Università Cattolica del Sacro Cuore

Risposte brevi a domande comuni

di Stefano Olivari e Fabio Angei

13 gennaio 2020

Soprattutto sui social, si leggono spesso domande ricorrenti sulle questioni economiche più importanti. A queste abbiamo cercato di rispondere in modo chiaro e breve.

* * *

1. La caduta degli investimenti pubblici è stata causata dal Patto di Stabilità e Crescita (SGP) e dall’obbligo di pareggio di bilancio?

L’SGP non impedisce di spendere di più per investimenti se un paese vuole farlo. Impedisce di farlo accumulando altro debito pubblico, ovvero senza ridurre la spesa corrente o senza aumentare le aliquote di tassazione o senza ridurre l’evasione fiscale. Anzi, le spese per investimenti sono viste dall’SGP con favore. Infatti, esiste una “clausola degli investimenti” che consente un maggiore deficit, rispetto agli obiettivi richiesti dall’SGP, per finanziare spese per investimenti. Una spesa orientata agli investimenti, piuttosto che alla spesa corrente, è anche considerata un “fattore rilevante” per giustificare una riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil inferiore a quella richiesta dalle regole europee. Infine, l’SGP è stato di fatto applicato con molta flessibilità: nessun paese in vent’anni è mai stato penalizzato per aver violato le regole europee e sforamenti sono stati tipicamente riassorbiti molto gradualmente.

2. C’è stato un cambiamento nella gestione della spesa pubblica, soprattutto per pensioni e welfare, dopo l’entrata nell’euro?

No. La spesa pubblica primaria (cioè al netto degli interessi) ha continuato a crescere rapidamente dopo l’entrata nell’euro. Infatti, nel decennio dal 2000 al 2009 il tasso di crescita medio annuo della spesa a prezzi correnti è stato del 3,9 per cento. In particolare, tra il 2000 e il 2006 c’è stata un’accelerazione della spesa primaria, con un aumento del rapporto tra spesa primaria e Pil di circa 3 punti percentuali. Un rallentamento c’è stato solo successivamente, nel decennio 2010-2019 quando la spesa è cresciuta ad un tasso medio annuo dello 0,8 per cento, come conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato italiani. Questo aumento è stato dovuto al fatto che, nel periodo in cui crescevamo, tra il 1993 e il 2007, non abbiamo fatto abbastanza per mettere a posto i nostri conti pubblici. Paesi che avevano un debito pubblico relativamente basso hanno poi potuto usare la spesa pubblica per sostenere l’economia. L’Italia, che non aveva ridotto il deficit pubblico sufficientemente nel periodo di crescita (tra il 1993 e il 2007) si è ritrovata nella necessità di dover contenere la spesa pubblica per evitare un eccessivo aumento del deficit, in presenza di un calo di entrate. Questa politica pro-ciclica è stata proprio dovuta al fatto di non aver colto l’opportunità di mettere in sicurezza i nostri conti quando lo potevamo fare. In ogni caso, anche dopo il 2010 la spesa degli enti previdenziali ha continuato a crescere più rapidamente delle altre componenti di spesa.

3. Gli aumenti dell’IVA attraverso clausole di salvaguardia, come quello che era previsto per il 2020, sono stati imposti dall’Europa?

No, le clausole di salvaguardia sull’Iva e altre imposte indirette non sono state introdotte per far contenta la Commissione Europea. Per la Commissione è come se tali clausole non esistessero. Infatti, dal 2015 la Commissione non le conteggia più nelle proprie previsioni sui conti pubblici italiani perché puntualmente tutti i governi le hanno disattivate. Il Governo deve aver introdotto tali clausole semplicemente per far apparire migliori, agli occhi dei mercati finanziari, l’andamento dei conti.

4. Perché non facciamo altra spesa in deficit per finanziare gli investimenti e altre misure?

Fare spesa in deficit può essere utile per sostenere l’economia di fronte a pesanti rischi di recessione. Le politiche keynesiane servono in questi casi. Ma fare spesa in deficit, a meno di chiedere soldi alla propria banca centrale con rischi per la sua credibilità, per l’inflazione e per il cambio (non c’è solo il Giappone! Vedi casi Venezuela, Argentina, Turchia o Italia negli anni ‘70), è fattibile solo se si trova qualcuno disposto a prestarti i soldi e ad assumersi il rischio di non essere ripagati (o di essere ripagati in una valuta diversa dall’euro). Se un Paese ha già tanto debito, è probabile che chi presta i soldi richiederà un premio per il rischio maggiore sotto forma di un tasso di interesse più elevato, e tassi più elevati frenano l’economia. Attenzione: si è detto “è probabile”. Ci sono tanti casi di paesi che aumentano il deficit senza che questo causi un aumento del premio a rischio. Ma se anche questo non avviene immediatamente, l’aumento del debito lascia il paese esposto al rischio di un cambiamento nell’umore dei mercati finanziari. Quando le cose peggiorano, i mercati finanziari se la prendono con paesi che, tipicamente, hanno un debito relativamente elevato. Come minimo, un debito elevato, soprattutto se in crescita rispetto al PIL, è una condizione necessaria anche se non sufficiente per essere attaccati dai mercati finanziari.

5. Se il debito causa le crisi, perché Spagna e Irlanda sono andate in crisi con un debito basso?

Perché era ovvio che, per salvare le banche, Spagna e Irlanda avrebbero dovuto aumentare il loro debito moltissimo. Quindi, in generale, bisogna stare attenti anche alla dimensione del debito privato, soprattutto se questo può richiedere l’intervento dello stato. Da questi e altri episodi, sono nate delle regole di salvataggio interno delle banche in difficoltà (c.d. bail-in) per evitare che le crisi bancarie gravino troppo sui debiti pubblici.

6. Se il debito fa male all’economia, com’è che tanti paesi africani hanno debito basso eppure sono poveri?

Ma nessuno ha mai detto che il debito pubblico sia l’unico motivo per cui una economia non sta bene! I paesi africani hanno un basso livello di produttività per un insieme di motivi (basso livello di capitale investito, scolarità inadeguata, malattie diffuse, instabilità politica). Fra l’altro, questi problemi spiegano perché sia più difficile per questi paesi prendere a prestito: il debito pubblico spesso è basso proprio perché certi paesi non riescono a indebitarsi di più.

7. L’unica prova che il debito pubblico fa male alla crescita (quella di Reinhart and Rogoff) è falsa.

Chiariamo una cosa. Un debito troppo alto può far male all’economia perché aumenta il rischio di crisi economiche (e su questo ci sono diversi lavori compreso uno recente di Bassanetti, A., Cottarelli, C., & Presbitero, A. F. (2018), Lost and found: Market access and public debt dynamics. Oxford Economic Papers, 71(2), 445-471.) o perché riduce il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia, anche in assenza di crisi. Il lavoro di Reinhart e Rogoff si occupa di questo secondo aspetto: l’effetto del debito sulla crescita di lungo periodo. È vero, conteneva errori. Ma dopo la sua pubblicazione esistono diversi altri lavori che giungono alla stessa conclusione (anche se differiscono sul fatto che esista una soglia specifica, rispetto a una riduzione graduale della crescita al crescere del debito e sul fatto che conti non solo il livello, ma anche la dinamica del debito). Qui un elenco dei principali:

  • Kumar, M., and J. Woo, 2015, ―Public Debt and Growth, Economica, Volume 82, Issue 328 October.
  • Baum, A., C. ChecheritaWestphal, and P. Rother (2012), “Debt and growth: New evidence for the euro area,” Journal of International Money and Finance, 32, 809–821.
  • Cecchetti, S. G., M. S. Mohanty and F. Zampolli, 2011, ―The Real Effects of Debt, BIS Working Paper No. 352.
  • Chudik, Alexander, Kamiar Mohaddes, Hashem Pesaran, and Mehdi Raissi, “Is there a debtthreshold effect on output growth?” IMF Working Paper WP/15/197, September 2015.
  • Alina Mika, Tina Zumer Working Paper Series Indebtedness in the EU: a drag or a catalyst for growth? No. 2118, Decmber 2017.
  • Pescatori, A., D. Sandri, J. Simon, Debt and Growth: Is There a Magic Threshold?, IMF Working Paper No. 1434.

Uno dei pochi lavori che non trova una chiara relazione tra livello del debito e crescita è quello di Ugo Panizza e Andrea Presbitero (“Public Debt and Economic Growth: Is There a Causal Effect?” MoFiR working paper n° 65 April 2012), ma, appunto, è una eccezione.

8. Perché non stampiamo banconote per finanziarci le spese?

Prima di tutto non si può perché apparteniamo all’area euro le cui scelte monetarie vengono fatte in autonomia dalla Bce, che ne è responsabile. Anche qualora avessimo la sovranità monetaria, la ragione di fondo è che, in tempi normali, una eccessiva monetizzazione del deficit solitamente genera inflazione e svalutazione. Ne abbiamo parlato in diversi studi (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-la-monetizzazione-del-debito-pubblicocriticita-ed-esperienze-passate e https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-il-divorzio-fra-banca-d-italia-e-tesoro-teorie-sovraniste-e-realta). Da notare che, anche nel caso in cui stampare moneta non causa inflazione (nel caso in cui, cioè, chi è pagato con moneta decide di tenersela e non liberarsene, per esempio comprando altra valuta) chi cede beni e servizi allo stato in cambio di moneta rinuncia comunque a qualcosa in cambio di un “pezzo di carta” che non ha valore intrinseco. Di per sé, stampare moneta non crea ricchezza.

9. Con l’inflazione e la lira si stava meglio perché l’inflazione erodeva le risorse dei creditori e favoriva i debitori.

L’inflazione (inattesa, cioè se non è riflessa nei tassi di interesse nominali) trasferisce risorse dai creditori ai debitori. Nel caso del debito pubblico i creditori sono i risparmiatori che detengono il debito e il debitore è lo Stato (si veda la nota https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-il-divorzio-fra-banca-d-italia-e-tesoro-teorie-sovraniste-e-realta). L’inflazione è sicuramente una delle modalità per ridurre il peso del debito. Se io presto 100 euro allo stato e i prezzi aumentano, al momento del rimborso del debito con 100 euro ci compro meno cose: io ci perdo, lo stato ci guadagna (a meno che il tasso di interesse nominale compensi l’aumento dei prezzi). L’inflazione agisce come una tassa. Negli anni ‘70 questa tassa operava alla grande. Era per questo che, nonostante elevati deficit primari (cioè anche al netto degli interessi), il rapporto tra debito pubblico e Pil aumentò meno negli anni ‘70 che negli anni ‘80. Negli anni ’70 la tassa da inflazione, questa tassa occulta, era più elevata. Quindi, nessun miracolo: non ci si accorgeva di pagare una tassa che invece pesava sui risparmiatori.

10. Quando c’era l’inflazione, la disoccupazione non c’era.

Non è proprio così. Se prendiamo i dati dal 1960 in poi, vediamo che fino al 1972 l’inflazione era inferiore al 10 per cento e la disoccupazione era inferiore al 6 per cento. Dal 1973 al 1984 c’è stata una fase di elevata inflazione seguita da un aumento di disoccupazione. Dal 1980 circa c’è stato un calo dell’inflazione e un aumento della disoccupazione fino al 1999. Da quel momento l’inflazione è rimasta molto contenuta e al tempo stesso si è verificata una riduzione della disoccupazione fino a circa il 6 per cento nel 2007. Con la crisi l’inflazione è rimasta bassa, mentre la disoccupazione è aumentata molto.

11. Il divorzio tra il Tesoro e Banca d’Italia nel 1981 è la causa principale dell’’aumento del debito pubblico in Italia.

Non è vero. Il debito pubblico è cresciuto dalla fine degli anni ‘60 per lo squilibrio tra entrate e uscite al netto degli interessi. Questo ha creato un deficit primario che alimentava il debito. Negli anni ‘70 l’effetto di questo deficit sul rapporto tra debito pubblico e Pil veniva contenuto dall’inflazione, la tassa che erode il valore dei titoli di stato in termini di potere d’acquisto. Non piaceva a nessuno questa situazione. Il divorzio e la stretta monetaria che è seguita a questo è stata necessaria per ridurre l’inflazione e la relativa tassa. A quel punto sarebbe stato necessario stringere gradualmente i conti pubblici, mentre si sono mantenuti durante gli anni ‘80 deficit primari molto consistenti. Questo ha causato l’aumento più rapido del rapporto tra debito e Pil. Per saperne di più, potete leggere la nota al link: https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-il-divorzio-fra-banca-d-italia-e-tesoro-teorie-sovraniste-e-realta.

12. C’è chi sostiene che negli ultimi anni il debito pubblico sia sempre aumentato e chi no. Chi ha ragione?

Occorre un chiarimento: un conto è parlare di “livelli del debito”, un altro conto è parlare in “debito in rapporto al Pil”. Nel primo caso: parlando di livelli, cioè debito espresso in miliardi di euro, finché c’è un deficit (più uscite rispetto alle entrate) ci sarà sempre un aumento del debito. È matematico, infatti la variazione del debito da un anno all’altro è uguale al deficit (salvo per discrepanze statistiche dovute all’omissione dalla definizione di deficit di cose che comunque richiedono di essere finanziate, per esempio l’accumulo di depositi da parte dello stato). Quindi in termini di livelli è normale che il debito aumenti in presenza di un deficit. E siccome negli ultimi anni abbiamo continuato ad avere deficit, il debito ha continuato a crescere (Figura 2). Ma l’avere un deficit, non sempre implica un aumento del debito in rapporto al Pil (Figura 1). Trattandosi di un rapporto infatti contano sia il numeratore sia il denominatore. Perciò ci possono essere dei casi in cui il rapporto debito/Pil scende o resta stabile nonostante la presenza di un deficit e un debito in aumento, espresso in miliardi. Quindi chi ha ragione sul debito pubblico italiano? Guardando ai dati in miliardi, il debito è sempre aumentato, ma non è vero, invece, in rapporto al Pil.

13. Dicono che i “governi dell’austerità” (Monti, ecc.) hanno prodotto quasi 400 miliardi di debito pubblico: forse qualcosa non funziona? Se occorre stringere i conti pubblici per ridurre il debito, com’è che il debito è aumentato in tutti questi anni di austerità?

Come chiarito nella risposta precedente, finché c’è un deficit, il debito continua ad aumentare. Se il deficit si riduce per effetto di politiche restrittive, il debito aumenta meno rapidamente, ma aumenta. Insomma, le politiche “di austerità”, termine con cui, presumibilmente, si intendono politiche di riduzione del deficit, non possono bloccare la crescita del debito, in miliardi, finché il deficit non viene eliminato. La questione è un po’ più complicata se si parla del rapporto tra debito pubblico e Pil. Qui, però occorre chiarire prima di tutto che se il debito sta aumentando rispetto al Pil, come stava aumentando nel 2011, ci vuole inevitabilmente un po’ di tempo prima che la riduzione del deficit pubblico abbia affetto sul rapporto tra debito pubblico e Pil. Insomma, se sta andando a 130 all’ora e freno, ci vuole un po’ di tempo prima che la mia auto si fermi, ma non verrebbe in mente a nessuno di dire che la macchina va ancora avanti (il debito aumenta), perché sto frenando. Occorre anche tener presente che, dopo le politiche restrittive del governo Monti, la politica fiscale è diventata meno restrittiva, con una progressiva riduzione dell’avanzo primario (la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi). Insomma, si è tolto un po’ il piede dal freno. Questo è quello che è avvenuto di fatto. C’è poi chi solleva un punto teorico: se io riduco il deficit, questo mi fa scendere il Pil e se la riduzione del Pil è sufficientemente forte (se il “moltiplicatore” è sufficientemente alto) il rapporto tra debito pubblico e Pil potrebbe addirittura crescere. Questo è vero ma è solo un effetto di breve termine, anche ammettendo che la stretta fiscale abbia un effetto permanente sul livello del Pil. Questo accade perché la stretta fiscale ha un effetto sul livello del Pil, ma ha un effetto di lungo periodo sul tasso di crescita del debito. Nel primo anno di una stretta fiscale, è possibile che il debito si riduca (rispetto al suo tracciato in assenza della stretta fiscale) meno della riduzione del Pil, ma poi il Pil resta fermo, mentre il debito continua a ridursi. Infine, occorre considerare che, in certi casi, in assenza di una correzione fiscale il Pil potrebbe cadere anche più rapidamente di come farebbe per effetto della restrizione fiscale. Se, nel 2011, non ci fosse stata una correzione fiscale, l’Italia probabilmente avrebbe perso l’accesso ai mercati (lo stato non avrebbe potuto più prendere a prestito soldi) il che avrebbe comportato la “fusione” dell’economia italiana. Certo, questo sarebbe stato evitato se le istituzioni europee ci avessero finanziato “a rubinetto”. Ma questo è irrealistico. E se avessimo avuto la nostra banca centrale? Vedi sopra le risposte sul finanziamento monetario del deficit pubblico. Fra l’altro diversi segnali indicano che anche senza la stretta fiscale il Pil sarebbe comunque sceso nel 2012: lo spread molto elevato già a partire da maggio 2011; il credito alle imprese in rallentamento già nei primi mesi del 2011; la contrazione del Pil trimestrale nel corso del 2011; i dati mensili sulla produzione industriale che calano da maggio 2011. La causa del rallentamento dell’economia era principalmente additabile all’aumento dello spread, che senza quella stretta alla politica fiscale sarebbe stato ancora più alto. Quello che possiamo dire, quindi, è che la stretta fiscale del 2012 ha avuto un effetto negativo sul Pil sia rispetto all’anno precedente, sia rispetto all’ipotesi di cosa sarebbe avvenuto se, in assenza di tale stretta, fosse stato mantenuto l’accesso ai mercati e lo spread fosse sceso nella seconda parte del 2012. Ma probabilmente, in assenza di quell’intervento, la situazione sui mercati finanziari sarebbe peggiorata e il nostro Pil sarebbe sceso a livelli inferiori di quelli effettivamente realizzati.

Questi temi sono anche toccati nelle due note sottostanti:

https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-l-andamento-del-debito-dopo-la-stretta-fiscale-del-2012 e

https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-un-po-di-chiarezza-sulla-stretta-fiscale-del-2012.

14. Il Giappone ha un debito più alto del nostro eppure sta bene.

Non eccessivamente bene. Abbiamo scritto una nota apposta per sfatare questa leggenda (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-giappone-un-paradiso-sovranista). In breve, il Giappone non è il regno del bengodi: nell’arco degli ultimi 25 anni il Giappone, insieme a Grecia e Italia, è stato tra i tre paesi con il più basso tasso di crescita del reddito pro capite (al netto dell’inflazione) di tutti i paesi avanzati, come riflesso di un basso tasso di crescita della produttività. Le cause di questa bassa crescita sono strutturali e a queste non ha potuto porre rimedio una gestione piuttosto rilassata delle politiche fiscali e monetarie.

15. È vero che la politica monetaria in Europa è dominata dalla Germania?

No, la Banca Centrale Europea (BCE) ha il mandato di tenere l’inflazione dell’eurozona vicina ma inferiore al 2 per cento. Per farlo si avvale di strumenti di politica monetaria convenzionali e non. Negli ultimi anni le principali decisioni prese dalla BCE (compreso il Quantitative Easing, cioè l’acquisto (soprattutto) titoli di Stato per immettere moneta nel sistema economico) sono state prese nonostante il voto contrario del governatore della Bundesbank Weidmann. La Germania è stata messa all’angolo. Casomai era negli anni ’80 e ’90 che la politica monetaria in Europa veniva decisa dalla Germania: quando quest’ultima aumentava o abbassava i tassi di interesse le altre banche centrali spesso dovevano seguire per evitare ripercussioni sul mercato dei cambi.

16. I mercati sperano in una crisi dei governi?

I mercati sono come una qualunque persona che presta i soldi a un’altra persona: sperano innanzitutto che gli vengano restituiti i soldi (e restituiti nella stessa valuta a cui sono stati prestati, cioè in euro). Meglio ancora se chi deve restituire i soldi è una persona seria, puntuale e affidabile. In altre parole, sperano nella stabilità, nella sicurezza dei loro investimenti e nell’assenza di rischi (avversione al rischio).

Aumentare il debito pubblico eccessivamente significa aumentare il rischio dell’investimento per chi acquista i nostri titoli di debito: gli investitori richiedono allora un aumento dei tassi di interesse per essere compensati dal maggiore rischio.

17. Perché la Francia, che ha sforato il 3 per cento di deficit e ha avuto picchi del 7 per cento, non è stata penalizzata dall’Europa?

La Francia rientra tra quei paesi che la Commissione ha definito avere uno “squilibrio macroeconomico” ed è stata sotto a procedura di deficit eccessivo per diversi anni. È vero che non è stata mai penalizzata, in termini di multe, ma nessun paese europeo è mai stato penalizzato, neppure l’Italia.

18. Con un avanzo nei conti con l’estero che in passato ha superato l’8 per cento del Pil, la Germania non ha violato i Trattati europei?

La procedura relativa agli squilibri macroeconomici, introdotta nel 2011, nell’Unione Europea identifica sì un tetto massimo per l’avanzo con l’estero (pari al 6 per cento del Pil), ma si tratta di un tetto usato indicativamente dalla Commissione, non un tetto fissato dai trattati. Ciò detto, sarebbe utile alla stabilità dell’area euro se la Germania riducesse il proprio avanzo con l’estero, come suggerito anche dalla Commissione, cosa che sta ora avvenendo. Qui potete trovare un approfondimento sul tema: https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-surplus-nei-conti-con-l-estero-la-germania-viola-i-trattati-europei

19. Dovremmo applicare tagli alla spesa e fare austerity per far scendere il debito pubblico?

Per ridurre il debito pubblico, ipotizzando che la differenza tra il tasso di interesse sul debito pubblico e tasso di crescita resti positivo come lo è stato negli ultimi decenni, occorre avere un avanzo primario (differenza tra entrate e spese senza contare la spesa per interessi) sufficientemente ampio. In ogni caso, se si vuole che il rapporto tra debito e Pil scenda a una velocità adeguata (per esempio di 3 punti percentuali all’anno) occorre raggiungere il pareggio di bilancio. Il pareggio di bilancio non è un dogma assoluto. Ci serve se vogliamo ridurre il debito a una velocità adeguata. Come farlo? Non occorre necessariamente tagliare la spesa o aumentare le aliquote di tassazione se è questo che si intende per austerità. In un periodo di crescita economica, anche se lieve, occorre però mantenere la spesa primaria al netto dell’inflazione fissa per qualche tempo. La spesa può aumentare in linea con i prezzi. Per esempio, se lo stato l’anno scorso ha speso 100 e l’inflazione è del 2 per cento, l’anno dopo lo stato può spendere 102. Se riusciamo a crescere a un tasso reale dell’1-1,5 per cento l’anno (cosa che richiede riforme strutturali) le entrate reali dello stato aumentano più o meno alla stessa velocità, anche senza aumentare le aliquote di tassazione. Con le entrate che crescono e la spesa costante, nel giro di 3-4 anni si raggiunge il pareggio di bilancio, senza aver tagliato niente a nessuno e senza aver aumentato le tasse.

20. Perché dovremmo ascoltare le agenzie di rating che sono straniere, fanno gli interessi dei poteri forti e sbagliano sempre?

Il compito delle agenzie di rating è quello di valutare l’affidabilità creditizia di aziende e stati. Il loro giudizio riflette la probabilità che il debitore sia in grado di ripagare il proprio debito. Le agenzie di rating non sempre hanno anticipato lo scoppio di una crisi finanziaria. Ma, casomai, le si potrà accusare di essere sempre state troppo ottimiste. In ogni caso, se le agenzie di rating dicessero “bugie” agli investitori, perderebbero la fiducia degli stessi, con un conseguente calo di autorevolezza. In altre parole, se facessero gli interessi di una “fazione” o dei “poteri forti”, allora non sarebbero più ascoltate e semplicemente perderebbero di importanza.

21. Erano pubblici i soldi regalati alle banche per i salvataggi?

Non è vero che lo stato italiano ha speso 60 miliardi per salvare le banche. Come spiegato in “Pachidermi e Pappagalli – Tutte le bufale sull’economia a cui continuiamo a credere”, di Carlo Cottarelli, Feltrinelli, 2019, il costo degli interventi per sostenere le banche tra il 2011 e il 2018 sarà al massimo di 20 miliardi, probabilmente molto meno. In ogni caso, i soldi “regalati alle banche” sono stati dati per evitare che le perdite nei bilanci delle banche ricadessero sui risparmiatori. Insomma, se non si mettevano quei soldi occorreva fare un “bail in” (salvataggio interno) più ampio di quello che c’è stato. La cosa paradossale è che quelli che non vogliono il bail in ("imposto dall'Europa") e che vogliono salvare tutti i risparmiatori (depositanti, obbligazionisti, azionisti) sono gli stessi che si lamentano dei miliardi dati alle banche. Naturalmente, le colpe penali e civili degli amministratori delle banche vanno punite severamente.