Abbiamo bisogno di un Piano Marshall?
di Pietro Mistura
16 aprile 2020
Per uscire dalla crisi economica causata dal coronavirus, molti auspicano un Piano Marshall europeo. In questa nota vengono discusse le differenze tra lo scenario economico post-bellico e quello attuale, le forme di condizionalità che caratterizzavano il Piano Marshall e le risorse messe in campo. Rispetto a quest’ultimo punto, le risorse rese disponibili dall’Europa (soprattutto attraverso la BCE), seppure erogate sotto forma di prestiti, sono largamente superiori a quelle previste dal Piano Marshall.
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Per uscire dalla crisi economica causata dal coronavirus, molti auspicano un Piano Marshall europeo. Tuttavia, l’indubbia generosità del Piano Marshall (si trattava prevalentemente di donazioni ai paesi europei da parte degli Stati Uniti), rispetto a quanto sta facendo ora l’Europa, deve essere mitigata da diverse considerazioni: (i) la situazione attuale è molto diversa da quella post-bellica, dove le capacità produttive europee erano state pesantemente ridotte dal conflitto; quello che serve all’Europa, superata l’emergenza medica, sarà una domanda per prodotti europei e non, come nel caso del Piano Marshall, la disponibilità di esportazioni americane per ricostruire il paese; (ii) le risorse del Piano Marshall erano sottoposte a diversi tipi, formali e informali, di “condizionalità”; e (iii) le risorse messe in campo dall’Europa (attraverso soprattutto la BCE), seppure erogate sotto forma di prestiti, sono largamente superiori a quelle previste dal Piano Marshall.
Il Piano Marshall
Lo European Recovery Program (ERP), meglio noto con Piano Marshall, venne annunciato nel 1947 dal Segretario di Stato Marshall e approvato dal Congresso nel 1948 tramite il Foreign Assistance Act, una legge che conteneva anche altri programmi di aiuti a Europa e Cina. Il Piano Marshall prevedeva aiuti volti a favorire la ricostruzione di sedici paesi europei, tra cui Italia e Germania.[1]
Inizialmente vennero stanziati 5 miliardi di dollari che nel 1952, a fine programma, arrivarono a 14 miliardi (il 5,4 per cento del Pil americano). Di questi, 1,5 miliardi (il 9,2 per cento del Pil medio annuale italiano nel periodo 1948-1952, il periodo di erogazione degli aiuti) vennero destinati al nostro paese. L’assistenza veniva fornita sotto forma di donazioni e, in misura molto minore, crediti a lungo termine (30-40 anni) a tassi d’interesse contenuti (2,5 per cento).[2] Per ricevere gli aiuti, un paese doveva predisporre un programma di utilizzo che veniva inviato all’approvazione dell’OECE, un’organizzazione internazionale che darà poi origine all’OCSE. Una volta approvato, il programma veniva trasmesso all’ECA (European Cooperation Administration) a Washington, che poteva emendarlo e successivamente provvedeva a reperire materie prime, semilavorati e tecnologia da trasferire nei singoli Paesi. Ogni Stato poi vendeva in moneta nazionale agli imprenditori i beni inviati dall'ERP. Il ricavato andava a costituire un “Fondo di contropartita”, le cui risorse dovevano essere, a loro volta, investite in infrastrutture e servizi secondo un piano concordato fra il governo nazionale e l’ERP. Va ricordato che l’Italia con Einaudi seguì una linea diversa per l’utilizzo del Fondo puntando a stabilizzare la moneta e al contenimento del deficit pubblico.[3]
Il Foreign Assistance Act conteneva clausole di condizionalità per la concessione degli aiuti, tra cui:
- promuovere la produzione industriale e agricola;
- implementare misure finanziarie e monetarie che stabilizzassero le valute;
- cooperare con gli altri paesi aderenti al piano di modo da incrementare la rete di commercio;
- fare un uso efficiente e pratico delle risorse del paese, incluse le attività detenute negli Stati Uniti;
- facilitare il trasferimento di materiali scarsi negli Stati Uniti;
- accettare di negoziare un programma futuro di fornitura minima agli Stati Uniti di determinati prodotti dietro il compenso del prezzo di mercato mondiale.
Oltre a queste condizioni, i paesi aderenti al piano erano fortemente incoraggiati a incrementare la produzione dei materiali di cui gli Stati Uniti avevano maggior bisogno. Oltre a questa condizionalità palese, le modalità del programma (come si è detto Washington provvedeva a reperire materie prime, semilavorati e tecnologia da trasferire nei singoli Paesi) comportava che una gran parte delle risorse fornite consistessero in esportazioni americane verso l’Europa.[4]
Il Piano Marshall e la risposta alla crisi del coronavirus
La generosità del Piano Marshall è indubbia, soprattutto se messa a confronto con le pesanti riparazioni di guerra fissate col Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale. La più importante potenza economica e militare che invece emerse vincitrice dalla seconda guerra mondiale donò risorse all’Europa, sia agli alleati, sia ai paesi con cui aveva combattuto. Tale generosità è stata messa a confronto con la presunta mancanza di solidarietà in Europa nell’affrontare la crisi del coronavirus. Tre punti però devono essere considerati per mettere le cose nella giusta prospettiva:
- la situazione attuale dell’Europa è molto diversa da quella post-bellica, dove la prima necessità era di ricostruire le capacità produttive pesantemente compromesse dal conflitto. Lo shock di offerta attuale deriva invece dalla necessità di “rimanere a casa”, non dalla distruzione di capitale produttivo. Quello di cui l’Europa ha bisogno ora sono risorse finanziarie per attenuare gli effetti delle chiusure sulle famiglie e sulle imprese (evitando crisi di liquidità) e, una volta superata l’emergenza medica, di una spinta sulla domanda aggregata. Il tipo di aiuti che veniva offerto dal Piano Marshall, che in pratica consisteva di esportazioni dall’America all’Europa, con benefici per l’occupazione americana, non sarebbe utile per affrontare la crisi attuale. All’Europa serve una domanda di prodotti europei, non l’offerta di prodotti importati.
- le risorse del Piano Marshall erano sottoposte a diversi tipi, formali e informali, di “condizionalità”. Come è pratica comune nelle relazioni internazionali, gli aiuti raramente arrivano per pura generosità. Oltre agli elementi di condizionalità citati sopra (e l’implicito sussidio dato alle esportazioni americane verso l’Europa) molti storici hanno affermato l’esistenza di una condizionalità politica meno palese, compresa una chiara collocazione a ovest della cortina di ferro dei paesi che ricevevano gli aiuti.[5]
- le risorse messe in campo dall’Europa, soprattutto attraverso la BCE, eccederanno di molto quelle previste dal Piano Marshall. Limitandoci al nostro paese, la BCE solo quest’anno presterà all’Italia, attraverso l’acquisto di titoli di Stato e di titoli privati con i vari programmi di quantitative easing, almeno 240 miliardi (il 14 per cento del Pil italiano).[6] In un singolo anno l’erogazione sarà quindi ben superiore agli importi, cumulati su quattro anni, forniti dal Piano Marshall al nostro paese (9,2 per cento del Pil medio nel periodo di erogazione, come sopra indicato). È vero che il Piano Marshall comprendeva donazioni e non prestiti, ma: (a) gli acquisti di titoli della BCE beneficiano l’Italia anche riducendo il tasso di interesse sui titoli di Stato in generale; (b) il costo degli interessi è in parte restituito all’Italia tramite i profitti della BCE (trasferiti alla Banca d’Italia e da questa allo Stato); (c) la scadenza dei prestiti, principalmente titoli di Stato a lungo termine, è elevata e la BCE ha finora rinnovato tutti i titoli che giungevano in scadenza coi programmi di quantitative easing; e (d) l’importo sopra indicato per gli acquisti si riferisce solo al 2020, quando invece i programmi di acquisti di titoli italiani proseguiranno per importi probabilmente molto elevati anche nel 2021.
[1] La finalità del Piano Marshall era di dare una svolta “alla situazione che caratterizza[va] i paesi dell’Europa, situazione che mette[va] a rischio la prosecuzione di una pace duratura e la realizzazione degli obiettivi delle Nazioni Unite. Il ripristino e il mantenimento delle libertà individuali e delle libere istituzioni dipendono largamente dalle condizioni economiche e dall’indipendenza da aiuti esterni”. A tale scopo gli Stati Uniti si impegnarono “a fornire materiale e assistenza finanziaria ai paesi partecipanti al piano per incrementare la produzione agricola e industriale, per stabilizzare il valore delle valute e dei bilanci, per stimolare il commercio internazionale e la riduzione delle barriere tariffarie”. Si veda il testo del “Foreign Assistance Act”, 1948.
[2] Da “L’Italia economica” di Paolo Pecorari, CEDAM, terza edizione, 2009.