La nota analizza le evidenze del report State of the World’s Nursing 2025 dell’OMS, che offre una visione dello stato della professione infermieristica nei diversi Paesi del mondo. L’infermiere è una figura essenziale nel funzionamento dei sistemi sanitari e, in un contesto segnato da rischi sempre più imprevedibili, diventa evidente la necessità di un intervento istituzionale e sovranazionale. Vengono infatti evidenziati squilibri globali che aumentano la domanda di personale infermieristico (clima, conflitti, migrazioni, invecchiamento) e che influiscono sull’offerta (formazione, condizioni di lavoro, retribuzioni, migrazioni). L’OMS indica anche gli obiettivi di medio termine per garantire un accesso equo alla sanità, traguardo che passa, in larga parte, da un numero e una qualità adeguati di infermieri per raggiungere una copertura sanitaria universale. L’Italia registra una carenza importante di infermieri che potrà essere colmata nel breve periodo solo attraverso politiche migratorie mirate.
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Il rapporto State of the World’s Nursing dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) rappresenta in modo sistematico lo stato corrente della forza lavoro infermieristica nei diversi Paesi del mondo, con dati granulari per ogni Paese raccolti tra il 2018 e il 2023. La versione del 2025 aggiorna le informazioni su quanti sono gli infermieri, dove lavorano, come si formano, con quali condizioni retributive e organizzative, e quali priorità guidano le politiche del settore fino al 2030. In un contesto globale segnato da invecchiamento, tensioni politiche, rischi climatici e ristrettezze nei bilanci pubblici, senza un numero adeguato di infermieri con competenze aggiornate e flessibili nella gestione di crisi inattese, la copertura sanitaria universale (in inglese, Universal Health Coverage, UHC) e la resilienza dei sistemi sanitari restano obiettivi difficilmente raggiungibili. Il rapporto fornisce ai governi e alle istituzioni sanitarie una base empirica e operativa per pianificare, rafforzare e rendere sostenibile la forza lavoro infermieristica globale, in coerenza con l’agenda dell’OMS che tutti, ovunque, devono poter accedere a servizi sanitari essenziali di qualità – promozione, prevenzione, cura, riabilitazione, palliativi – senza difficoltà finanziarie.
L’OMS dedica un rapporto specifico agli infermieri perché costituiscono il gruppo professionale più numeroso e diffuso nel settore sanitario a livello mondiale (circa la metà dell’intera forza lavoro impiegata) e rappresentano un input fondamentale nella produzione di molti servizi. Sono presenti in tutti i livelli del sistema: dagli ospedali ai servizi territoriali, dalle scuole alle case di riposo, fino all’assistenza domiciliare, coprendo un arco di attività che va dalla promozione della salute e della prevenzione alla cura, riabilitazione, emergenze e funzioni di sanità pubblica. La presenza capillare e il ruolo multifunzionale rendono l’infermiere, spesso, il primo e principale contatto dei pazienti con il sistema sanitario, soprattutto nelle aree rurali e marginali. Sono molti gli effetti sociali di un settore infermieristico solido e all’avanguardia. Il primo, e il più ovvio, è che esiste una correlazione tra numero di infermieri e mortalità. Per esempio, alcuni lavori mostrano che laddove è più alto il numero di infermieri rispetto alla popolazione, e maggiore è la quota di infermieri laureati, più è bassa la mortalità ospedaliera.[1] Vale anche l’opposto: i turni ospedalieri in sottorganico producono un aumento misurabile dei decessi; per cui ogni euro ben speso per rafforzare il personale infermieristico, ove necessario, rientra in salute ed efficienza.
Secondo il rapporto, nel 2023 gli infermieri nel mondo erano 29,8 milioni – in aumento rispetto ai 27,9 del 2018 – con una densità media di 37,1 per 10.000 abitanti. La distribuzione è però fortemente diseguale, dato che circa il 78% degli infermieri lavora nelle regioni delle Americhe, Europa e Pacifico Occidentale, che insieme ospitano il 49% della popolazione mondiale; i Paesi ad alto reddito contano il 46% degli infermieri pur rappresentando appena il 17% della popolazione globale.[2] Queste asimmetrie si traducono in un minore accesso all’assistenza infermieristica in vaste aree del mondo e in pressioni crescenti sui sistemi sanitari con densità inferiore agli standard. Un tema importante è quello della carenza di infermieri, stimata dall’OMS come deficit globale di 5,8 milioni di professionisti nel 2023, che potrebbe ridursi a 4,1 milioni nel 2030;[3] tuttavia circa il 70% della carenza prevista per il 2030 si concentrerà nelle regioni dell’Africa e del Mediterraneo Orientale, segnalando un aggravamento di disuguaglianze colmabili solo con un raddoppio dello stock di infermieri, ad oggi un obiettivo fuori portata.
La carenza è una misura di scostamento rispetto a un target medio ottimale di densità di infermieri sulla popolazione, attualmente fissato a 27,5 infermieri ogni 10.000 abitanti (la mediana del 2013). Per proiettare stock e densità al 2030, il rapporto parte dallo stock 2023, aggiunge i nuovi laureati – assumendo che il 70% di essi venga assorbito dal mercato del lavoro sanitario – e sottrae i progressivi pensionamenti (con età pensionabile fissata a 65 anni). In pratica, per ciascun Paese con densità inferiore alla soglia, la carenza è data dal numero di infermieri aggiuntivi necessari per arrivare almeno a quel livello. I Paesi sopra la soglia non entrano nel conteggio globale, ma ciò non preclude che possano avere carenze rispetto ai propri target nazionali, determinati anche secondo criteri non numerici. La densità nazionale non è infatti una misura adeguata a catturare aspetti altrettanto rilevanti, come gli effetti di distribuzione diseguale del personale infermieristico tra zone rurali e urbane, oppure tra ospedali e territorio, così come un quadro chiaro delle competenze di ciascun infermiere. Se quindi è importante aumentare numeri e densità, lo è altrettanto il “dosaggio” degli infermieri nei diversi contesti per gestire le sempre più numerose, peculiari ed esigenti condizioni sanitarie delle persone. Le evidenze indicano che nei Paesi in cui gli infermieri svolgono anche ruoli avanzati si registrano un maggiore accesso alle cure e migliori esiti clinici dei pazienti. Aumentare soltanto i numeri, senza specializzare le competenze, incide poco su qualità ed efficienza. In questo senso, l’ampliamento dello scope of practice (l’ambito di competenze) e la diffusione della figura dell’Advanced Practice Nursing (APN) possono rafforzare il settore, ma soprattutto nei Paesi ad alto reddito.[4] Dove invece il problema è la bassa densità, la priorità resta creare posti di lavoro e accelerare l’assorbimento nel mercato, piuttosto che moltiplicare figure iperspecializzate.[5]
Prospettive e rischi del settore
Il rapporto individua due grandi fronti di cambiamento a livello mondiale: gli shock che fanno crescere la domanda di infermieri e i mutamenti tecnici che incidono sull’offerta, in quantità e qualità. Si parla di shock sulla domanda di infermieri per quei fenomeni che determinano un incremento delle condizioni per cui si richiede personale infermieristico operativo. Il cambiamento climatico è un caso eclatante, poiché amplifica rischi sanitari acuti (ondate di calore e incendi, inondazioni, uragani, epidemie) e cronicizza i bisogni sanitari, dalle malattie respiratorie a quelle cardiovascolari fino alla salute mentale, aumentando la domanda di prevenzione, sorveglianza e risposta sul territorio durante e dopo le emergenze. Lo stesso effetto è prodotto da guerre, conflitti e crisi economiche, che accrescono il bisogno di assistenza d’urgenza. Questi eventi, sommati, spingono anche le persone a migrare verso aree più sicure. Le migrazioni generano poi nuovi bisogni sanitari complessi — traumi, salute mentale, malattie infettive o croniche non trattate — e richiedono competenze interculturali e linguistiche. Il fenomeno della migrazione porta anche allo svuotamento professionale della classe di infermieri del Paese d’origine e alla concentrazione del personale sanitario in Paesi attrattivi, aggravando carenze e maldistribuzione. Dalla combinazione di clima, guerre e migrazioni si ha, pertanto, un aumento delle disuguaglianze sanitarie. La carenza di infermieri, che dovrebbero essere un presidio di equità, colpisce soprattutto i più poveri e marginalizzati, con ricadute a catena in termini di scarsa prevenzione, più malattie e minori opportunità di lavoro. Non a caso, i Paesi più esposti a rischi esistenziali — climatici, umanitari o bellici — sono anche quelli con la densità infermieristica più bassa e quindi i più vulnerabili in caso di crisi (Figg. 1-2). Infatti, le carenze colpiscono proprio dove gli indici compositi di rischio registrano i valori più elevati.[6] Al contrario, le aree ad alto reddito concentrano una quota sproporzionata di personale infermieristico pur con rischi sistemici molto più bassi. I colli di bottiglia nei Paesi più esposti riflettono vincoli strutturali nella formazione e istruzione, nella capacità economica e dei bilanci pubblici di creazione di posti di lavoro, aggravati da salari bassi e divari alti.


Sul lato dell’offerta infermieristica incidono in modo determinante i fattori demografici e tecnologici. La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale migliorano l’efficienza dei servizi sanitari attraverso, ad esempio, cartelle cliniche elettroniche, che riducono gli oneri burocratici, nel supporto decisionale, nello screening e nel triage di primo contatto. È altresì utile nella formazione del personale, fase in cui è cresciuto l’uso di simulatori virtuali e piattaforme online per diffondere competenze cliniche di base anche a studenti in aree remote o con poche risorse. Intanto crescono la telemedicina e l’uso di dispositivi indossabili per monitorare i pazienti a distanza. Sono però strategie utili solo laddove il personale infermieristico c’è e le infrastrutture consentono l’uso di tecnologie avanzate.
Sul fronte demografico, i Paesi più poveri – ad alto rischio – perdono infermieri a causa delle migrazioni, mentre nei Paesi ricchi – in genere a basso rischio – la causa principale della contrazione del personale è l’invecchiamento. In Europa oltre il 20% degli infermieri ha più di 55 anni; nei prossimi 10-15 anni l’uscita progressiva ridurrà i ritmi di crescita dell’offerta di infermieri. Infatti, l’attuale sistema non sarà in grado di produrre sufficiente personale per sostituire chi esce e coprire la domanda crescente. Con l’invecchiamento della popolazione aumenta poi il numero di pazienti per ciascun infermiere, e con esso burnout e stress, tra le prime cause di abbandono o assenteismo del personale sanitario. Solo il 55% dei Paesi ha norme su orari e condizioni di lavoro, e appena il 42% sul benessere psicologico del personale, lacuna emersa durante la pandemia. È chiaro quindi come tra gli obiettivi principali vi sia anche quello di migliorare le condizioni di lavoro del personale infermieristico, politica che rafforzerebbe l’efficienza del sistema e renderebbe più attraente la professione, anche agli occhi di professionisti stranieri.
E in Italia?
In Italia, si osserva uno sbilanciamento del personale sanitario verso la figura del medico a scapito dell’infermiere. Il rapporto tra infermieri e numero di abitanti è più basso rispetto alla media europea (Fig. 3) e a quella OCSE (6,2 per 1.000 abitanti contro 9,2), mentre per i medici supera quella OCSE (4,1 medici per 1.000 abitanti contro 3,7); segnalando una prevalenza relativa di medici rispetto agli infermieri, con un rapporto infermieri/medici di 1,5:1 (media OCSE 2,2:1).[7] Le ragioni sono diverse e indubbiamente legate alla scarsa incidenza di nuovi infermieri, ai pochi posti di lavoro creati, alle possibilità di attività libero-professionali e alle retribuzioni.[8] La retribuzione annua lorda (RAL) italiana media, di €32.600 (al 2022), è inferiore a quella OCSE (€39.800), di molto inferiore alla retribuzione media di un medico, anche al più basso livello di anzianità (€58.436 annuali), e (di poco) inferiore anche a quella di un impiegato full-time (€37.302 nel 2022).[9] I dati suggeriscono che dove gli stipendi sono più alti ci sono più infermieri per abitante. Tra i Paesi con gli stipendi più alti: Belgio, Danimarca e Germania; tra i più bassi: Grecia, Portogallo e Italia, correlazione che fa intuire come l’aumento delle retribuzioni sia tra le leve utilizzabili per incentivare l’offerta di lavoro.

Questo profilo atipico fa il paio con un drammatico trend di invecchiamento della popolazione del nostro Paese. In Italia gli over 65 sono oggi 14,5 milioni, il 24,7% della popolazione (24,3% all'inizio del 2024 e 24,1% nel 2023): una persona su quattro è anziana.[10] Come noto, l’invecchiamento porta con sé più patologie croniche e una modifica rilevante nella composizione delle famiglie: più del 30% degli anziani, circa 4,6 milioni, vive solo. Sono condizioni che chiedono di riorientare il modello assistenziale da uno di tipo ospedaliero ad uno domiciliare. Per rispondere a queste attese, il DM 77 del 2022 ha introdotto la figura dell’Infermiere di Famiglia e di Comunità (IFeC/IFoC), con il compito di garantire prossimità e presa in carico continuativa di persone anziane, fragili e con multimorbidità; molto resta ancora da fare su questo tema.[11]
Oltre al problema dei pensionamenti, il progressivo depauperamento del settore infermieristico è aggravato dalle criticità nella fase di formazione del personale. L’Italia conta circa 17 laureati in infermieristica per 100.000 abitanti (tra i valori più bassi OCSE), contro medie europee attorno a 37–38. Anche se i posti a bando sono cresciuti, con un tasso di conseguimento del titolo universitario di circa il 75%, la formazione effettiva si ferma a meno di 13mila nuovi infermieri l’anno, troppo lenta per neutralizzare la dinamica parallela dei pensionamenti e della crescente domanda.[12] Inoltre, le domande ai corsi di laurea in infermieristica (e i laureati effettivi) sono in calo dal 2010.[13] Con pochi infermieri e tanti pazienti, oltre all’inefficienza generale del singolo rapporto, aumenta anche l’onere assistenziale per ogni professionista. Nei reparti si segnala un rapporto medio di 8,1 pazienti per infermiere e il 50% degli infermieri riporta carenza di personale come principale causa di cure mancate.[14] È un fattore che incide sulle condizioni e sul clima di lavoro che, già traviato da frequenti casi di aggressioni e contenziosi, generano fenomeni di assenteismo (rapporto tra giornate di assenza e giornate lavorabili), pari a più del 15% in Italia.[15]
Conclusioni
Dal rapporto dell’OMS è possibile estrapolare i seguenti ambiti d’intervento per ridurre le carenze e migliorare l’accesso ai servizi. Il primo riguarda l’allineamento della formazione del personale infermieristico alle necessità sanitarie (locali e non) per garantire un più elevato assorbimento dei laureati nel mercato del lavoro. È cruciale far sì che il mix di competenze acquisite durante la formazione sia coerente con le priorità sanitarie emergenti e idiosincratiche di ogni Paese. È poi fondamentale aumentare i cosiddetti “strumenti di ritenzione”, come garantire salari equi e proporzionati (ad esempio, colmando il gender pay gap del 7%), benessere psicologico e tutele sociali all’intero settore infermieristico, specialmente nei Paesi a maggior rischio, per limitare abbandono e riallocazione (deflusso) dello staff nei Paesi a minor rischio. Sono poi necessari più investimenti nel settore sanitario tout court, espandendo i posti di lavoro e migliorando le infrastrutture affinché le disparità nell’accesso delle famiglie alla figura dell’infermiere siano ridotte. In Italia, essendo la carenza un problema strutturale di demografia, risulta più complessa la formulazione di correttivi di breve termine oltre al tentativo di adeguare tutele e retribuzioni agli standard degli altri Paesi europei. Non sorprende, dunque, che il Ministro della Salute abbia riconosciuto la necessità di importare infermieri dall’estero nei prossimi anni.[16]
[1] Aiken, L. H., et al. (2014). Nurse staffing and education and hospital mortality in nine European countries: A retrospective observational study. The Lancet, 383(9931), 1824–1830; Needleman, J., et al. (2011). Nurse staffing and inpatient hospital mortality. The New England Journal of Medicine, 364(11), 1037–1045.
[2] Il report adotta le sei regioni in cui l’OMS suddivide il mondo: Africa, Americhe, Europa, Mediterraneo Orientale, Sud-Est asiatico, Pacifico Occidentale. La Regione Europea include anche Turchia e Russia; Egitto, Marocco, Tunisia, Arabia Saudita, Iran e Pakistan sono nel Mediterraneo Orientale; India, Indonesia, Thailandia e Bangladesh nel Sud-Est asiatico; Cina, Giappone e Australia nel Pacifico Occidentale; Stati Uniti, Canada e l’intero blocco sudamericano sono nelle Americhe; la regione Africa coincide con quella continentale escludendo l’area del Mediterraneo Orientale. Fonte: link.
[3] L’OMS mostra anche uno scenario alternativo in cui l’assorbimento varia (70% nei Paesi ad alto reddito fino a 40% nei Paesi a basso reddito), che porta a una carenza globale leggermente più alta nel 2030 (circa 4,8 milioni contro 4,1).
[4] L’APN viene definito come “un infermiere generalista o specializzato che ha acquisito, attraverso una formazione universitaria avanzata, una base di conoscenze a livello di esperto, capacità di prendere decisioni complesse e competenze cliniche per esercitare una pratica avanzata. Le caratteristiche di questa figura dipendono dal contesto e/o dal Paese in cui è abilitata ad esercitare".
[5] Fonti: Brownwood, I., & Lafortune, G. (2024). Advanced practice nursing in primary care in OECD countries: Recent developments and persisting implementation challenges (OECD Health Working Papers No. 165). OECD Publishing; Maier, C. B., Aiken, L. H., & Busse, R. (2017). Nurses in advanced roles in primary care: Policy levers for implementation (OECD Health Working Papers No. 98). OECD Publishing.
[6] L’INFORM Risk Index è un indicatore composito che combina 54 variabili in tre dimensioni – Hazard & Exposure (probabilità ed esposizione a disastri naturali e conflitti), Vulnerability (fragilità socio-economica e gruppi vulnerabili) e Lack of Coping Capacity (debolezza istituzionale, infrastrutturale e sanitaria) – calcolando il punteggio finale come media geometrica di queste componenti normalizzate (0–10), così da rappresentare in modo sintetico il rischio che una crisi umanitaria o un disastro superi la capacità di risposta nazionale e richieda assistenza internazionale.
[8] Si rimanda il lettore ad una precedente analisi dell’OCPI per un approfondimento sul tema: Cosa spiega il mismatch nel mercato del lavoro socio-sanitario?