Nel 2023, 5,7 milioni di persone vivevano in povertà assoluta in Italia, il 9,7% della popolazione. Negli ultimi vent’anni la povertà nel nostro Paese è cresciuta tendenzialmente, ma per ragioni diverse. Fino al 2019, l’aumento riflette in buona parte il calo del reddito dell’intera economia, anche se il Pil reale è sceso meno delle retribuzioni (2,4% contro il 5,3% tra il 2005 e il 2019), con un conseguente spostamento della distribuzione del reddito a sfavore dei lavoratori dipendenti. Negli ultimi anni, a pesare sull’aumento della povertà è stata invece l’inflazione, che ha colpito soprattutto i redditi più bassi, causando una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti, in presenza di un aumento, seppur limitato, del reddito complessivo. L’Italia nel 2024 era al settimo posto tra i Paesi UE per persone a rischio povertà o esclusione sociale: il 23,1% contro una media del 21%. Infine, nonostante la povertà sia tuttora più diffusa nel Mezzogiorno, l’aumento recente ha riguardato principalmente il Nord.
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Negli ultimi anni, il numero di persone in povertà in Italia si è portato a livelli record. Questa nota fa il punto su questa situazione, analizzando quali fattori spiegano l’aumento e come ci collochiamo nel confronto internazionale.
La povertà assoluta in Italia
Diversi indicatori misurano la povertà. Uno di questi è l’indice di povertà assoluta, ossia la percentuale di individui o famiglie la cui spesa mensile è inferiore a una soglia di spesa necessaria per acquistare un paniere di beni e servizi considerati essenziali per mantenere uno stile di vita accettabile.[1] Nel 2023 (ultimo anno per cui si hanno dati ufficiali), erano in povertà assoluta circa 5,7 milioni di persone, il 9,7% della popolazione italiana (Fig. 1), con un aumento tendenziale e quasi continuo dal 2005. Le cause di questo aumento sono però cambiate nel corso del tempo.
Tra il 2005 e il 2019, l’aumento della povertà è stato pesantemente influenzato dalla bassa crescita dell’intera economia italiana e dal conseguente basso aumento delle retribuzioni. In termini reali, queste calano di più del Pil, con un parziale cambiamento della distribuzione del reddito a sfavore dei redditi dei lavoratori dipendenti. In particolare, tra il 2005 e il 2019:
- Il Pil reale diminuisce del 2,4% in Italia, mentre aumenta del 23,2% in Germania e del 17% in Francia. Nell’intera Eurozona (esclusa l’Italia), l’aumento è del 20,4%.[2]
- Le retribuzioni dei lavoratori dipendenti italiani crescono in termini nominali a un tasso annuale medio dell’1,1%, contro l’1,9% dei francesi e il 2,3% dei tedeschi, e meno del tasso di inflazione (1,5%).[3] In termini reali, le retribuzioni calano cumulativamente del 5,3% in Italia mentre aumentano dell’11,9% in Germania e del 6,8% in Francia.
Il calo delle retribuzioni ha aumentato il “lavoro povero” e ha fatto sì che il reddito da lavoro non bastasse più a proteggere dal rischio di povertà. La tendenza è confermata dalle stime Eurostat sulla percentuale di lavoratori a rischio di povertà: in Italia è salita di 3 punti tra il 2005 e il 2019 (Fig. 2), raggiungendo l’11,8% e aumentando così il divario rispetto a Francia (7,4%) e Germania (8%).[4]
All’interno di questo periodo, l’aumento è più forte tra il 2011 e il 2014, il periodo della “crisi del debito europeo”. Successivamente, all’aumento della povertà contribuiscono anche i flussi migratori. Tra il 2014 e il 2015, gli stranieri in povertà assoluta aumentano di 354.000, mentre si riduce il numero degli italiani poveri (90.000 in meno). Tra il 2014 e il 2023, la quota di stranieri poveri sul totale era circa il 30% (tranne nel 2015, in cui si è arrivati al 38%), nonostante gli stranieri rappresentino solo l’8,5% dei residenti.
Nel 2019 si ha una discesa temporanea del numero delle persone in povertà, in corrispondenza dell’introduzione del Reddito di cittadinanza, anche se il calo è modesto: l’annunciata “abolizione della povertà” non si realizza.
Il secondo periodo è quello del 2020-2023. A causa della pandemia e delle relative restrizioni, il numero di poveri cresce di oltre 900.000 individui nel 2020. Il numero delle persone in povertà, però, non scende alla fine della pandemia, probabilmente per il balzo dell’Inflazione nel 2021-22: data l’inerzia dei salari fissati da contratti triennali, l’inflazione ha comportato un taglio delle retribuzioni reali fino a 13 punti percentuali nel novembre del 2022 rispetto al livello “base” di marzo 2021 (Fig. 3).
L’impatto dell’inflazione è stato particolarmente forte per i redditi più bassi perché le famiglie meno abbienti dedicano una quota maggiore della spesa all’acquisto dei beni che nel 2022-2023 hanno avuto i maggiori rincari, in particolare i beni energetici. L’inflazione per le famiglie nel 20% più basso in termini di consumi è stata costantemente più alta nel 2021-23 di quella del 20% più alto, con un differenziale che ha raggiunto punte di oltre sette punti percentuali (Fig.4).[5]
In questo periodo, la povertà cresce dunque perché i prezzi crescono più delle retribuzioni, con una riduzione dei salari reali. In presenza di un aumento del reddito complessivo (il Pil reale cresce del 5,6% nel quinquennio 2020-24), il taglio dei salari reali è quindi accompagnato da uno spostamento della distribuzione del reddito verso i profitti.
Il confronto con gli altri Paesi
Per un confronto internazionale, in assenza di dati coerenti sulla povertà assoluta (Istat è infatti l’unico istituto di statistica europeo che pubblica dati sulla povertà assoluta), è necessario focalizzarsi sugli individui in povertà relativa (ossia la percentuale di persone che vivono in famiglie in cui il reddito netto equivalente è inferiore al 60% del reddito mediano) e su quelli a rischio di esclusione sociale, ossia quelli appartenenti a famiglie i cui componenti hanno lavorato nel 2023 meno del 20% del tempo (famiglie “a bassa intensità di lavoro”), oppure che si trovano in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale.[6]
Nel 2024 l’Italia era settima in Europa, con il 23,1% della popolazione che si trovava in una delle condizioni descritte sopra, sopra la media UE del 21% (Fig. 5). Fanno peggio dell’Italia solo Bulgaria, Romania, Grecia, Spagna, Lituania e Lettonia.
Le differenze territoriali
La povertà assoluta è più elevata nel meridione, ma l’aumento nell’ultimo decennio ha colpito soprattutto le famiglie del Nord (Fig. 6). Nel 2023 le famiglie in povertà assoluta erano il 7,9% al Nord, il 6,7% nel Centro e il 10,2% nel Mezzogiorno (Sud e Isole). Rispetto al 2014, la differenza di povertà assoluta tra Nord e Sud si è però più che dimezzata, passando da 5,4 a 2,3 punti. Purtroppo, questo non è avvenuto per la riduzione della povertà nel Mezzogiorno (in cui è aumentata), ma per la forte crescita al Nord (3,7 punti).
Perché la povertà cresce più al Nord che al Sud? Una possibile spiegazione riguarda le modalità di erogazione delle misure di sostegno alla povertà degli ultimi anni che sono state uniformi su tutto il territorio nazionale: il valore reale del beneficio è quindi più elevato nelle aree dove il costo della vita è minore.
[1] Il paniere utilizzato dall’Istat è formato da tre categorie di beni e servizi: alimentazione, alloggio e una componente residuale (abbigliamento, mezzi di comunicazione, trasporti, istruzione e salute). La soglia dipende dalla zona geografica di residenza e dalla composizione del nucleo familiare. L’indice di povertà assoluta fa parte dei dodici indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) utilizzati dal 2018 per valutare l’effetto delle misure contenute nella Legge di Bilancio ed è calcolato dall’Istat in base a sondaggi (l’Indagine sulle spese per consumi delle famiglie) in cui gli intervistati forniscono informazioni sulla spesa per consumi. Questo comporta che l’indice tiene conto delle misure pubbliche per contrastare la povertà.
[2] Vedi la nostra precedente nota, “Negli ultimi 25 anni, sotto quale governo il Pil ha fatto meglio rispetto all’Eurozona?”, 23 maggio 2025. In questo periodo l’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi europei sia nella crescita dei salari, che nella crescita dei profitti; vedi “Le retribuzioni e i profitti in Italia e nell’Eurozona”, 1 luglio 2022.
[3] I dati riportati si riferiscono alla retribuzione lorda annua per dipendente, ottenuta dividendo il totale dei redditi da lavoro dipendente per il numero dei dipendenti (vedi Eurostat, Labour productivity and unit labour costs, Compensation per employee).
[4] Il tasso di lavoratori a rischio povertà si riferisce però a un concetto di povertà “relativa”, cioè la percentuale di persone occupate con un reddito netto (cioè al netto di imposte e trasferimenti) inferiore al 60% del reddito netto mediano nazionale.
[5] Il dato utilizzato per “ordinare” le famiglie in classi (“quinti”) di spesa è la spesa mensile equivalente, ottenuta dividendo la spesa mensile per un coefficiente che tiene conto della numerosità della famiglia. Ciascuna classe di spesa presenta una diversa composizione del paniere utilizzato per calcolare l’indice IPCA (Fig. 4). Tale composizione è ottenuta applicando ponderazioni che riflettono il peso di ogni voce di spesa nel bilancio di ogni classe.
[6] Sono considerate in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale le famiglie che registrano almeno sette segnali di deprivazione su una lista di tredici, tra cui non poter sostenere spese impreviste, non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno o essere in arretrato nel pagamento di bollette, affitto o mutuo.