale del debito, che andrebbero principalmente a beneficio dei paesi con alto debito.
Blocco dei settori “non essenziali”: quali risvolti per l’economia nazionale?
La lista dei settori ritenuti “essenziali” per i quali è stata consentita la continuità dell’attività produttiva è stata pubblicata per la prima volta all’interno dell’allegato 1 del Dpcm 22 marzo 2020 ed è stata aggiornata con il Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo. Sulla base dei dati Istat, si può stimare che circa il 40 per cento del valore aggiunto e della produzione italiana è imputabile ai settori bloccati. Oltre al danno diretto derivante dalla cessazione della produzione bisogna tenere conto dei danni indiretti derivanti dalle interrelazioni tra i diversi settori produttivi: la cessazione di un’attività si ripercuote infatti sugli altri settori creando dei gap nella catena produttiva. Importazioni Per quanto riguarda l’import, occorre tenere conto di due fattori: da un lato, si deve considerare la riduzione delle importazioni relative agli input intermedi destinati ai settori bloccati; dall’altro lato, si possono registrare incrementi delle importazioni dovute all’interruzione della produzione italiana a seguito della chiusura dei settori bloccati. La riduzione di importazioni di input dovuto al blocco della produzione nei settori “non essenziali” è quantificabile in poco meno di 140 miliardi, pari al 32,5 per cento del totale delle importazioni. Per altro verso, gli input intermedi che in condizioni ordinarie sono forniti dai settori bloccati ai settori “essenziali” sono quantificabili in circa 200 miliardi, che corrispondono al 22,5 per cento del totale degli input totali necessari ai settori “essenziali”. Tav. 1: Sintesi dei risultati Indicatore Milioni di euro % Interpretazione Input italiani provenienti dai settori bloccati destinati ai settori essenziali 197.156 22,5% Rappresenta un gap di input al fine di garantire continuità ai settori "essenziali"; a meno di decisioni ad hoc sulle singole imprese, tale gap potrebbe essere colmato da maggiori importazioni.
Memoria sul Disegno di legge C. 2500 di conversione del DL. 34/2020 ("Decreto Rilancio")
L’entità dell’aumento del deficit e del debito pubblico Le misure espansive introdotte con il decreto Cura Italia, il decreto Liquidità e il decreto Rilancio ammontano a 75 miliardi di euro in termini di indebitamento netto (“deficit”) e a 470 miliardi in termini di garanzie. Nel medio periodo, tali rischi potrebbero più facilmente materializzarsi se la BCE dovesse, una volta terminata la recessione e per motivi di politica monetaria, riassorbire la base monetaria che viene attualmente creata a fronte dell’acquisto di titoli italiani ed esteri. Infine, il decreto ridonda di micro-misure e di interventi ad hoc che non solo hanno poco a che fare con la crisi attuale, ma che hanno dubbi effetti espansivi. (ii) Misure propulsive Le misure introdotte nel decreto Rilancio sono nella maggior parte (per quasi quattro quinti) costituite da provvedimenti volti ad attenuare le perdite di reddito causate dalla crisi (misure “difensive”) o comunque trasferimenti di reddito, anche in forma di eliminazione temporanea di tasse. Queste misure sono necessarie, soprattutto se ben mirate (vedi punto successivo), ma, in quanto misure essenzialmente volte a compensare in parte una perdita di reddito, non sono di per sé in grado di portare il paese al di fuori della crisi. Questo sussidio è volto a sostenere un settore (il turismo) che è certamente stato colpito in modo più forte dalla crisi, ma imprese di altri settori potrebbero trovarsi in condizioni ugualmente difficili e non ricevere un sostegno alla domanda per i prodotti che vendono. Vi sono poi una serie di norme che sono chiaramente volte a espellere dal mercato possibili concorrenti, compreso l’obbligo di applicare anche a compagnie estere i minimi salariali del contratto nazionale del trasporto aereo, il cui contraente pressoché unico è Alitalia (art.
Nazionalizzazione ai tempi del COVID-19 e suoi precedenti
L’emergenza epidemiologica ha reso necessari consistenti interventi da parte dei governi e molti Stati, soprattutto quelli maggiormente colpiti, valutano la possibilità di entrare nella proprietà delle imprese di rilevanza strategica laddove sia necessario per evitare che falliscano. Inoltre, nel nuovo Decreto Rilancio è stata affidata a Cassa Depositi e Prestiti la gestione di un Patrimonio Destinato per rafforzare il capitale di medie e grandi imprese tramite concessione di prestiti obbligazionari convertibili, aumenti di capitale e acquisto di azioni. In particolare, si tratterebbe di 7 miliardi per Air France, di cui 4 miliardi di prestiti bancari garantiti dallo Stato e 3 di sovvenzioni dirette, e 5 miliardi di crediti bancari garantiti per Renault, senza che lo Stato sia intervenuto per il momento nelle loro proprietà. Alcuni casi del passato: nazionalizzazioni durante la crisi del ‘29 [3] L’intervento dello Stato nella proprietà di imprese private in tempo di crisi non è una soluzione inedita, ma ben nota alla storia di molti paesi. Tale operazione portò il governo statunitense a possedere circa il 60 per cento del capitale della GM e il 10 per cento di quello della Chrysler a fronte di un’iniezione di liquidità complessiva pari a circa 64 miliardi di dollari. Alla prima fu erogato un prestito di 1,5 miliardi, mentre per la finanziaria della GM il governo investì 17 miliardi di dollari, di cui 14 furono destinati all’acquisto di azioni privilegiate, portando il Tesoro a possedere il 56,3 per cento della società. Prendendo spunto, dunque, dall’azione britannica il governo americano procedette all’acquisto di azioni privilegiate e titoli di debito (accompagnati dall’opzione di acquistare azioni ordinarie durante il programma) da 707 istituti finanziari per circa 205 miliardi di dollari.
Nonostante non sia prevista la possibilità di azioni espansive discrezionali in caso di recessione di una sola economia, al di là delle misure direttamente legate a eventuali eventi avversi, restano margini di flessibilità interpretativa relativi alla definizione di cosa sia da considerarsi “direttamente legato” a un evento avverso. Inoltre, un’eventuale apertura formale di una procedura di infrazione, del tutto improbabile al momento, potrebbe essere accompagnata da un piano di rientro posticipato nel tempo, come avvenne in occasione della crisi del 2008-09. Un rallentamento della crescita causa, a legislazione corrente, una perdita di entrate e un aumento di certe spese come i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, il reddito di cittadinanza. Le tre principali regole europee che operano quando il deficit è al di sotto del 3 per cento (la regola sulla riduzione del deficit a una certa velocità, la regola della spesa e la regola di riduzione del debito) consentono comunque una correzione per gli stabilizzatori automatici. Nel caso dell’Italia, le prime due clausole sono già state attivate nel 2016 per importi pari a 0,5 e 0,21 per cento di Pil rispettivamente (8,4 e 3,5 miliardi) e, fintantoché non verrà raggiunto l’Obiettivo di Medio Termine, non potranno essere richieste nuovamente in sede di contrattazione con la Commissione europea. Le misure espansive che possono essere introdotte sulla base di questa clausola sono più ampie di quelle coperte dal fatto che tali misure possono avere natura una tantum (vedi sezione precedente). Anche in questo caso però le regole europee prevedono deviazioni temporanee oltre la soglia del 3 per cento in caso di “periodi di grave crisi economica per l’area euro o per l’intera Unione a condizione che non comprometta la sostenibilità fiscale nel medio termine”.